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giovedì 30 dicembre 2010

Il suo nome è Freud, Lucian Freud

di Richard Newbury (trad. Marina Verna)

Come ci si sente, si chiede Martin Gayford, a posare da amico, oltreché rinomato critico d'arte internazionale, per due ritratti, un olio e un'acquaforte, fatti da un artista che ancora in vita - ha compiuto 88 anni l'8 dicembre - è diventato Old Master, Antico Maestro, e il cui nonno inventò quell'altra minuziosa indagine che mette a nudo l'essere umano, la psicoanalisi? Quando Martin Gayford si propose come modello a Lucian Freud, si conoscevano già perché qualche volta avevano pranzato insieme o erano andati a un concerto jazz. «Le andrebbe di cominciare il prossimo giovedì sera?». «Ed è stato così - scrive Gayford in Man with a Blue Scarf: on sitting for a portrait by Lucian Freud, il suo libro appena uscito da Thames & Hudson, pp. 247, £ 18,98 - che attraversando lo specchio sono passato dallo scrivere di arte al diventarne un pezzo - anzi due pezzi, l'olio Man with a Blue Scarf e l'acquaforte Portrait Head -, un processo durato più di un anno e mezzo».
Per Lucian Freud tutti i ritratti sono «ritratti nudi», come Benefits Supervisor Sleeping, che, venduto all'asta per 17 milioni di sterline, detiene il record del prezzo più alto pagato per un artista vivente. Oppure Naked Portrait [Verity Brown] (2004), o Irishwoman on a bed (2003-4) o l'assistente di LF David [Dawson] and his dog Eli (2003-4), tutti dipinti contemporaneamente a Man with a Blue Scarf (2003-4) [Martin Gayford] e The Brigadier (2004), ritratto di Andrew Parker Bowles, un altro dei suoi vecchi amici. Sono questi che Freud chiama «ritratti nudi con vestiti». Negli stessi anni 2003-4 dipinse anche due ritratti di cavalli: un «nudo» dei quarti posteriori della Skewbald mare e la testa di un Grey Gelding.
«Io [Gayford] gli chiedo se il mio ritratto sia collegato a quello di David Hackney (2003), dato che sono simili nel formato e nell'angolazione. "No, nella mia testa il tuo ritratto è sempre stato collegato con quello della Skewbald mare (la puledra pezzata) che era appena finito quando la tua testa è cominciata. Ho imparato moltissimo su come dipingere in modo più libero, e sto cercando di applicare quelle lezioni"».
«Cerco di fare qualcosa di piccolo come quello che ho appena fatto. La risposta per me ideale da parte di qualcuno che abbia visto un mio lavoro nuovo sarebbe: Oh, non avevo capito che era suo», dice LF a MF. «Essere capaci di disegnare bene è la cosa più difficile - molto più difficile che dipingere, come si vede dal fatto che ci sono pochissimi grandi disegnatori rispetto al numero dei grandi pittori - Ingres, Degas, e pochi altri».
Nel 1954, l'anno in cui teatralmente passò dai lavori graficamente lineari alla pittura pura, LF scriveva: «Il soggetto dev'essere tenuto sotto la più stretta osservazione: se lo si fa, giorno e notte, il soggetto - lui, lei o esso - rivelerà alla fine il tutto senza il quale la selezione stessa non è possibile».
Gayford osserva che LF considera tutto ciò che dipinge un ritratto. «La sua peculiarità nella storia dell'arte è il suo essere consapevole dell'individualità di ogni cosa. Ha una sensibilità completamente non-platonica, per metterla in termini filosofici. Nel suo lavoro nulla è generalizzato, idealizzato o generico. Insiste sul fatto che anche gli oggetti più umili e - agli occhi della maggior parte delle persone - insignificanti hanno le loro caratteristiche. Di conseguenza il suo Four Eggs on a Plate (Quattro uova in un piatto, 2002) diventa una sorta di ritratto di gruppo».
«Scelgo i soggetti dei miei dipinti d'impulso. Dato che non sono molto introspettivo, è difficile per me dire perché sia così». Ognuno è una esplorazione in un territorio sconosciuto. «Faccio solo ciò che mi diverte, mi interessa, mi intrattiene». «Quando un dipinto è finito, spesso lo guardo e mi stupisco di tutte le tribolazioni che mi è costato». «So che la mia idea della ritrattistica derivava dall'insoddisfazione per i ritratti che assomigliano alle persone. Io invece vorrei che i miei fossero ritratti di persone. Vorrei essere chi posa, non osservarlo. Non voglio ottenere solo una somiglianza, come un imitatore, ma ritrarlo come se fossi un attore».
La conversazione durante e dopo le pose spazia dalle storie su un LF squattrinato nella Parigi del dopoguerra con Picasso e Giacometti o nel 1952 in Giamaica con Ian Fleming, che stava scrivendo Casino Royale e prese LF, che all'epoca chiudeva ogni discussione con i pugni (di qui Self Portrait with a Black Eye, autoritratto con un occhio nero), come modello per James Bond. «Pensavo che quella fosse una strana idea, ma mi battevo, il che era più di quanto lui (Fleming) non facesse. Ci fu un periodo in cui trovavo più semplice picchiare qualcuno che non averci una conversazione». LF aveva/ha anche uno straordinario successo con le donne. Aveva fatto colpo su Ann Fleming, così come su una buona metà delle bellezze di Londra, ma poi fu lei a presentargli quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, Caroline Blackwood.
E ovviamente arte e artisti. «La rassomiglianza in un certo senso non è il punto, che il dipinto abbia o no una buona somiglianza non ha nulla a che fare con la sua qualità come ritratto. Le persone ritratte da Rembrandt sono tutte simili in quanto hanno tutte una grandeur spirituale. Tutte le opere di Goya (o di Ingres e Courbet) sono piene, come tanta parte della grande arte, di una sorta di scherzosità». Questo certamente vale per LF. Lui adora l'arte francese, mentre detesta tutta l'arte italiana, soprattutto Raffaello. Unica eccezione Tiziano, che adora.
Il corpo di un artista, per LF, può influenzare la sua arte. «Picasso era basso, il che spiega i suoi nudi femminili massicci e incombenti. Era molto maligno, assolutamente velenoso, non che ci facessi gran caso. Una volta gli chiesi che cosa gli piacesse di una comune amica. Rispose: il fatto che posso farla piangere tutte le volte che voglio». LF poi rievoca il sadismo, e tuttavia la forza, nella Dora Maar Weeping della Tate, che lui nel 1942 aveva accompagnato in treno da Londra a Brighton.
Quando il ritratto di MG fu finalmente finito, con grande soddisfazione di LF, «un senso di sgonfiamento era quasi esattamente controbilanciato dal sollievo per la fine». «Un aspetto dei ritratti buoni è l'impossibilità di memorizzarli», sostiene Gayford. Dopo averlo esposto al Museo Correr di Venezia insieme con The Queen, Hockey e Parker Bowles, al Moma di New York e al Fogg ad Harvard, fu acquistato per 7 milioni di sterline da John e Frances Bowes della California.
Per MG «il quadro è il ritratto di un osservatore, rivolto verso il mondo, positivo e interessato. Invece l'incisione è il ritratto di una persona colta nell'introspezione, nell'ansia, nella tensione e nel pensiero. Ognuno, a suo modo, è un ritratto di me e forse, in certi momenti e in circostanze diverse, riflettono due aspetti di quasi tutte le persone».

da: La Stampa, 23 dicembre 2010, pp. 34-35

mercoledì 29 dicembre 2010

Kubler: l'improvvisa trasformazione del linguagggio artistico all'inizio del Novecento

Una componente importante nelle sequenze storiche di eventi artistici è l'improvviso cambiamento di espressione e di contenuto che si verifica a intervalli determinati quando un intero linguaggio formale cade improvvisamente in disuso, per essere sostituito da un nuovo linguaggio di componenti diverse e di grammatica non convenzionale. Ne troviamo un esempio nell'improvvisa trsformazione dell'arte e dell'architettura occidentale attorno al 1910. La struttura della società non manifestò alcuna rottura e la trama di invenzioni utili continuò a svolgersi passo passo in stretta successione, ma il sistema dell'invenzione artistica subì un'improvvisa trasformazione, come se un gran numero di uomini si fosse improvvisamente reso conto che il repertorio di forme da loro ereditato non corrispondeva più all'attuale significato dell'esistenza. La nuova espressione esterna che ci è oggi così familiare in tutte le arti figurative e strutturali è un'espressione corrispondente a nuove interpretazioni della psiche, a un nuovo atteggiamento della società ed a nuove concezioni della natura.
Tutti questi processi di rinnovamento del pensiero si svolsero ognuno per proprio conto e lentamente, ma in arte la trasformazione fu quasi istantanea: nacque così tutta quella configurazione che noi oggi riconosciamo come arte moderna e che non presenta che pochissimi chiari legami con il precedente sistema di espressione. La trasformazione cumulativa di tutta l'esistenza per mezzo di invenzioni utili si svolse in maniera graduale, ma il suo riconoscimento percettivo in arte per mezzo di corrispondenti forme espressive fu discontinuo, improvviso e urtante.

George Kubler, "La forma del tempo", Einaudi 2002, p. 86.

sabato 25 dicembre 2010

Sacra e civile, l’arte insegna il buon governo

di Andrea Fagioli
Il David sullo sprone di Santa Maria del Fiore, non quello di Michelangelo Buonarroti bensì una copia in vetroresina, ha per un giorno e una notte attirato l’attenzione di fiorentini e turisti. In tanti, tra il 12 e il 13 novembre, con il naso all’insù verso la Cupola del Brunelleschi, dalla parte del transetto nord, hanno ammirato incuriositi l’accigliato personaggio biblico in procinto di lanciare con la sua fionda l’attacco fatale al gigante Golia. Anzi, lassù per aria, il gigante sembrava lui, come del resto di fronte all’originale con il quale condivide l’altezza (5 metri e 17), ma non certo il peso (350 chili contro gli oltre 5 mila) pur essendo stato realizzato a ridosso di quelle Alpi Apuane (presso gli Studi d’arte Cave di Michelangelo) dalle quali proveniva quel marmo con quella venatura che nessuno voleva lavorare e che ha suggerito ad alcuni, visto il capolavoro che poi ne è venuto fuori, il parallelo evangelico con la pietra scartata dai costruttori che è divenuta testata d’angolo: il David come il Cristo.
Calato dallo sprone, il finto David ha fatto per alcune ore bella mostra di sé sul sagrato del Duomo per poi essere accompagnato davanti a Palazzo Vecchio, dove il David, quello vero, trovò effettivamente la sua collocazione, nel 1504, per rimanervi quasi quattro secoli prima di essere sostituito, anche in quella circo­stanza da una copia, e trovare una collocazione più sicura sotto la cupola di vetro della Galleria dell’Accademia in via Ricasoli.
L’opera infatti, commissionata al ventiseienne Buonarroti nel 1501 per la Cattedrale e scolpita nel cortile dell’attuale Museo dell’Opera del Duomo, venne 'dirottata' in Piazza della Signoria poco prima dell’ultimazione. A deciderlo furono i componenti di una commissione convocata dall’Opera di Santa Maria del Fiore il 25 gennaio del 1503 more florentino (1504 nell’uso comune), che discussero a lungo sulla possibilità di mutare la destinazione del capolavoro, decidendo finalmente per la posizione accanto all’ingresso del palazzo comunale dove oggi vediamo la copia realizzata nel 1882.
L’idea di riportare il David alla collocazione per cui era stato pensato si deve a 'Culter', l’associazione che ha curato gli eventi di 'Florens 2010' per la Settimana internazionale dei Beni culturali e ambientali con la consulenza di Sergio Risaliti e France­sco Vossilla, autori di due volumi (L’altro David e Metamorfosi del David) sulla statua del Buonarroti. «Il lato propedeutico - afferma Risaliti - è stato il chiodo fisso. Su questa logica si sono pensate le diverse azioni, la messa in scena generale. Si voleva arrivare a tutti, in modo da far scattare meccanismi di comprensione storica spesso trascurati nella moderna musealizzazione del capolavoro». E nell’epoca in cui tutto è virtuale, «abbiamo voluto - spiega Enrica Maria Paoletti, re­sponsabile di 'Culter' - far vedere e far toccare con mano (anche materialmente quando la copia della statua è scesa sul sa­grato) la realtà, rendendo viva in qualche modo la storia di un’opera simbolo in tutto il mondo di una città».
«Il David è tornato a casa, alle radici religiose - ­ebbe modo di commentare l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori -. Sugli sproni della Cattedrale sta benissimo. Questa è un’operazione culturale importante. Così è possibile vederlo e apprezzarlo come e dove era stato pensato all’inizio». Adesso Betori ribadisce che «le cose più belle di Firenze sono state fatte quando è stato più forte il legame tra le radici religiose e la vita del popolo». Il David, simbolo religioso che diventa simbolo civile, è l’esempio più evidente.
Ma non mancano nel capoluogo toscano altre sintesi artistiche di questo tipo, anche a livello di architettura. Basterebbe pensare al com­plesso di Orsanmichele, che più che una chiesa sembra un palazzo: «l’altissimo parallelepipedo», lo definì Piero Bargellini nelle sue Strade di Firenze (Bonechi editore), che spiega come il nome derivi da Orto di San Michele, ovvero l’orto delle monache benedettine sul quale nel Duecento sorse la prima Loggia del grano (il mercato del grano), diventato poi santuario mariano. Ma che sia chiesa e resti prima di tutto chiesa è stato ribadito anche da un accordo recente tra la Soprintendenza (la proprietà dell’immobile è infatti statale) e la diocesi, che ha ottenuto ad esempio che la chiesa ospiti solo concerti gratuiti di musica sacra, contrariamente a quanto accadeva in precedenza, salvaguardando inoltre la liturgia il sabato, la domenica e nei giorni festivi. Ma questa è storia recente.
Tornando al passato, la loggia, alla metà del Trecento non sembrò più un luogo adatto al mercato, che fu trasferito altrove. Così, nel 1380, l’edificio venne sopraelevato di due piani. Nella parte superiore fu comunque alle­stito il magazzino del grano (oggi Museo di Orsanmichele), mentre le dieci arcate della loggia vennero chiuse, grazie ad eleganti trifore in stile tardogotico e vetrate dipinte, dando origine alla chiesa, come so­stanzialmente la vediamo ancora, con l’aggiunta dei tabernacoli all’esterno. «La Madonna - scrive ancora Bargellini - vi appare, infatti, come Madre del popolo, nel granaio della Repubblica, destinato ai poveri; e i santi, che si affacciano dai tabernacoli, appartengono al cielo, ma sono in terra i patroni delle Arti», ovvero del lavoro. Non a caso è in quel luogo che i fedeli più poveri, in occasione delle carestie, si recavano per pregare ma anche per rifornirsi gratuitamente di grano. Orsanmi­chele è stato definito «il monumento più fiorentino di Firenze» per il suo carattere tra religioso e civile: chiesa e granaio, santuario e magazzino, luogo civico di mercato e nello stesso tempo luogo di culto mariano. Anche geograficamente si trova pressoché a metà strada tra il Duomo e Palazzo Vecchio, in quella via Calzaiuoli che è la più centrale ed elegante della città.

venerdì 24 dicembre 2010

L'arte? Fantasia e automatismo

di Gillo Dorfles
Accade spesso che dinnanzi a un dipinto fantasioso e alquanto convulso, il critico d'arte «di turno» constati: «Bisogna riconoscere che qui c'è molto automatismo», vuoi per biasimare o per giustificare la fattura dell'opera. E, infatti, accade spesso che l'artista, volutamente o istintivamente, si lasci guidare da un impulso del tutto irrazionale e quasi onirico, o, anzi, sfrutti questo impulso per valersene (fors'anche per fantasia carente). Nulla di male, ovviamente, se questa facoltà del comportamento viene dominata e sfruttata in favore dell'arte, anzi se permette che la stessa prenda il sopravvento sulla volontà dell'artista. Giacché, in effetti, sono diverse le modalità secondo cui può avvenire il verificarsi di un automatismo nella realizzazione di un'opera visiva (ma non solo visiva perché spesso anche un'improvvisazione musicale e poetica può godere di una condizione analoga con tutte le conseguenze positive o negative che ne derivano). Quella serie di «atti corporei» che sfuggono, anche solo parzialmente, al nostro controllo, costituiscono la principale matrice dell'automatismo e non devono essere confusi con quelli intenzionali e guidati dalla nostra coscienza; non solo, ma non devono essere assimilati con procedimenti provocati volontariamente da stati onirici o da droghe.
Occorre, a questo punto, distinguere tra due eventualità di automatismi nell'ambito artistico: quella di cui l'artista si vale come spunto da accettare, «dirigere», e finalizzare a una meta; e quella di coloro che sono succubi della stessa, sicché il risultato sfugge, almeno in gran parte, alla loro volontà e intenzionalità.
Il confine tra le due eventualità non è mai netto, ma è probabile che in ogni caso un tempuscolo non ancora concettualizzato funga da impulso motorio e da gerente d'una futura realizzazione artistica. Non basta senza dubbio appellarsi alla presenza di un automatismo - ovviamente in buona parte subconscio - (anche senza far ricorso a Freud e seguaci), per giustificare quello che spesso dipende solo dall'azzardo, piuttosto che dall'autentica fantasia, ma non c'è alcun dubbio che molte ben note opere da ascrivere a situazioni automatiche hanno la loro origine in situazioni analoghe: si pensi soltanto a Wols e a Mirò, a Pollock o a Schifano. Un recente saggio della nota estetologa Silvia Vizzardelli (Verso una nuova estetica. Categorie in movimento, Bruno Mondadori, pp. 200, 20) affronta molti degli aspetti analizzati da quella che definisce «una nuova estetica» e che sono tra i più considerati nelle ultime pubblicazioni dedicate alla «filosofia dell'arte» (da Baudrillard a Lyotard, a Susanne Langer) partendo soprattutto dalle fondamentali trattazioni di Rudolf Arnheim, appunto per i rapporti tra percezione ed espressione, e di Ernst Cassirer sui problemi delle «Forme Simboliche» e i diversi aspetti dell'immagine, e senza tralasciare il fondamentale contributo di Merleau Ponty, il quale ha «saputo cogliere con grande chiarezza la reciproca implicazione di percezione e senso, percezione e immaginazione».
D'altro canto il rapporto tra inventiva e razionalità e quello tra gestaltismo e linguistica giustificano tanto la convergenza tra bello e sublime quanto il dissidio tra ragione e istinto. Ed è proprio qui che il disaccordo si fa più intenso, soprattutto affrontando il problema dell'automatismo dal quale ha preso lo spunto - seguendo la grande lezione di Cassirer e di De Clérambault - quello che considera l'automatismo «come una modalità di funzionamento della vita mentale volta al mantenimento del passato, sempre associata a un'opposta tendenza... controllata dalla soggettività e gestita dall'autocoscienza». Ecco, dunque come, ancora una volta, dobbiamo accettare la compresenza di forze miocinetiche e di immagini fantastiche, di spontaneità corporea e di elaborazione concettuale per valutare, in misura effettiva un determinato lavoro: senza lasciarci sopraffare dall'ipotesi di un favoloso inconscio né da quella di una misteriosa valenza psicogena.
Ecco, dunque, come dobbiamo arrenderci all'evidenza di una creazione artistica di cui siamo solo in parte i responsabili, e di cui, solo fino a un certo punto, possiamo prevedere gli sviluppi. Ma, comunque, lo spunto miocinetico dell'artista sarà pur sempre diverso e migliore di quello del normale individuo. Lasciamo, dunque, che l'automatismo continui a snidare talvolta la nostra fantasia attraverso una risposta miocinetica, purché la coscienza rimanga vigile e non ci faccia stendere qualche pennellata abnorme senza che ce ne rendiamo conto (il che, poi, non sarebbe il peggiore dei mali).

martedì 14 dicembre 2010

Blu. Seduzione e mistero

di Claudio Magris
Un colore può uccidere? Nel Maestro del Giudizio Universale - geniale romanzo poliziesco del tedesco praghese Leo Perutz - un rosso insostenibile, frutto dell'allucinazione della droga e immagine della fine di tutte le cose, schianta chi lo vede. Nel trascinante romanzo di Gérard Roero di Cortanze, Il colore della paura, la ricerca di un indaco assoluto diventa la strada del male, del delitto e dell'orrore. Ma «che cos'è il colore?», si chiede Luisa Bertolini nel suo libro Il colore delle cose, aggiungendo peraltro che non è questa la domanda, quanto la difficoltà di dare un nome ai colori, di scoprirne la grammatica e, prima ancora, di indicare il colore puro, assoluto, il rosso o il verde in sé, che nessuno ha mai visto. I colori non sono soltanto una seduzione della vita e della poesia, ma sono prima ancora un'affascinante problema per la filosofia, che si è tante volte posta il problema della loro esistenza o non esistenza, del loro rapporto e del loro significato, dagli aristotelici a Kant, da Husserl a Wittgenstein. Quale è il colore di una foglia, il verde che mostra a mezzogiorno o il nero che vediamo di notte? Quando diciamo «blu» indichiamo qualcosa di reale, come quando indichiamo il peso o la massa di quello stesso oggetto che ci appare blu, oppure quella parola è solo una metafora, una traduzione che il nostro cervello fa di determinate lunghezze d'onda con cui la luce arriva alla nostra corteccia cerebrale? Traduzione sofisticatissima, visto che il grande Atlante dei colori Dumont elenca 999 sfumature cromatiche diverse che l'occhio umano riesce a distinguere.
Il colore è un protagonista non solo di tanta poesia e letteratura, ma anche di aspre contese filosofiche. Goethe riteneva che il suo capolavoro fosse la sua Teoria dei colori, la quale contestava la spiegazione di Newton. Aveva - a metà - torto, perché la luce arriva al nostro cervello come dice Newton, ma aveva - a metà - ragione, perché noi vediamo blu, rosso o verde, e non cifre che indicano le rispettive lunghezze d'onda della luce. Nessuno come Paolo Bozzi - grande psicologo della percezione, musicista e musicologo e assai notevole ancorché appartato scrittore - ha dimostrato che Goethe analizza una realtà oggettiva: noi vediamo giallo o viola e non numeri, e questo vedere - e dunque il giallo e il viola che vediamo - sono una realtà oggettiva, un'esperienza del reale e del mondo, un incontro dei nostri sensi e della nostra mente con la vita.
Parecchi anni fa, Paolo Bozzi - senza il quale non avrei forse scritto il mio Danubio, perché mi ha insegnato a vedere e a percepire concretamente le cose, temi cui sono dedicati alcuni suoi memorabili saggi - ha ripetuto all'Università di Trieste, per integrare un mio corso su Goethe, gli esperimenti di quest'ultimo, i giochi fra luci e ombre, gli effetti di rifrazione, l'accostamento di colori diversi che si modificano reciprocamente, il fenomeno per cui gli oggetti scuri appaiono più piccoli di quelli chiari della stessa dimensione. Bozzi aiuta a capire che il mondo è reale, oggettivo anche nelle cosiddette qualità terziarie; che l'azzurro significa in sé lontananza, privazione e nostalgia, anche se certo non solo questo. Fra tutti i colori, scrive William Gass nel suo trattato filosofico On Being Blue, quest'ultimo ha, insieme al verde, il più intenso impatto emozionale.
Il simbolismo del colore è un grande capitolo nella storia della cultura e talora varia da una cultura all'altra, come nelle frasi idiomatiche (in italiano, rileva Anna Maria Ferrari, si diventa verdi di rabbia, in tedesco anche blu). Forse nessun colore ha tanti e tanto contraddittori significati come il blu. Elencarli significherebbe compilare una vasta antologia della poesia e della letteratura mondiale, come emerge dal libro di Amelia Valtolina, Blu e poesia. Il romantico fiore azzurro di Novalis, immagine della poesia stessa e dell'essenza della vita, rivelazione mistico-religiosa per un altro romantico come Runge, sublimità peraltro dissacrata da Baudelaire; malinconia e infinito, astrazione delle idee e nostalgia; colore celeste e marino ma anche infero (il giacinto azzurro di Persefone); colore dell'anima ma anche colore «sacrilego» e «morente» nella poesia di Benn; colore di tante avanguardie artistiche, dal Cavaliere Blu di Kandinsky ai cavalli azzurri di Marc, da Picasso a Matisse. Colore dell'infinito e della banale ubriachezza - sono blu, in tedesco, significa essere sbronzo. Colore della tristezza (to feel blue, in inglese essere tristi; i Blues dei neri d'America. C'è infatti un cromatismo musicale, un colore dei suoni). In Cina gli ebrei venivano chiamati «musulmani blu» - visto che i mediorientali in generale erano considerati musulmani - per distinguerli, in base alla tinta del loro copricapo, dagli altri, ossia dai veri islamici. Alcuni psicologi chiamano «indigo children», bambini indaco, alcuni bambini particolarmente creativi e originali in misura perfino inquietante.
Nel romanzo di Gérard Roero di Cortanze - vitale, trascinante e sanguineo come il suo autore, prolifico e avventuroso scrittore che unisce un profondo senso dell'inquietudine contemporanea a un piglio epico da Alexandre Dumas - il protagonista, Jean Antoine Giobert, è alla ricerca del Blu assoluto. Lo cerca nelle terre che circondano il suo castello, in cui fiorisce una pianta da cui si estrae un incredibile azzurro-indaco; lo cerca in strani e occulti concorsi banditi per ottenere vari tipi di quel colore: blu sera, blu luna, blu notte, blu cielo, blu mare e così via. Questi concorsi generano misteriosamente orribili delitti, descritti con granguignolesca potenza. La cronaca e l'indagine del crimine s'intrecciano a macabre fantasie che emergono dal profondo del passato e dell'inconscio, al ricordo rimosso di un massacro della famiglia del protagonista bambino. L'infera ricerca dell'indaco perfetto si mescola alla vocazione di fenomeni occulti (sonnambulismo, ipnosi) e viene vissuta con tale ossessione da diventare il colore della pelle del protagonista e di suo figlio, simile al livido della morte.
La ricerca del Blu, dell'Indaco assoluto - la ricerca dell'assoluto tout-court - è un'ossessione mortale (come indica la pagina che qui si riporta, in cui il colore perfetto nasce dalla morte delle farfalle) quasi i colori nascessero veramente dall'ombra, come riteneva il bizzarro gesuita barocco padre Kircher, anziché dalla luce, come sapeva Newton. Ma la forza epica dell'autore riesce ad attraversare quel mare oscuro, a trovare la vita passando per le forche caudine della morte. La seduzione dell'azzurro può essere quella di un abbandono alla beatitudine dell'abisso, come nel Grand bleu di Luc Besson, oppure, come nel Film Blu di Kieslowski, quella della libertà della vita.

giovedì 9 dicembre 2010

Il museo del Novecento che accende Milano

di Carlo Bertelli

Finalmente Milano ha il suo Museo del Novecento. I 7 milioni di turisti che visitano ogni anno la città hanno ora una nuova meta, un luogo che corrisponde al mito di Milano del Novecento e che, con inedite prospettive, fa scoprire la storia architettonica della città che più città di così non potrebbe essere. Gli stessi milanesi scopriranno la loro città dalle grandi finestre del museo che racconta le glorie di un secolo che fu molto milanese.
È stato un colpo di genio, da parte di chi era preposto alla direzione delle collezioni civiche (Claudio Salsi), offrire un'alternativa all'idea tanto caldeggiata di trasferire le raccolte comunali d'arte moderna alla Bovisa e invece ha sostenuto la scelta strategica del cuore di Milano. E ancora quanto mai saggia fu la decisione di Brera di non spedire a Roma il grande soffitto che Lucio Fontana aveva creato all'Elba e che ora, insieme al grande neon che proietta un forte messaggio di modernità su tutta la Piazza del Duomo, è grande segno di una grande Milano lanciata sul futuro. «Ascolta il tuo cuore, città», aveva scritto Alberto Savinio. Questa volta è stato ascoltato. Fontana ha la sua Cappella Sistina.
Era difficile ricavare un museo nello spazio dell'Arengario. Malgrado tanta magniloquente monumentalità, l'edificio non è che una stretta quinta tra il Palazzo Reale e la breve via Marconi, mentre il suo interno era stato concepito soltanto per funzioni celebrative. Superate le difficoltà di partenza, l'architetto Italo Rota (con Fabio Fornasari) e i curatori del museo, in particolare la nuova direttrice Marina Pugliese, che con la mostra di «Alice al Castello» ci aveva già dato prova della sua capacità di manipolare le collezioni, hanno saputo dare un valore positivo a un percorso labirintico, evidenziando le particolarità di una collezione formata di tanti episodi, nei quali la creatività degli artisti operosi a Milano s'intreccia con la curiosità e il gusto dei collezionisti e con le proposte dei galleristi.
Le poche, ma significative presenze dei protagonisti stranieri dell'arte del XX secolo nelle raccolte milanesi occupano una sala introduttiva, dopo Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, l'icona che il XIX secolo consegnò al Novecento pieno di speranza. Ma 21 Boccioni, 5 Balla, 2 Carrà (uno però più metafisico che futurista), e poi Severini, Soffici, Depero, Funi, tutti in fase futurista, fanno del museo milanese una delle più ricche e varie raccolte del Futurismo italiano nel mondo. Savinio, ci dicono, è omaggiato nella casa museo Boschi Di Stefano, qui a Milano, ma certo se ne sente la mancanza accanto al suo celebre fratello, che qui, dopo un commovente capolavoro come Il Figliol prodigo, chiude con l'infelice ritratto di Isa. Arturo Martini (che del resto incominciamo ad ammirare già nei rilievi all'esterno del museo) e Marino Marini, sono qui sovrani. Marini ha finalmente abbandonato la sua incongrua sistemazione nella villa Reale e si offre con ritratti usciti dalle vetrine, persone vere che sembra di poter interrogare.
Una inventiva distribuzione degli spazi ha consentito di dare alla visita il senso di continue sorprese, allestendo sale che danno risalto ad artisti o a temi che poco si prestano ad una presentazione collettiva, come Morandi, che non solo ha una sua sala, ma è anche l'unico italiano che all'inizio del percorso si presenta con un'opera (esattamente la celebre Natura morta con palla del 1918, dalla collezione Jucker) nella sezione dei protagonisti stranieri, accostato a un Bracque della stessa data e proveniente dalla stessa collezione.
Ossessionato dai problemi della sicurezza, già allarmato dalla inevitabile pressione delle scolaresche, trovo giusto che la grande rampa elicoidale che sale dal pianoterra sia sgombra e sia stata considerata come un aereo raccordo verticale reso stimolante dalle viste sulla città. Le inquadrature di città che il museo offre ne fanno già parte. Ai vari piani si sviluppa il raggruppamento tematico, che ha la fortuna di contare su alcuni veri capolavori, come Estate di Carrà, La visita di Guidi, la Grande natura morta di De Pisis del 1944, la Scultura n. 11 di Fausto Melotti e di contare su alcune inaspettate presenze romane, come Scipione e Ziveri, Scialoja e Scarpitta.
Sarebbe stato poi molto strano che proprio Milano, dove l'arte detta cinetica o programmatica è nata, non ne presentasse esempi in una raccolta pubblica, quando è invece da sempre esposta alla Galleria d'Arte Moderna di Roma. Finalmente, con depositi temporanei e doni, Anceschi, Boriani, Colombo, Dadamaino, Devecchi, Enzo Mari, Grazia Varisco e Bruno Munari sono qui. Manca all'appello Antonio Barrese, che l'anno scorso aveva rallegrato il Natale di Milano con il suo grande albero girevole.
Milano presenta ora anche i suoi artisti viventi, come Vittorio Matino o Claudio Olivieri, la cui attività ha già occupato alcuni decenni del secolo scorso, ma non si chiude entro la cerchia dei navigli, che anzi è qui una bella scelta dei torinesi e dell'arte povera. La sorpresa del museo, le cui collezioni si erano viste per scampoli in numerose mostre, è di rivelarci alcuni tesori nascosti. La sala che compone due grandiosi Gastone Novelli con un prezioso Licini (esposto, come in una teca, in una saletta nera, ricordo delle «sale negre» del Castello e nello stesso tempo citazione di Carlo Scarpa) è un bell'esempio di museografia.
Occorre sottolineare che un museo non è una mostra che si realizza facendosi prestare in giro ciò che non si ha. Un museo è il risultato di anni di acquisti e donazioni. Il museo non possiede altro che ciò che possiede o che ha avuto in comodato. Inutile dunque dire, oggi, che al nuovo museo manca questo o quello. Nessuno più dei direttori dei musei ha desideri repressi. Ora che il museo è aperto, le donazioni arriveranno e anche gli acquisti saranno meglio giustificati. Forse non sarà più necessario che una grande collezione milanese emigri a Venezia. Il fatto nuovo per Milano è che da oggi esiste un luogo pubblico, chiaramente disegnato, bene accessibile dalla strada con i suoi due ingressi e il bookshop, dotato di un archivio consultabile e di sale di studio, con spazi per mostre periodiche e insomma con tutto ciò che distingue un museo funzionante nel resto del mondo. Dunque una macchina pronta ad essere usata. La nuova Lamborghini.

da: Corriere della Sera, 6 dicembre 2010, p. 33

domenica 14 novembre 2010

D'oro o di sacco, ma sacro

di Giuseppe Betori

Oro, argento e bronzo, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per l’illuminazione, balsami per l’olio dell’unzione e per l’incenso aromatico, pietre di ònice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale» (Es 24,3b-7). Non è l’inventario della bottega di un ricco mercante della Firenze del Quattrocento, ma un primo, e ancora parziale, elenco di quanto Dio ordina a Mosé che gli Israeliti reperiscano per la costruzione della sua Dimora nel deserto. È un elenco che, per dovizia, varietà e pregiatezza di materiali, non soffre il paragone con le scene fastose della «Cavalcata dei Magi» affrescate da Benozzo Gozzoli nella cappella del Palazzo Medici Riccardi, ovvero con lo splendore severo della commistione di marmi e pietre dure della Cappella dei Principi a San Lorenzo o lo sfarzo del ciborio di Santo Spirito. (...)
La nobiltà del materiale può derivare anche dal fatto che lo si riconosce come testimone della trascendenza, del sacro. Ciò che fa nobile la materia di cui ci si serve per realizzare l’opera sacra è il fatto che l’uomo le riconosce la capacità di dire la grandezza del Dio che ha incontrato: a ciò può piegarsi la preziosità di un materiale illustre, ma anche la nuda fisicità di un materiale comune, elevato però dal rapporto che esso ha avuto con la trascendenza. I cieli dipinti con il blu dei lapislazzuli come pure i fondi oro delle icone o dei mosaici che risplendono nel Battistero di Firenze esprimono certamente una dimensione sacrale, ma altrettanto si potrebbe dire per un sacco di Burri, su cui si può scorgere traccia ancora del sudore della fatica dell’uomo nel lavoro, con il quale egli nobilita il mondo trasformandolo.
Maurizio Calvesi, proprio a riguardo di Burri, si esprimeva in termini affini, parlando di «un processo di risalita dalla muta, squallida presenza della materia e degli oggetti al livello dell’arte come rappresentazione drammatica e regno della bellezza». L’oro che risplende sulle mirabili forme plastiche della porta del Paradiso del battistero di Firenze esprime la convinzione che Lorenzo Ghiberti e i suoi committenti avevano della sacralità del luogo racchiuso tra le tre porte bronzee e della natura trascendente delle azioni che vi si compiono per coloro che ne superano la soglia. Ma anche le forme appena sbozzate dei materiali quotidiani dicono un messaggio di rivelazione della sacralità che la condizione umana e il cosmo tutto hanno assunto in forza dell’incarnazione del Verbo, che ha accolto la forma umana in un processo di abbassamento, necessario preludio della successiva rigenerazione.
Proprio la centralità che, nella fede cristiana, hanno il mistero dell’incarnazione e quello della redenzione, fa sì che non ci sia materia che non possa accogliere il divino e che non possa essere risanata dalla sua miseria e perfino dalla sua abiezione. Uno dei più noti teologi del Novecento, Karl Rahner, spiega la «capacità del divino» che sta nelle cose materiali affermando che «la profondità naturale della realtà simbolica […] di tutte le cose è stata infinitamente dilatata in senso ontologico-reale, per il fatto che è divenuta determinazione del Logos stesso o del suo ambiente. Ogni realtà scaturita da Dio, quando è autentica e intatta e non è degradata a semplice mezzo utilitaristico umano, non dice solo se stessa, ma riecheggia sempre […] l’insieme della realtà. Ma se questa singola realtà, nel render presente il tutto, parla anche di Dio […], questa trascendenza acquista una radicalità ancor maggiore (anche se comprensibile soltanto per mezzo della fede) per il fatto che ora in Cristo queste realtà non ci indirizzano più a Dio solo come a causa, ma a quel Dio al quale esse appartengono come sua determinazione sostanziale o come suo ambiente».
Non è solo il Padre invisibile a essere diventato visibile attraverso il volto di Gesù: anche la nostra immagine rivela e rimanda a una dimensione spirituale, che non può essere ridotta alla semplice consistenza materiale e tuttavia fa parte a pieno titolo della realtà. Con parole diverse ma nella stessa linea si esprime un altro eminente teologo del nostro tempo, Joseph Ratzinger, che così, in un suo saggio del 2000, formula il primo dei criteri di un’arte sacra ordinata alla liturgia: «La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell’incarnazione di Dio. Nel suo agire storico Dio è entrato nel nostro mondo sensibile perché esso divenisse trasparente in ordine a lui. Le immagini della bellezza, nelle quali si rende visibile il mistero del Dio invisibile, appartengono al culto cristiano».
Tutto in tal senso può assumere il carattere della nobiltà, purché attraversato da un’esperienza di redenzione. In quest’ultima annotazione ritengo si possa cogliere il dramma di quell’arte contemporanea che si nega al traguardo della bellezza proprio perché fa dell’abiezione umana e cosmica non un terreno della misericordia e del riscatto, ma un destino senza vie di uscita. E, soprattutto, ritiene che l’esaltazione dell’abiezione possa essere una strada breve per stupire; ma non si può stupire a costo della verità. Nell’ottica cristiana non è il mondano che viene rifiutato ma il peccato, e anche questo non viene espulso dall’esperienza bensì accolto come spazio di esercizio del perdono e della salvezza. Come afferma Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti del 1999, «persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima, o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione».
Viene istintivamente alla mente l’immagine de Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, ma lo stesso possiamo dire per i volti dei popolani di Caravaggio assurti a dire la fede e la santità. Il non-sacro, cioè, non spaventa, e per chi sa che gli idoli non esistono, perfino le carni offerte agli idoli possono diventare un pasto comune, come insegna l’apostolo Paolo. È il medesimo principio che ha permesso la ripresa dei miti e delle figure della classicità quali strumenti espressivi della rivelazione cristiana nell’arte rinascimentale: spogliati della loro falsa identità sacra i personaggi del mito assurgono a valori perenni e non temono di diventare strumento di loro espressione. E perché oggi dovremmo temere di assumere miti e figure della contemporaneità per dire la verità dell’uomo? Purché, come ricorda ancora san Paolo, «sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio», cioè per manifestare lui e il suo amore per l’umanità.

da: Avvenire, 12 novembre 2010, p. 26

giovedì 28 ottobre 2010

San Carlo, l’aureola della pietà

di Michele Dolz

La canonizzazione di san Carlo Borromeo il 1 novembre 1610 – di cui ricorre dunque il quarto centenario – fu un’apoteosi raramente vista. Sotto la regia di Giovan Battista Crespi detto il Cerano, a Milano, e di Antonio Tempesta, a Roma, vennero innalzati monumenti e architetture effimere, installati arredi urbani, fabbricati grandi stendardi, dipinti tanti e tanti quadri. Dentro alla Basilica di San Pietro, ancora in costruzione, si fabbricò un’enorme macchina o teatro con tanto di facciata, una vera chiesa nella chiesa con ben trentanove dipinti monocromi sulla vita e i miracoli del santo. La Fabbrica del Duomo di Milano ordinò la seconda serie di quadroni, sui miracoli di san Carlo, affidandola ai migliori pittori sulla piazza. Gli orefici milanesi donarono una statua del santo a grandezza naturale fatta di materiali preziosi, oggi purtroppo perduta. Intorno ad alcune croci che san Carlo aveva fatto erigere nelle piazze (una croce di metallo sopra una colonna, come segno sacro nel territorio urbano) vennero allestite decorazioni con panni, statue, dipinti; in una di queste furono appesi i ritratti dei trentotto vescovi santi di Milano, da san Barnaba apostolo fino allo stesso Borromeo: oggi sono al Museo Diocesano di Milano. Fu così memorabile la celebrazione che Tempesta incise e pubblicò un grande foglio con i Fatti della canonizzazione di san Carlo, con venticinque riquadri che ritraggono i vari momenti. Ma soprattutto quell’abbondanza d’immagini fissò in maniera canonica l’iconografia del santo.
Si può dire che il singolare fenomeno iconico era frutto postumo della pastorale di san Carlo, poiché egli fece dell’immagine sacra uno strumento non secondario della sua intensa attività. Un dipinto del Cerano per l’occasione riportava «una figura al naturale di Nostro Signore, che faceva oratione all’horto, con l’Angelo da una parte, col calice, e la Croce in mano, che lo confortava, e dall’altra parte vi era S. Carlo inginocchiato in oratione, a imitazione dell’oratione ch’egli fece al Sacro Monte di Varallo, quando si preparava alla morte». Così scriveva il Grattarola nel 1614. Ed è proprio attraverso queste immagini che riconosciamo l’utilizzo formativo che dell’arte fece san Carlo. C’è un altro dipinto del Cerano, dell’anno della canonizzazione, che ritrae l’arcivescovo inginocchiato dinnanzi al Cristo morto, in una toccante espressione di dolore, pentimento, devozione. Esplicitamente intende riferirsi alle lunghe preghiere del santo nel Sacro Monte di Varallo. Lì amava ritirarsi per i suoi esercizi spirituali, d’impronta ignaziana con sue accomodazioni. Ricordava il Bascapé: «Ciascuno si riduceva in alcune devote cappelle a meditare et orare; et il cardinale … si ritirava pur ancor esso al luocho suo senza volere che altri lo seguisse: et era di meravigliosa consolazione et compunzione vederlo, la notte specialmente, andare tutto solo, con una sua lanternetta sotto il mantello, dove più la devotione l’invitava», principalmente nella cappella del sepolcro. Lì lo colse la malattia che lo avrebbe portato in breve tempo alla morte.
Le lunghe e partecipate meditazioni dinnanzi a quei simulacri come se fossero il Cristo vero, sono testimonianza del senso che egli dava alle immagini sacre e dell’utilizzo che voleva se ne facesse. Il Concilio di Trento, al quale aveva partecipato, si era espresso sulla questione in maniera chiara ma generica e sbrigativa. In sostanza di diceva (sessione XXV, 1563): a) «Attraverso le immagini … noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi», e rinviava alla dottrina del Concilio II di Nicea. b) «I vescovi insegneranno con molto impegno che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con i dipinti e in altri modi, il popolo viene istruito e confermato nella fede» ed esercita la pietà. c) «Se in queste pratiche sante e salutari fossero invalsi degli abusi, il santo sinodo desidera ardentemente eliminarli». I vescovi dovevano vigilare perché le immagini non fossero oggetto di superstizione né veicolassero false dottrine. Ai vescovi veniva delegata la funzione applicativa di queste norme.
Com’è noto, il Borromeo prese decisamente a cuore questo incarico, scrivendo le Instructionum fabbricae et supellectilis ecclesiasticae, libri II (1577) che sono un dettagliato vademecum di come devono essere le chiese, le immagini e le suppellettili sacre. Le immagini avevano per lui un carattere didattico (della dottrina e della pietà) al quale si aggiungeva una funzione di difesa dall’eresia. La preoccupazione non era di ordine estetico ma etico, e ormai è stato sufficientemente dimostrato che Trento e i suoi applicatori non hanno limitato la creatività ma l’hanno potenziata non fosse altro che per l’attenzione dedicata alle arti. Basta ricordare i nomi degli artisti europei del Seicento.
San Carlo voleva sobrietà, intelligibilità, chiarezza, devozione. Avrebbe desiderato vedere in pittura ciò che Pellegrino Tibaldi fece in architettura sotto le sue direttive. Ma a Milano non c’erano in quegli anni grandi artisti. Scomparsa la generazione dei leonardeschi, un elegante manierismo – da Lomazzo al Peterzano, a Fede Galizia e Camillo Procacini, con episodi molto belli del Figino – cercò di adattarsi alle indicazioni. Sarà dopo la morte del santo che quello spirito s’incarnerà in grande pittura, molto spesso raffigurando Carlo medesimo negli atteggiamenti di devozione che voleva inculcare nella sua gente: il notevole San Carlo comunica gli appestati di Tanzio da Varallo a Domodossola, le prove di bravura prodotte dai diversi artisti per la canonizzazione, per finire nelle raffinate composizioni di Giulio Cesare Procacini, come quel San Carlo Borromeo porta in processione il Sacro Chiodo di Orta San Giulio.

da: Avvenire, 27 ottobre 2010, p. 28

domenica 24 ottobre 2010

Dopo la morte, la vita. Per tutti i popoli

di Julien Ries

Le prime tombe, apparse verso il 90.000 a.C., e la grande quantità di tombe dell'uomo di Neanderthal, a partire dall'80.000 a.C., mostrano che nella preistoria i vivi credevano a una sopravvivenza dei loro defunti, dal momento che le tombe contenevano tracce di alimenti e di utensili destinati ad essere usati dai defunti inumati. A questo, a partire dal Paleolitico Superiore (40.000 a.C.), si aggiunse un trattamento speciale del corpo del defunto, che veniva coperto di ocra rossa, simbolo del sangue e dunque della vita, con una particolare cura della testa e l'applicazione di conchiglie nelle orbite oculari, segni di una nuova visione, e strumenti sempre più numerosi accanto al corpo del defunto, il che sta a indicare che non si doveva entrare nell'aldilà privi di bagagli. Verso il 10.000 a.C., all'apparizione dei primi villaggi, vicini ai centri abitati troviamo dei cimiteri, segni di un legame tra i vivi e i morti.
Volgiamo lo sguardo alle antiche popolazioni indoeuropee, gli Etruschi, i Celti e i Germani. Provenienti dall'Asia Minore, le popolazioni etrusche si fissarono in Toscana. Quando i Romani avevano appena iniziato a familiarizzarsi con la scrittura, gli Etruschi erano già in possesso di un alfabeto, ereditato dai Greci. Per quanto riguarda il mondo dei defunti, disponiamo di numerose pitture che ornano le pareti delle camere funebri: scene di caccia, di gioco, banchetti e danze. Non va trascurata poi la sontuosità delle tombe, a partire dall'VIII secolo a.C. vere e proprie dimore funebri. Vi sono stati trovati una grande quantità di suppellettili e una ricca gamma di utensili domestici. La tomba è costruita a immagine della casa: è la residenza del defunto. Il tema del viaggio verso l'aldilà rende ragione del gran numero di scene rappresentate sulle urne funerarie e sui sarcofagi ritrovati dagli archeologi.
I Celti occuparono la Germania meridionale, la Gallia, la Gran Bretagna, l'Irlanda, l'Italia settentrionale e la Spagna. La loro culla è l'Europa centrale e occidentale: si tratta di un miscuglio di razze che adotta diversi dialetti indoeuropei. Attualmente si è capito che il mondo celtico era in possesso di una religione popolare, ma anche di una religione delle classi superiori, i druidi e i cavalieri. Le testimonianze dell'antichità mettono in evidenza l'importanza della credenza druidica nell'immortalità dell'anima. La loro competenza religiosa, poetica e sacerdotale faceva dei druidi, nella società, il corpo di saggi contrapposto al corpo guerriero. I druidi erano i mediatori tra gli uomini e il mondo soprannaturale. Il paradiso celtico, chiamato Sid in Irlanda, è «un tumulo soprannaturale», un mondo meraviglioso in cui i defunti conducono un'esistenza paradisiaca. Un paradiso situato ad est dell'Irlanda, oltre il sole calante. Tutto è bello, giovane, affascinante e puro. I messaggeri dell'altro mondo vengono a cercare i defunti e li introducono in questo mondo meraviglioso: vi si sente una musica dolcissima, vi si consumano cibi succulenti, vi si bevono idromele e vino. Il Sid è un mondo perfetto, uscito dalla mediazione e dall'insegnamento dei druidi, un luogo di felicità e di pace.
Un elemento importante scoperto nelle tombe galliche è l'uovo rotto, simbolo della vita. È legato alla genesi del mondo e rappresenta il rinnovamento periodico del cosmo. In alcune regioni d'Irlanda, nella tomba venivano gettate delle lettere ai defunti. Colpisce l'ottimismo dell'escatologia celtica. Diversi elementi spiegano questo fenomeno: la grande prosperità della società grazie alla metallurgia, l'influsso della civiltà greca, una classe sacerdotale composta da druidi, da bardi specialisti del canto e della poesia e da indovini (vate) delegati alla divinazione e all'arte della natura, così come la dottrina dell'immortalità dell'anima trasmessa dalla tradizione druidica.
Gli antichi Germani e Scandinavi sono molto diversi dai Celti. Georges Dumézil ha mostrato che la funzione sacerdotale, quella del sacro, fu relegata al secondo posto dalla funzione guerriera, impostasi grazie al dio Odino-Wotan, l'arbitro dei combattimenti. Da qui l'esaltazione della violenza, che si trova all'origine del pessimismo. A questo si aggiunge la nozione di destino, elemento centrale della religione germanica. Il destino, gaefa-gifta, è un dono iniziale da svilupparsi con l'eroismo. La hamingja è la forma che assume il destino quando si lega a una famiglia. Il Germano non è mai solo: fa parte di una Sippe, un clan. Dal 3500 a.C. sono presenti le tombe megalitiche, i dolmen, tombe delle Sippe e dei capi. Con la cremazione prendono forma i campi di urne. Durante il periodo delle tombe megalitiche i vivi portavano le offerte vicino alle tombe, accendendovi dei fuochi. Immediatamente dopo la morte vengono chiusi la bocca, gli occhi e le narici del defunto e lo si interra in un punto dal quale può vedere la sua casa e i paesaggi che gli sono familiari. Nella tomba vengono messi gli oggetti di cui il defunto deve disporre nell'aldilà.
I Germani temevano il ritorno dei defunti. Al momento dei funerali si faceva uscire il cadavere dalla casa attraverso un'apertura che veniva subito richiusa, in modo che non ritrovasse, eventualmente, il cammino del ritorno. Nell'altro mondo ci sono due possibili luoghi di soggiorno. Il primo è chiamato Hel, Halja in gotico. È una valle glaciale, dominata dal freddo e da torrenti e protetta da enormi porte e bastioni. L'altro luogo di soggiorno è il Valhalla o Valhöll, zona riservata a coloro che sono stati prescelti dal dio Odino, vale a dire i guerrieri caduti in battaglia e tutti coloro che sono morti durante un atto eroico. Sono chiamati einherjar, eroi d'élite. Godono di un soggiorno piacevole, facendo combattimenti quotidiani nei quali non vi sono feriti e banchetti con bevute di idromele sacro presentato dalle Valchirie, le divine assistenti dei dio Odino. I guerrieri si nutrono di carne di cinghiale. Dodici stanze del Valhalla sono riservate agli dei, con cui gli eroi passeranno l'eternità. C'è poi la prateria di Odino, Oddinsakr, il campo degli immortali, di coloro che godono dell'immortalità: per loro non esiste né malattia né vecchiaia né morte. Una vegetazione d'oro copre la prateria e un brillante sole la illumina: il verde della prateria simboleggia la vita, mentre il giallo è il segno indoeuropeo dell'immortalità.

da: Corriere della Sera, 22 ottobre 2010, p. 53

giovedì 21 ottobre 2010

Se l'ironia è ben quotata

di Carlo Bertelli

Non ero a Milano. Ma dove mi trovavo, mi avevano raggiunto diverse telefonate di milanesi inorriditi per il monumentale Dito di Maurizio Cattelan. A quasi tutti sembrava che fosse la pietrificazione del linguaggio scurrile venuto in voga tra i nostri politici, e appariva insopportabile che la volgarità delle loro battutacce minacciose dovesse diventare un ammonimento marmoreo perenne. Appena tornato a Milano, sono corso a vedere il monumento. Non la mostra, che raccoglie opere che già si conoscono, ma proprio quell'intervento urbano tanto discusso e tanto discutibile. Mi aspettavo di vedere, ingigantita, la mano di un nostro, o di una nostra, onorevole, chiusa a pugno per puntare quel dito medio insultante verso l'intera città.
Invece ho trovato una grande mano mutilata. Una mano eseguita realisticamente, cui tutte le dita, tranne una, erano state tagliate. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata la vista di dita amputate di falegnami, macellai, cavatori e altri lavoratori. Poi ho pensato ai tragici marmi di mutilati di Marc Quinn in Trafalgar Square, a Londra. E mi è sembrato che quel dito si levasse come estrema, solitaria e inane protesta. Maurizio Cattelan mi perdoni, ma credo che sia assuefatto al carattere polisemantico di una creazione artistica. Da Pasquino a Roma all'om de pedra a Milano, sono tante le statue cui il pubblico ha attribuito un senso che certo non avevano in origine. Ma il monumento di Cattelan è piazzato a dileggio della Borsa. Nella piazza più disegnata di Milano, dove la facciata clamorosa del palazzo della Borsa si fronteggia con il lato opposto, silenziosamente dechirichiano, il dito di Cattelan si erge beffardo e irriverente.
Si poteva avere di peggio. Alla Biennale della scultura, a Carrara, Paul McCarthy ha presentato la monumentale scultura di un escremento, alta 4 metri e 60, realizzata nello scuro travertino di Rapolano. Per tutta la durata della biennale, ossia per tutta al scorsa estate, la grande «statua» è stata in bella mostra davanti a una banca, con l'intento dichiarato di mettere allo scoperto ciò che noi - e le banche prima di tutti - invece copriamo. Non so se la stessa banca che faceva da sfondo alla scultura fosse tra gli sponsor della biennale, ma è probabile. Così come ora è il Comune di Milano che accetta, senza batter ciglio, d'insultare la Borsa.
Debbo precisare che il tema della biennale di quest'anno verteva sull'impossibilità di realizzare monumenti là dove non vi sia un consenso generale, spontaneo o imposto, orientato ad accettare l'enfasi retorica. Sembra che le democrazie abbiano difficoltà a creare i propri monumenti. Il monumento è diventato un'esperienza del passato e, per gli artisti d'oggi, un rimpianto che mascherano col dileggio.
Il Dito di Cattelan probabilmente non resterà a lungo, a meno che Palazzo Marino non accetti la proposta di proroga fatta dallo stesso Cattelan. E'solo la sezione esterna di una mostra che si svolge all'interno del Palazzo Reale, offerta dal Comune ai cittadini. L'ironia di Cattelan non scuote il mondo, non fa crollare il capitalismo. L'ironia di Cattelan è anzi ben quotata.

da: Corriere della Sera - Milano, 15 ottobre 2010, p. 1

domenica 17 ottobre 2010

I colori, la luce e il disegno originali
Così Giotto dipinse il crocifisso

Il restauro svela il lavoro preparatorio del capolavoro di Ognissanti a Firenze

di Arturo Carlo Quintavalle

Questo è molto più di un restauro, questo è un ritrovamento vero e proprio ed è insieme la fine di un dibattito annoso. Infatti il Crocifisso di Ognissanti, cinque metri di altezza, appeso in origine sul tramezzo della chiesa fiorentina, che le fonti antiche assegnano a Giotto, ritenuto di bottega dalla critica più recente, anzi di una figura battezzata da Giovanni Previtali «Parente di Giotto» mentre adesso, dopo il restauro, la mano dell'artista è evidente. Ma c'è qualcosa che chi vedrà il Cristo non potrà neppure supporre e che è stata scoperta con la riflettografia a raggi infrarossi, ed è il disegno che sta sotto la pittura, un enorme, bellissimo disegno di Giotto. Sempre l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze (OPD) ha splendidamente restaurato, anni or sono, l'altro Crocifisso di Giotto, quello di Santa Maria Novella, un pezzo molto più antico, e, proprio dal confronto fra quel testo di fine '200 e questo, si comprende il lungo percorso del pittore.
Il Crocifisso di Ognissanti è imponente, anche se ha perso la base con la roccia del Golgota e la caverna con dentro le ossa di Adamo: la figura del Cristo è sospesa a una croce che non è di legno ma di blu lapislazzulo, croce come cielo, e alla sinistra e alla destra stanno la Madonna e Giovanni, in alto l'Eterno. Col restauro (di cui il «Corriere» aveva già scritto l'8 luglio 2009) è emerso un importante dettaglio: prima di iniziare a dipingere, Giotto sposta lievemente il capo del Cristo raddrizzando e riducendo l'aureola di legno; questo vuol dire che Giotto lavora con grandi sagome, non di pergamena e neppure di legno ma probabilmente di carta, che adatta al supporto preparato dai falegnami e coperto di tela e gesso. La novità del Cristo, rispetto a quello più antico, sta nella intenzione di rappresentare il corpo come una scultura che cala dall'alto, lievemente inclinata in avanti, sui fedeli. Giotto mostra qui di avere a lungo meditato la lezione della grande scultura espressiva della prima metà del XIII secolo in Francia e Germania, da Reims alla Sainte Chapelle, da Chartres a Bourges, da Bamberg a Naumburg; il suo viaggio oltralpe deve porsi prima di Assisi e della Cappella dell'Arena a Padova. È qui infatti che Giotto organizza compiutamente due complessi sistemi narrativi nei quali prevale ad evidenza la scoperta dello spazio e del racconto scenico della scultura gotica al Settentrione, quel racconto e quello spazio, come scolpiti nella pietra, delle prima storie dipinte ad Assisi. Così Giotto trasforma la immobilità espressiva delle figure e crea nel Cristo di Ognissanti, una scena ricca di pathos e tensione emotiva evidenti nella Madonna e nel San Giovanni.
L'analisi della pittura non ammette dubbi: sono di Giotto l'intero corpo del Cristo e le figure ai lati, salvo quella dell'Eterno che appare di un collaboratore, lo provano le diverse grafie pittoriche del torace e del ventre del Cristo toccati con minute, vibranti pennellate, e le gambe e le braccia segnate invece da lunghe strisce di colore; lo prova la tensione dei volti delle figure, la scansione geometrica delle teste, la invenzione prospettica, ad esempio delle dita del Cristo inchiodate alla croce. Ma la immagine riflettografica ci offre molto di più: ci fa capire come Giotto disegna, come Giotto prepara la pittura, ed è questo che stupisce. Giotto non abbozza in modo schematico la figura del Cristo, non riporta solo i contorni della grande sagoma che doveva comunque usare per stabilire la posizione della figura, Giotto progetta il corpo disegnandolo e chiaroscurandolo nel dettaglio, scandisce i piani, segna le ombre con larghe pennellate di polvere di carbone e segna con fini pennellate il viso, i morbidi capelli, la barba, il naso e le labbra del Cristo. Quando nel disegno Giotto scandisce le vibranti forme del tronco, delle gambe e delle braccia, definisce il rilievo partendo da una traccia evidente della sagoma scavata magari con una punta sul gesso della preparazione, a questa egli stesso aggiunge una netta ombra scura lungo i contorni.
Per la Madonna e il San Giovanni il discorso è diverso: qui il particolare che più intriga Giotto è quello dei volti rappresentati come maschere funebri oppure come Gisant, sepolture con sculture di figure giacenti, o come statue-colonna dei portali delle cattedrali gotiche al Settentrione; ma mentre i volti nel disegno sono intensi, drammaticamente espressivi, le panneggiature sono appena accennate. Sarà nella fase finale della stesura pittorica che Giotto costruirà il volume dei panneggi con il colore.
Dunque il Crocifisso di Ognissanti non solo ci restituisce una grandiosa opera di Giotto, ma ci fa comprendere anche il processo di registrazione della memoria nella sua officina e poi quello della realizzazione dell'opera. Giotto doveva possedere decine di libri di disegno, codici con schizzi, appunti di viaggio presi su pezzi scolpiti romani ma anche su sculture del '200 viste in Francia e Germania, e poi schemi di architetture e di composizioni narrative del Vecchio e Nuovo Testamento. Le sagome, in gergo patroni, gli servono per comporre, organizzare, spostare, ripetere le figure nei grandi cicli, ad esempio ad Assisi oppure a Padova, e qui per mantenere o sviluppare l'immagine di un Cristo in croce. Per Giotto appare quindi importante la stesura del progetto sulla tavola preparata: una volta determinati i contorni della figura magari a incisione sul gesso della preparazione, viene il disegno a carbone o a pennello con il nero molto diluito. E dopo, naturalmente, viene la pittura.
La Croce di Ognissanti entra a pieno titolo nel novero delle opere di Giotto e si colloca con ogni probabilità agli inizi del secondo decennio, al tempo degli affreschi della Cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze. Dobbiamo in origine immaginarcela dialogare con la grandiosa Madonna ora agli Uffizi e sopra tutto dobbiamo vederla in asse al limite del presbiterio, sospesa alta, e visibile a tutti, nella navata centrale, memento per gli uomini di un dolore che qui si fa dramma liturgico. Quella che i visitatori vedranno è dunque un'opera splendida, la sagoma del Cristo esangue contro il fondo d'oro finemente operato, vetri colorati come pietre preziose, e la Vergine e Giovanni che recitano l'angoscia di morte. Ecco una pittura che dialoga con Nicola Pisano, con Arnolfo, con Giovanni Pisano, tutti scultori, certo, ma, come scriveva Cesare Gnudi, tutti anche viaggiatori in terra di Francia.

da: Corriere della Sera, 13 ottobre 2010, p. 53

giovedì 14 ottobre 2010

Gli Scavi vanno coperti o si ridurranno in polvere

di Andrea Carandini (Presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali)

Prima che un rudere, Pompei è una città che ha perso i tetti e che ha tanti visitatori quanti un tempo i suoi abitanti: circa diecimila ogni giorno. Pur dopo una vita da archeologo militante, se dovessi dirigere la Soprintendenza vesuviana mi tremerebbero i polsi, tanto è immane, prima di tutto, il problema pratico: coperture, scorrimento delle acque, servizi... Mi sentirei più tranquillo se avessi al mio fianco un «sindaco». Noi umanisti abbiamo pregi e carenze, che spesso non vediamo. Il problema è che le competenze, scientifica e pratica, si sono sempre combattute a Pompei; non si è arrivati, come al solito da noi, a fare squadra.
Pompei si trova nella situazione dell'Aquila, ma dal '700. Le città senza coperture hanno un solo destino: ridursi in polvere. Quanti isolati siamo stati e saremo in grado di coprire? Certamente pochi, rispetto al centinaio di quelli scavati. E il resto? In polvere, pioggia dopo pioggia. Che fare? Bisogna, innanzi tutto, che Pompei finanzi, con propri soldi, la pubblicazione di tutti gli isolati, avvalendosi di istituti scientifici italiani e stranieri, al ritmo di almeno dieci isolati l'anno e secondo una metodologia di base unitaria; queste pubblicazioni devono concludersi con proposte di manutenzione e garantire la tutela conoscitiva della città: non abbiamo più la Pompei del '700; documentiamo almeno quella di questo inizio di secolo; a breve constateremo soltanto polvere. Ciò si ottiene organizzando una vasta e strutturata impresa scientifica. Pompei, il più straordinario rudere classico del mondo, è sostanzialmente inedita, come inediti sono i suoi reperti ammassati a «Sing Sing», gli sconfinati sottotetti del Museo Nazionale di Napoli, e a Pompei stessa! Non è uno scandalo? Perché, tra tanti argomenti sollevati, sovente in modo pretestuoso, questo problema non è mai stato sollevato: le indignazioni hanno paraocchi? Di più, manca a Pompei un progetto, che parta da un'analisi imparziale di quel che è stato fatto nell'ultimo decennio, gestione commissariale compresa, per arrivare a una proposta globale, che si concentri su un solo obbiettivo: come spendere gli ingenti fondi che Pompei incasserà nel prossimo decennio? Quali le parti da coprire, come realizzare le coperture, casa fare per quelle che non si potranno proteggere, come e dove comunicare la storia della città? Serve in primo luogo una manutenzione programmata, analogo a quella che il Commissario Roberto Cecchi sta sperimentando per Roma.
A Pompei è entrata la Protezione civile per la ragione che è entrata all'Aquila. Ha essa esautorato i funzionari della Soprintendenza? No: i progetti finanziati e realizzati sono stati elaborati dai funzionari archeologi, restauro del teatro compreso! Per il commissariamento a Pompei (non della Soprintendenza di Pompei), come per quello del centro archeologico di Roma, si è trattato di una guerra ideologica, come ho potuto verificare in una visita recente alla città, accompagnato dal Segretario generale del Ministero. Mi aspettavo un disastro. Ho trovato altro.
Ho constatato un'efficace segnaletica, servizi igienici funzionanti, un pronto soccorso per i visitatori, percorsi per portatori di handicap, visite organizzate per le scuole. Ho visitato un isolato interamente coperto, quello dei Casti amanti, che consente di apprezzare alcune case in corso di scavo per la prima volta sia dall'alto che dal basso: l'asino che per salvarsi ha ficcato la testa sotto la mangiatoia! (ho fatto osservare un fronte troppo avanzato, che verrà arretrato). La vicina Casa di Polibio è stata assai ben valorizzata, con mobilio, suppellettili e un racconto dell'eruzione, a partire dagli scheletri rinvenuti. Ho visto cantieri di manutenzione aperti, circa una settantina. È cominciato il restauro dei marciapiedi consunti e si approfitta dell'occasione per posare cavi per i servizi. Ho apprezzato il restauro dell'Antiquarium, chiuso dal 1980, che a novembre riaprirà. È stato reso fruibile il teatro con gradini in tufo, che ho preferito al marmo, proposto in un primo tempo dalla Soprintendenza. Sono stati vincolati venti ettari sopra la città non scavata, destinati a culture biologiche da offrire nel ristorante che sta per aprire alla Casina dell'Aquila. Gli uffici della Soprintendenza non sono più nei container - terremoto del 1980 - ma nell'edificio di San Paolino restaurato. Nel passato sono stati spesi circa sette milioni di euro l'anno, su circa 20 di incassi annuali. In un anno e mezzo sono stati impegnati dal Commissario Marcello Fiori circa settantanove milioni di euro (dei quali quaranta residui attivi della Soprintendenza), destinati per oltre l'ottanta per cento a messe in sicurezza, alla tutela. Verranno destinati due milioni di euro alla manutenzione ordinaria programmata, che è il futuro. Verranno smontati i capannoni sopra la città antica che, rimontati altrove ridaranno decoro paesaggistico al luogo.
Tutti disastri? Certo il problema formidabile di Pompei resta. È auspicabile un nuovo modello di gestione, adatto a una realtà tanto complessa, che sia capace di far cooperare diverse competenze. Dovrebbe consentire al Soprintendente di esercitare i poteri di tutela e di verifica in modo in modo pieno e al «sindaco» di esercitare la gestione, altrettanto in modo ampio. Il fine comune è mostrare, raccontare. (Una precisazione: il portale Pompeiviva.it è del Ministero; il criticato Italia.it no).

da: Corriere della Sera, 6 ottobre 2010, pp. 20-21

Restauri infiniti e costosi
Chiuso il gioiello dei Vettii

di Alessandra Arachi

Negli scavi di Pompei non c'è bisogno di andare a caccia di scandali lungo tutti i sessantacinque ettari di beni archeologici a cielo aperto, patrimonio dell'Umanità. Per deprimersi è sufficiente fare come un turista pigro. Girare appena poche centinaia di metri attorno al Foro. È il posto che è proprio all'incrocio degli assi principali del nucleo originale, il Foro. Il fulcro della città antica. Il perno della folla dei turisti, cinquemila ogni giorno, in media.
La desolazione, tuttavia, assale già all'ingresso delle rovine. Non soltanto per le toilette degne di un campo di concentramento. O per le guide turistiche più o meno autorizzate che ti vengono incontro a frotte, con ogni lingua conosciuta. È che appena arrivi, la guida cartacea ti sbandiera come prima visita la bellezza delle Terme. Inutilmente. Sono chiuse, da chissà più quanto tempo. Come l'Antiquarium, mai aperto per ospitare le migliaia di reperti archeologici prigionieri e impolverati dentro i Granai del Foro. Da sempre.
I turisti si accalcano neanche fossero mosche attorno al miele pur di rubare foto di statue o di capitelli o di chissà che ben di dio è custodito dentro le cassette di plastica, lì all'interno di quei Granai chiusi con sbarre arrugginite. I cani randagi (che in tanti continuano ad aggirarsi indisturbati per le rovine antiche) amano fare la pipì sopra quelle sbarre. Camminare attorno al Foro per crederci. Le strade antiche sbarrate senza alcun cartello che spiega il perché. Palizzate divelte. Cumuli di calcinacci dentro botteghe mai restaurate.
Uno degli zuccherini del giro turistico (versione pigra) è senza dubbio il tempio di Apollo. Qui lo stato di degrado non è, tanto e soltanto, una questione di etica o di decoro. C'è un problema serio di sicurezza. Basta alzare gli occhi sotto le volte per capire. Oppure guardare le colonne che si sgretolano, pezzo dopo pezzo. Di solito cadono in terra pezzettini piccoli di quelle colonne. Ma chi può impedire che si stacchi un lastrone per intero? Addosso a qualche turista inerme?
Continuiamo a camminare. Adesso in direzione delle porte di Ercolano. Vicolo delle Terme. Vicolo della Follonica. Sono tante, ancora, le case chiuse, sbarrate con i lucchetti. Nella Casa del Poeta Tragico c'è il famoso mosaico del Cave Canem. Ci sarebbe. Perché non si può vedere, visto che anche questa casa (inutilmente contrassegnata dal numero 22 dell'audio guida) è chiusa.
Ma andiamo avanti. Fiduciosi verso la Casa dei Vettii: era stato annunciato un grande restauro. La guida cartacea ci spiega che i Vettii erano ricchi e liberti. Ci invoglia a guardare le pitture d'ingresso che evidenziano auspici di prosperità. E dove spicca la figura di Priapo, dio della fertilità. È una pruderie morbosa questa figura mitologica con il suo grande membro posato sopra il piatto di una bilancia a far da contrappeso al denaro. Ma arrivati all'ingresso della Casa dei Vettii, la delusione deborda nella rabbia. Non soltanto non si può ammirare nemmeno l'ombra di Priapo. Ma l'unico denaro che possiamo vedere è quello scritto in cifre sul cartello all'ingresso che segnala il restauro: 548 mila euro per dei lavori inaugurati il 27 agosto del 2008 che avrebbero dovuto essere terminati nel 2009. Non è dato sapere in quale mese del 2009 avrebbero dovuto chiudere il cantiere: sul cartello dei lavori, qualcuno sopra la data ci ha voluto scrivere «vergogna» con una penna a biro. Comunque siamo nel 2010, e anche verso la fine, e della Casa dei Vettii ci rimane soltanto la veduta di una infinita montagna di impalcature dove non c'è segno di un operaio o di un qualsiasi qualcosa che dia il senso di alcun lavoro in corso.
Quando eravamo passati davanti alla casa del Naviglio di Zefiro e Flora (chiusa) un operaio l'avevamo visto: si aggirava lungo le impalcature senza alcuna misura di sicurezza. E senza alcuna preoccupazione.
Andiamo avanti. Continuiamo a girare. La via Stabiana è lunga. Adesso osiamo. Mettiamo da parte la pigrizia, andiamo oltre la sequela di botteghe senza arte né parte, case dagli intonaci che vengono giù come le gocce di pioggia, e allunghiamo il passo. Dritti per dritti lungo la bella (e miracolosamente rimasta originale) via Stabiana si arriva al Teatro Grande.
Ci aveva fatto soffrire il Teatro Grande di Pompei in una gita di fine primavera. Per i lavori di restauro erano stati usati, senza pudore, martelli pneumatici e ruspe, scavatrici, betoniere. Cavi elettrici che bucavano le colonne. Turisti increduli davanti a tanto scempio.
Il Teatro Grande è stato restaurato e inaugurato. Ricostruito ex novo con blocchetti di tufo moderno. In tanti esperti in quei giorni avevano gridato allo scandalo per un bene trattato come fosse il cantiere di una cava di marmo. Ma alle obiezioni era stato replicato che il tufo era reversibile. Che sarebbe stato tolto, prima o poi. Corriamo a vedere il Teatro Grande. Ovviamente i blocchetti di tufo sono ancora tutti lì. Ha qualche senso logico spendere milioni di euro per mettere quei blocchetti di tufo e altrettanti soldi per toglierli, poi, nel giro di qualche settimana, terminata la stagione estiva degli spettacoli? Le casette di lamiera allestite per i camerini, però, almeno quelle sarebbe stato possibile portarle via. Sottrarle alla vista. Come i tubi in ferro accatastati lì, a mucchi. A che cosa servono?
Torniamo indietro al Foro, mesti. Vicino ai Granai c'è un cagnone nero che ci viene incontro, ci lecca la punta della scarpa, si avvia a fare i suoi bisogni nel luogo deputato. Sentiamo la stessa esigenza. E accanto ai Granai abbiamo la prima buona notizia della visita: nella caffetteria nuova le toilette sono pulite e ordinate. Si può fare la pipì illudendosi di essere in un posto civile.

da: Corriere della Sera, 6 ottobre 2010, p. 21

lunedì 11 ottobre 2010

L'umiliazione di Pompei

L'area archeologica in abbandono

di Sergio Rizzo

Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi come l'Italia custodisca la maggior parte dei beni artistici e archeologici del pianeta. Ma meritiamo davvero un simile onore? Il dubbio sorge, osservando quello che accade a Pompei. Da tempo il Corriere del Mezzogiorno sta documentando lo scempio di alcuni «restauri» a base di colate di cemento e l'incuria che regna nell'area immensa degli scavi. Con la protesta montante attraverso i social network, come sta a dimostrare il record di adesioni a una pagina di Facebook che si chiama «Stop killing Pompei ruins». Al punto che viene da chiedersi: ma se quel tesoro ce l'avessero gli americani, oppure i francesi o i giapponesi, lo tratterebbero allo stesso modo?
Il fatto è che quell'area archeologica unica al mondo è purtroppo il simbolo di tutte le sciatterie e le inefficienze di un Paese che ha smarrito il buon senso e non riesce più a ritrovarlo. O forse semplicemente non vuole, affetto da una particolare forma di masochismo. Che però ha responsabili ben precisi. «Le istituzioni preposte alla tutela dei beni culturali sono costantemente umiliate da interessi politici ed economici del tutto privi di attenzione per la salvaguardia di quella che è la maggiore ricchezza del nostro Paese» ha denunciato qualche tempo fa Italia Nostra. Ed è proprio difficile dargli torto, quando proprio a Pompei l'indifferenza della politica si tocca con mano.
Per due anni, con la motivazione del degrado in cui versa l'area, hanno spedito lì il commissario della solita Protezione civile. Con il risultato di «commissariare» nei fatti anche la Sovrintendenza. E già questo non è normale (che c'entra la Protezione civile con gli scavi archeologici?). Ma ancora meno normale è il fatto che da mesi, ormai, Pompei sia senza una guida. A giugno il commissario è scaduto. Mentre a ottobre il sovrintendente ancora non c'è. O meglio, il posto è tenuto in caldo da un reggente in attesa del titolare. Che però il ministero dei Beni culturali non nomina.
Perfino inutile interrogarsi sui motivi di questa paralisi. Viene addirittura il sospetto che nella stanza dei bottoni nessuno si renda conto di avere fra le mani una risorsa economica enorme in una regione che ha disperato bisogno di lavoro e sviluppo. Per dare un'idea dell'attenzione riservata a questa materia basterebbe ricordare che dal 2004 a oggi il governo non è stato nemmeno in grado di mettere in piedi un portale nazionale di promozione turistica degno di tal nome. Nonostante i milioni (non pochi) spesi. Per verificare, fatevi un giretto su www.italia.it, dove la pratica pompeiana è liquidata in 66 parole, senza nemmeno una foto: «Per l'eccezionalità dei reperti e il loro stato di conservazione, l'Unesco ha posto sotto la sua tutela l'Area archeologica di Pompei ed Ercolano, che nel 79 d.C. furono completamente distrutte dal Vesuvio. La lava vulcanica segnò la loro distruzione ma, solidificandosi, la stessa lava che le distrusse divenne un'eccezionale "protezione" che ha preservato gli straordinari reperti, riportati alla luce molti secoli dopo». Stop.
E poi c'è chi si lamenta che con il 70% delle bellezze artistiche e naturali di tutto il mondo continuiamo a scivolare in basso nelle classifiche internazionali del turismo...

da: Corriere della Sera, 5 ottobre 2010, p. 1

giovedì 7 ottobre 2010

Artisti e modelle, un rapporto intimo

di Francesca Bonazzoli

La nostra è l'unica epoca in cui, grazie alla fotografia, il ritratto è potuto dilagare in ogni classe sociale. Nel passato, trattandosi di un rapporto fra artista e persone altolocate, per lo più nobili, si è sviluppato nella forma di un rito le cui rigide regole potevano essere incrinate dalla relazione diretta che di volta in volta si instaurava fra gli occhi dei due officianti.
In teoria l'artista ha in mano un potere in più rispetto a colui che si fa ritrarre: il potere di Pigmalione, di Faust, dei costruttori di Golem delle leggende ebraiche. Insomma il potere di Dio che anche nella tradizione biblica crea l'uomo facendone prima una statua di creta. Sappiamo che Isabella d'Este ne fu spaventata al punto da rifiutare un ritratto di Leonardo da Vinci che le pareva troppo introspettivo, troppo dentro i segreti della sua anima, e non possiamo stupircene visto che ancora oggi, pur abituati come siamo alle immagini, gli occhi e il sorriso della Gioconda continuano a turbarci.
Ma com'erano le regole di questo pas de deux in cui ci si poteva scambiare il ruolo di colui che conduce la danza e di chi invece si fa portare? Molto varie, posto comunque invalicabile il divario sociale fra artista e ritrattato. Conosciamo un solo caso in cui la barriera di classe sembra, almeno per un momento, essere caduta: quando l'imperatore Carlo V, ad Augusta, pare si fosse chinato per raccogliere il pennello sfuggito di mano a Tiziano che stava ritraendolo.
In questo rapporto il tempo era sempre tiranno: i nobili concedevano solo quello necessario per tratteggiare il volto mentre per dipingere tutto il contorno - vestiti, cani, cavalli, arredi - il pittore doveva arrangiarsi per conto suo. Nell'archivio del Palazzo Reale di Madrid sono ancora conservate due lettere del 1625 e del 1628 in cui il conte duca di Olivares ordinava al marchese Flores Dávila, primo Cavallerizzo, di facilitare rispettivamente a Velázquez e a Rubens l'accesso a tutti i pezzi dell'armeria reale per la realizzazione dei ritratti equestri del re.
Una relazione molto intima fu invece quella fra Sofonisba Anguissola e le infante di Spagna: non solo la giovane pittrice cremonese era la ritrattista di corte, ma anche la dama di compagnia delle principesse. Si può pensare quindi che avesse tutto il tempo a disposizione per ritrarre le sue modelle, ma non il distacco per farne dei ritratti che non fossero encomiastici e celebrativi. Quasi un secolo dopo, Van Dyck riusciva a liberarsi dei lacci cortigiani della vita a corte: era così ricco e richiesto che riceveva i reali d'Inghilterra nel suo studio a Blackfriars, reso confortevole con servi, carrozze, cavalli, suonatori e buffoni. Nel Settecento anche Pompeo Batoni, il più celebre ritrattista dei giovani miliardari europei che spendevano le loro ricchezze nell'esotica Italia del Grand Tour, aveva allestito l'atelier come un elegante appartamento ricco di tendaggi, sete, velluti, opere d'arte. I giovani si fermavano per qualche seduta di posa e poi sceglievano a piacere gli oggetti, soprattutto reperti archeologici, che sarebbero apparsi nello sfondo del quadro.
Caravaggio la pensava all'opposto: preferiva la sua stanza buia e sporca e come modelli usava il garzone e le amanti prostitute.
Un altro che amò dipingere immerso nel mondo della prostituzione fu il conte Toulouse Lautrec. Fra lui e i soggetti ritratti cadeva così ogni barriera, che nel suo caso sarebbe stata un muro sociale eretto al contrario. Anche Klimt mescolava arte e sesso. Nel suo studio viennese spogliava le signore dell'alta società, le ritraeva minuziosamente e poi, con comodo, le rivestiva sulla tela dei suoi tipici abiti-mosaico con tessere d'oro. Non ci è dato sapere se andasse oltre lo sguardo; di certo Hayez lo face. Lo sappiamo perché il pittore stesso, che raccoglieva grandi successi presso le giovani della borghesia milanese, si è disegnato nel suo studio impegnato in molteplici pose di sesso.
Col tempo la fotografia ha semplificato molto il rituale accorciando il tempo della relazione fra artista e persona da ritrarre. Warhol è stato il prototipo di questo cambiamento: con la sua Polaroid coglieva la banalità della cronaca e da quegli scatti veniva poi il quadro. Un rapporto dunque mediato sia dalla distanza tecnologica che dallo spazio non più condiviso fra l'artista e il suo soggetto. Ma anche in questo caso ci sono eccezioni: la fotografa Annie Leibovitz che aveva tirato troppo in lungo la posa sul set, è riuscita a scatenare l'irritazione della regina d'Inghilterra. Alla fine, sono ancora i sovrani a dettare le regole del rito.

da: Corriere della Sera, 4 ottobre 2010, p. 39

domenica 3 ottobre 2010

Una macchia nera sui dipinti di Lascaux

di Viviano Domenici

I dipinti preistorici della grotta di Lascaux, in Dordogna (Francia), antichi di 17.000 anni, stanno male e non si trova la cura per debellare la lebbra che li sta deturpando. Il male comparve la prima volta cinquant'anni fa e periodicamente torna a insidiare, sia pure in forme diverse, le 900 figure di questo straordinario bestiario dell'uomo paleolitico. Stavolta sono macchie nerastre a crescere sul muso della «grande vacca», tra le corna delle renne, sulle zampe dei cavallini neri, e finora tutti i tentativi di annientare quell'impasto micidiale di microscopici funghi, muffe e calcite non sono stati risolutivi.
L'allarme è stato rilanciato nei giorni scorsi, in occasione della visita del presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy e di sua moglie Carla Bruni, che sono entrati nella grotta indossando tute bianche sterili. Così la notizia del cattivo stato di salute di Lascaux ha fatto il giro del mondo, insieme all'eco delle polemiche suscitate dall'iniziativa del Comitato internazionale per la Conservazione di Lascaux che ha chiesto all'Unesco di iscrivere la grotta nella lista dei beni patrimonio dell'Umanità a rischio di distruzione. Una richiesta eclatante che di fatto mette sotto accusa l'attuale Commissione ministeriale da cui dipende la conservazione dei dipinti.
Principale imputato è il particolare sistema di condizionamento dell'aria, fatto installare dall'attuale Commissione, che avrebbe innescato lo sviluppo incontrollato di funghi (Fusarium solani), muffe e batteri contro i quali sono state impiegate massicce dosi di antibiotici e antifungini, applicati sotto forma di impacchi, che non hanno dato i risultati sperati.
Anzi, secondo i critici alcuni interventi - come quello di spargere quattro tonnellate di calce viva nella cavità per combattere i batteri introdotti dagli stessi tecnici addetti alle operazioni di disinfestazione - hanno creato più problemi che altro.
Il Comitato internazionale ha anche denunciato il rifiuto della Commissione ministeriale di mettere a disposizione degli scienziati di tutto il mondo la «cartella clinica» semestrale dei dati rilevati dalla rete di sensori presente nella grotta.
Di fronte alle pesanti critiche, la conservatrice di Lascaux, Muriel Mauriac, ha replicato affermando che lo stato di salute e i livelli di contaminazione della grotta sono stabili e tra pochi giorni saranno disponibili gli studi sul metabolismo del fungo aggressore. Insomma, due verità contrapposte. Forse sapremo qualcosa di più in occasione della conferenza stampa annunciata per la metà di ottobre. E'evidente, però, che la prima minaccia ai celebri dipinti di Lascaux viene dalla presenza dell'uomo che altera il microclima nell'ipogeo; tutti gli altri problemi sono solo conseguenti.

da: Corriere della Sera, 28 settembre 2010, p. 32

giovedì 30 settembre 2010

Una cava minaccia San Pietro al Monte
In mille per la basilica

di Paolo Marelli
«Giù le mani dal monte Cornizzolo. Giù le mani dalla basilica millenaria». Un solo coro per mille voci. Tante quante le persone che ieri si sono strette in una catena umana, quella che si è eretta a muraglia per difendere la vetta della montagna tra Como e Lecco e il gioiello storico-artistico di San Pietro al Monte dai tentacoli della Holcim, la multinazionale svizzera del cemento che, con i suoi moderni «draghi» a motore, vuole divorare una fetta del Cornizzolo, per cavare tonnellate di calcare per l'impianto produttivo brianzolo di Merone.
Se la gigantesca cava dovesse cominciare a tritare la roccia dal monte alto 1.240 metri, «in pericolo - dice Serafino Castagna, responsabile dell'associazione Amici di San Pietro, che tutelano il complesso medievale - ci sarebbe non solo la sopravvivenza di un balcone naturale sul lago di Como e sulla Brianza, ma anche un tesoro di architettura e affreschi della Lombardia, che affonda le sue radici nel basso medioevo».
Dopo mesi di fuoco di sbarramento, con incontri e sirene d'allarme, la crociata per respingere l'assalto della Holcim ha toccato il culmine con la giornata di protesta del «Cornizzolo Day». Una domenica di sole e contestazione sulle pendici tra pranzo al sacco, musica e giochi. C'erano famiglie, giovani e meno giovani, amministratori locali e ambientalisti. Tutti paladini per un giorno contro le brame della multinazionale elvetica, che ha già avanzato una richiesta per aprire una cava, oltre i 900 metri di altezza. Alla testa della crociata per salvare il Cornizzolo e il complesso dell'ex abbazia benedettina ci sono sette piccoli comuni - Canzo, Cesana Brianza, Civate, Eupilio, Pusiano, Suello e Valmadrera - che si estendono ai piedi di questa montagna aspra, ripida e affascinante; paradiso degli scalatori, degli appassionati di parapendio, degli amanti dell'arte e della storia.
Una montagna peraltro già ferita dalla Holcim, che su un versante, sopra le case di Eupilio e Cesana, ormai da cinquant'anni cava dalla miniera dell'Alpetto, la marna che rifornisce di materia prima, per mezzo di un groviglio di nastro trasportatori e teleferiche, i forni dello stabilimento di Merone. Ma i sindaci dei sette comuni spiegano che «si tratta di un polo estrattivo destinato a esaurirsi. Tanto che ha obbligato la multinazionale a setacciare il territorio per scovare una fonte alternativa. E una nuova vena calcarea l'hanno trovato su un'altra parete del Cornizzolo. Ma faremo di tutto per scongiurare un'altra mutilazione di questa montagna».
Nei piani della Holcim l'attività estrattiva della nuova cava dovrebbe durare vent'anni. E se Provincia di Lecco e Regione, a cui toccherà l'ultima parola, dovessero decidere per un no all'apertura, il colosso del cemento minaccia pesanti tagli fra i 270 lavoratori dello stabilimento di Merone. Un braccio di ferro che scatena paura e rabbia. Da tutti, sindaci e semplici cittadini, si alza una sola voce: «Una cava quassù è una follia, uno sconvolgimento per il paesaggio e una minaccia per la stabilità della basilica».
Perché, argomenta Castagna, «l'attività estrattiva vorrebbe dire un'esplosione di dinamite al giorno, con la terra a tremare e nubi di polvere nell'aria a due passi da un complesso millenario». E un solo coro echeggia fino a valle: «Giù le mani dal monte Cornizzolo, giù le mani dalla basilica millenaria».
Il lago di Lecco visto dalla basilica di San Pietro al Monte di Civate.

martedì 28 settembre 2010

Il teatrino di Cattelan

di Maurizio Cecchetti
Per riconoscere il genio di Maurizio Catte­lan non si devono giudicare le opere che fa dal punto di vista artistico, è indispensabi­le analizzare le reazioni che scatenano nel pub­blico. Basta ricordarsi dei tre ragazzini in salo­pette appesi all’albero a Milano e dello scandalo che fecero tra gente comune e ipocrite reazioni dei politici: un ex sindaco (quello della sfilata in boxer), commentò: «Temo un po’ per il traffico»; non contenta della laconica risposta, una gior­nalista chiese all’ex primo cittadino se non gli sembrava una immagine un po’ troppo forte quella di Cattelan: «Ma se non hanno nemmeno un’espressione di dolore…» fu la risposta ancora laconica. L’assessore alla cultura dell’epoca, uo­mo Confindustria, si giustificò così: «Non lo riti­rerò [il patrocinio], sarei accusato di censura. Non sapevo che sarebbe stato allestito così. Nel progetto si parlava semplicemente di pupazzi appesi per rievocare il mito di Pinocchio». La ri­sata è d’obbligo, no? Un signore che abitava di fronte all’albero incriminato, dopo essersi la­mentato per molte ore lanciando grida dalla fi­nestra di casa sua, scese in strada e siccome nes­suno faceva nulla per togliere quello scempio salì su una scala e cominciò a tagliare le corde, uno dei manichini cadde e si ruppe. Arrivò per caso un critico d’arte libertario e benpensante (che poi fu a sua volta assessore del Comune) gridando: «È puro vandalismo culturale» [quello di Cattelan? No, quello del signore di mezz’età…] «chi fa queste cose andrebbe arre­stato. È come quando presero a martellate la Pietà di Michelangelo». Per lui anche i graffiti del Leonka sono degni della Sistina, tutto si spiega accidenti! E il teatrino potrebbe continuare. Il fi­nale è degno di nota: arrivò anche Cattelan, vide il manichino in pezzi, raccolse i cocci e confessò tristemente: «Io non ho commesso atti contro la legge, chi rompe l’opera sì» (e pare abbia anche sporto denuncia: non c’è male per un provocato­re). Adesso Cattelan ci riprova. Per la verità se ne parla da mesi, da quando rese noto l’ormai cele­bre «dito medio» – intitolato L.O.V.E. – che verrà collocato in Piazza Affari (ma solo per una deci­na di giorni); dopo lunga querelle tra il sindaco in gonnella che lancia fulmini dagli occhi e l’as­sessore che promette gesti pubblici di protesta se la mostra salta (le dimissioni?), mentre ci si at­tacca a tutto pur di limitare i danni (compresa un’assurda polemica sul manifesto della mostra e un orario d’apertura di poche ore pomeridia­ne- serali), sembra che venerdì si inauguri, ma dalle iniziali otto opere programmate ne verran­no esposte soltanto quattro. Ci sarà la statua di Giovanni Paolo II caduto sotto un meteorite, l’Hitler genuflesso e la donna crocifissa. Tutte o­pere già note e causa di polemiche, esposte a Pa­lazzo Reale assieme a un libro d’artista nel quale Francesco Bonami, il critico internazional-popo­lare amante del suk artistico, spiegherà in 44 ta­vole la carriera artistica di Cattelan. Sarebbe un errore madornale credere che la mostra di Catte­lan sia questa. Le opere sono soltanto il pretesto, il capolavoro invece è ancora in fieri: è la provo­cazione implicita in chi accetta di esporre le sue opere a Milano, dopo il precedente dell’albero, sfidando i benpensanti, e si sa che i primi a do­versi dimostrare tali sono quelli che governano, i politici, che monitorano le reazioni del pubblico. C’è malumore in giro, si viene a sapere di un’o­pera che fa un gesto volgare ma interclassista, nel senso che è praticato tanto dai ricchi quanto dai poveri, da quelli con una laurea e dagli anal­fabeti, da nonne e nipotini, insomma dall’Italiet­ta televisiva? C’è pure un colpevole? Il mondo fi­nanziario mondiale. Bene, quale idea può essere più efficace di questa se collocata in Piazza Affa­ri? E infatti Cattelan dice: accetto tutto, ma non rinuncio alla collocazione di quell’opera davanti alla Borsa, voglio vedere che effetto fa. Alla fine Milano avrà la sua mostrina di Cattelan. Però, parliamoci chiaro: piaccia o meno, Cattelan è l’artista italiano più noto e quotato al mondo. Le sue opere vengono vendute a milioni di euro. Si può decidere di fare una sua mostra oppure no. Ma se si fa, bisogna avere il coraggio di andare fi­no in fondo, esporre quello che va esposto, guar­dare, analizzare, criticare, stroncare, ridere, pian­gere, pregare, odiare, sfasciare (questo no), in­somma, assumersi piena responsabilità e non fare questa magra figura che ha fatto Milano, che è soltanto l’ultima più clamorosa in una serie di mostre che da anni non sono all’altezza di una città che fece carte false pur di avere Expo 2015. Si facciano l’esame di coscienza quelli che deci­dono a Milano. E si domandino: se questa mo­stra di Cattelan fosse venuta in mente a Roma, a Venezia oppure a Firenze, si sarebbe vista mai tanta finta pruderie? In ultimo, una nota su Cat­telan. Non si tratta di decidere se sia bravo o no. È bravo e capace, ma in quello che sa fare: il pro­vocatore, l’uomo spettacolare, il pubblicitario di situazioni paradossali che solleticano il perbenismo di tanti che amano la bagarre, lo sberleffo plateale e pubblico di memoria futurista. L’arte è un’altra cosa. Anzi, dirò me­glio: Cattelan sarà pienamen­te artista (e non solo comuni­catore o buffone di corte) quando saprà darci, final­mente, un’opera senza pro­vocazioni d’immagine, ma capace di rendere la bellezza in una forma che parla da sé. Dove la forma, insomma, prevalga sul «messaggio stra­no ». Sembrava che potesse riuscirci quando a Palazzo Grassi espose sette marmi dove s’intuivano altrettanti corpi stesi a terra e coperti da un lenzuolo. Ma c’era ancora troppa «cronaca» in queste sculture e poco assoluto. Col «dito medio», però, Cattelan dà prova di essere ritornato alla sua tentazione più irresi­stibile: mettere i baffi alla Gioconda.
L'installazione "L.O.V.E." davanti alla Borsa di Milano (27 settembre 2010)