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domenica 29 agosto 2010

Post-bellezza, ferita moderna

di Daniele Zappalà

«La bellezza in quanto tale, da sola, forse non salverà mai il mondo. Ma essa, nonostante la sua intima fragilità, sembra almeno salvaguardare la nostra dignità di umani. Per questo, conviene sempre conservare per le generazioni future delle riserve di ciò che l’incontro con il bello ci ha ispirato». Da un quarto di secolo la riflessione del filosofo francese Jean-Louis Chrétien, nato nel 1952, docente alla Sorbona, già appartenente alla sinistra radicale e convertitosi al cristianesimo in età adulta, sonda il fondo spirituale della condizione umana a partire dalle manifestazioni vitali più elementari: il corpo e i suoi linguaggi, il desiderio di parola e la risposta naturale a una chiamata. Temi che s’intrecciano, con sviluppi imprevedibili, in due sue opere penetranti da poco apparse anche in Italia: La ferita della bellezza (Marietti) e Simbolica del corpo. La tradizione cristiana del Cantico dei cantici (Cittadella).

Professore, lei sostiene che la bellezza può atterrire. Cosa intende esattamente?

«Questa riflessione trae in parte ispirazione da Platone. Se la consideriamo in un senso forte, la bellezza prende sempre nella vita la forma di un’apparizione capace immediatamente di attirare la nostra attenzione, poiché ciò che incontriamo sfugge all’ordinario. Una persona che passa, un riflesso di luce sul paesaggio o un altro fenomeno ci colpiscono e ci raggiungono con la loro dimensione quasi sacra, facendoci paradossalmente sentire subito la loro distanza rispetto a tutto ciò che compone la nostra routine».

Ma si tratta davvero di uno stato prossimo alla paura?

«Per quanto forse un po’ drammatico, un esempio può risultare illuminante. Si pensi alle forme ricorrenti di violenza contro ciò che si manifesta come bello. La violenza del vandalismo che si scaglia ad esempio contro un quadro, ma anche quella privata o collettiva contro le persone. In certi individui, può sorgere l’impulso di rovinare, profanare, distruggere ciò che al contempo affascina. Proprio perché la bellezza è l’apparizione di un’altra possibilità di esistenza, un’apparizione capace di sconvolgerci in profondità. Non è mai semplice recepirla e accettarla in pieno».

Questo senso di sorpresa nasce anche quando si scorge la bellezza dove non la si attendeva?

«Proprio così. Sono rimasto personalmente molto commosso dalle testimonianze di alcuni miei lettori che lavorano nel mondo ospedaliero. In particolare, medici o infermieri del reparto grandi ustionati, un luogo subito associato all’orrore. Eppure, queste persone mi hanno raccontato la loro gioia profonda nel veder apparire un sorriso su un volto plasticamente rovinato o distrutto. Ciò illustra bene il fatto che la bellezza non è qualcosa di fisso, ma che essa è prima di tutto un avvenimento. Si può dire lo stesso dei volti solcati da rughe di persone molto anziane, quando di colpo sono illuminate da un’espressione di meraviglia e apertura al mondo. Si pensi poi ai volti che ascoltano con profonda attenzione, in modo appassionato».

Ciò che è bello, direbbero alcuni, è anche raro. È d’accordo?

«Non proprio, almeno nel senso che la bellezza può manifestarsi dappertutto e divenire parte integrante di ogni nostra giornata. È vero che chi si apre alla cultura può allargare la propria sensibilità verso certe forme del bello. Ma al contempo, non si può certo dire che la bellezza sia inaccessibile per gli altri. Se non saranno forse le opere d’arte a colpire questi ultimi, potrà essere comunque la bellezza di un qualsiasi essere vivente o di un paesaggio. In tutti questi casi, dopo l’impatto iniziale, si può rispondere alla bellezza con un elogio che utilizza la parola o che resta invece silenzioso».

La bellezza può sempre divenire un cammino verso la trascendenza?

«Non esistono sentieri già tracciati, proprio perché è la bellezza a chiamarci e a venirci incontro. Ma occorre mantenere lo spirito attento, così come gli occhi, le orecchie e ogni altro senso aperti a quest’incontro. In definitiva, occorre rispondere agli appuntamenti che ci vengono offerti, anche quelli con la trascendenza».

Di sensi aperti all’incontro trattano anche le interpretazioni cristiane del Cantico dei cantici. Cosa l’ha spinta a riscoprire questi testi?

«Si tratta di una tradizione estremamente ricca e oggi troppo poco conosciuta. In tutte queste interpretazioni, l’immagine del corpo umano respira e traspira i significati più diversi. Il Cantico dei cantici è il libro della Bibbia più attento al corpo umano. E lungo i secoli, le sue innumerevoli interpretazioni hanno dato vita a una sorta di paradosso: i concetti più sottili e spirituali della teologia mistica sono stati espressi proprio attraverso la simbolica del corpo e delle sue singole parti. Luogo per sua natura dove il significato viene al mondo, il corpo è diventato in particolare il cuore del pensiero filosofico e teologico dell’Incarnazione».

Lei ricorda che la Chiesa stessa è stata spesso rappresentata come un corpo umano.

«Si tratta di una tradizione legata profondamente al Nuovo Testamento e in particolare alla teologia paolina. Questo linguaggio al contempo corporale e mistico è rimasto prevalente fin oltre il Medioevo e ancora presente nel Seicento. Solo con l’avvento della modernità, in corrispondenza anche della distinzione cartesiana fra anima e corpo, una certa diffidenza ha finito per prendere il sopravvento. Designare degli atti interiori con metafore corporali è parso vieppiù strano e talora decisamente inopportuno. Ma la sensibilità odierna, di nuovo attenta ai fenomeni più semplici della condizione umana, potrebbe rivelarsi propizia per una riscoperta della tradizione precedente».

da: Avvenire, 26 agosto 2010, p. 27

domenica 22 agosto 2010

La bellezza non esiste più

di John Banville (trad. di Maria Sepa)

La bellezza, nel nostro tempo, è diventata un argomento difficile da affrontare. La parola stessa comporta delle difficoltà, anche se il suo uso dilagante - per non dire indiscriminato - in ogni ambito, dalla pubblicità dei cosmetici al calcio, ormai universalmente noto come «il bel gioco», tende a mettere in ombra queste difficoltà. Nel campo dell'arte il termine ha assunto quell'aura imbarazzante che aveva la parola «sesso» per i vittoriani. Oggi, definire «bella» un'opera d'arte sottintende inevitabilmente che manca di spessore, che non è abbastanza seria o di avanguardia, e soprattutto che non è così «importante» da meritare una considerazione approfondita o non effimera. Picasso, ad esempio, parlava con condiscendenza di Braque come «ma femme» e liquidava il grande Bonnard definendolo un semplice colorista, un illustratore di scatole di cioccolatini.
Per i modernisti come Picasso solo il brutto, in un certo senso, poteva essere autentico. «Nel modernismo», scrive Wendy Steiner, «le tradizionali gratificazioni dell'esperienza estetica - il piacere, l'intuizione, l'empatia - venivano per lo più rifiutate, e il suo generoso fine, la bellezza, abbandonato. Le opere d'arte moderne potevano spesso essere intensamente belle, ma la loro era una bellezza dura, accompagnata da privazione, negazione, rivolta» (...).
Tutti sappiamo che la bellezza è un'entità estremamente difficile da definire. Potremmo anche chiederci se ci sia davvero qualcosa che si possa identificare con la bellezza. Il relativismo rende la questione ancora più ardua. Wendy Steiner tratta questo aspetto con chiarezza: «Spesso parliamo della bellezza come se fosse una proprietà degli oggetti: alcune persone o opere d'arte "la posseggono", altre no. Ma, con tutto il rispetto per Kant e Burke, il giudizio in fatto di bellezza varia enormemente da una persona all'altra, e nel corso del tempo anche in una stessa persona. Queste differenze e oscillazioni sono significative e fondate, non sono "allontanamenti" da una qualche "verità" o da un "gusto più elevato". La bellezza è una proprietà instabile perché non è affatto una proprietà. È il nome di una particolare interazione tra due esseri, un "io" e un "Altro": "Io trovo bello l'Altro"» (...).
Come Wendy Steiner, anche Denis Donoghue in Speaking of Beauty si occupa del distacco dalla bellezza che anch'egli crede si sia verificato nel XIX secolo, anche se per lui la separazione, nel passaggio tra Otto e Novecento, è stata tra la bellezza da un lato e il vero e il bene dall'altro. Secondo Donoghue è stato soprattutto Kant ad aver «fissato l'estetica come valore indipendente», respingendo l'idea che «il bello» possa essere riconosciuto e valutato sulla scorta di principi razionali; «per idea estetica», Kant ha dichiarato, «intendo quella rappresentazione dell'immaginazione che determina in gran parte il pensiero, senza che però alcun pensiero preciso, o concetto, possa essere adeguato a essa, e per conseguenza nessuna lingua possa perfettamente esprimerla e renderla comprensibile» (...).
Il «momento liberatorio» che Kant ha offerto definendo la bellezza «la forma della finalità di un oggetto, in quanto viene percepita in esso senza alcuna rappresentazione di uno scopo», secondo Donoghue è stato anche un momento di crisi per l'arte occidentale, o almeno per l'estetica occidentale. Liberato da ragione e concetti e connotato dalla qualità del disinteresse, l'oggetto bello diventa autonomo, risponde solo a se stesso e alle proprie necessità. Goethe, che in parte si differenzia da Kant, definiva la bellezza «la manifestazione di leggi segrete della natura che, se non fossero rivelate dalla bellezza, rimarrebbero per sempre sconosciute» (...).
Se ci riflettiamo su un momento, vediamo che queste affermazioni rivoluzionarie, come tutte quelle che lo sono, hanno implicazioni problematiche. Se l'estetica è del tutto autonoma - se, contraddicendo Keats, la bellezza non è verità, la verità non è bellezza - dove, chiederebbe ad esempio Henry James, possiamo trovare il nostro fondamento morale, soprattutto in un'epoca post religiosa? Il bello non dovrà rispondere a niente e nessuno se non a se stesso? Chi fisserà le regole della ricerca artistica, e se non ci devono essere regole, come farà l'artista a sapere come procedere nel suo lavoro? Come sostiene il narratore proto-esistenzialista de L'immoralista di Gide, «questa libertà senza scopo per me è un peso».
Una bellezza autonoma è anche «liberata» per un uso in aree diverse da quelle dall'estetica. Il professor Donoghue nota che il bello ritorna in settori come la pubblicità e lo sport - il «bel gioco» - riproducendo i tentativi di vittoriani come Ruskin e William Morris di introdurre valori estetici nella vita di tutti i giorni. «La ragione più urgente che ci spinge a parlare di bellezza», dichiara Donoghue, «è la speranza di salvarla dall'abbraccio mercenario della televisione e della pubblicità».
Alla fine del capitolo su «Ruskin, Venezia, e il destino della bellezza», Donoghue individua una tendenza contemporanea a resistere al concetto dell'essenziale inutilità dell'arte. Lo sforzo kantiano di «liberare la bellezza da un controllo concettuale è stato fondamentale per lo sviluppo di un'avanguardia nel XIX secolo», scrive, ma «molti critici contemporanei a quanto pare non accettano l'indipendenza dell'arte e vogliono riportare la bellezza sotto l'egida dei concetti, soprattutto di concetti politici», perché ritengono che «il prezzo pagato per l'autonomia dell'arte e della bellezza sia stato troppo alto». Donoghue vede nel desiderio di ridare all'arte un ruolo morale e culturale (Elaine Scarry, nel suo Sulla bellezza e sull'essere giusti, afferma che apprezzare la bellezza ci renderà cittadini migliori) una regressione, e un tentativo inutile: «Mi sembra che si difenda assai male la bellezza isolandola e facendone poi uno strumento per promuovere altri valori» (...).
Uno dei motivi ricorrenti nel libro di Elaine Scarry è anche l'idea, mutuata da Keats, per cui bellezza e verità sono alleate, anche se, a differenza di Keats, Scarry non sostiene che siano identiche: «Non diremmo che una poesia, un quadro, una palma o una persona sono "veri", ma piuttosto che accendono in noi il desiderio di verità, facendoci provare - con un fulgore elettrico che quasi nessun altro evento percettivo non sollecitato e giunto liberamente a noi può dare - l'esperienza del giusto come anche quella dell'errore. Questa suscettibilità all'errore, alla contestazione e alla pluralità - per la quale la "bellezza" nel corso dei secoli è stata così spesso tenuta in secondo piano - è stata talvolta considerata una prova della sua falsità e distanza dalla "verità", quando al contrario è proprio la nostra aspirazione alla verità a discendere da essa. Crea, pur senza soddisfarla, l'aspirazione a una certezza duratura. Giunge a noi senza richiederci sforzi; poi ci lascia pronti a sottoporci a una gigantesca fatica».
In tono simile, ma con un accento leggermente diverso, Wendy Steiner scrive di ritenere la bellezza non come donné, come dono elargito gratuitamente dagli dèi, ma più come l'esito di un conflitto (...).
In conclusione, e in tutta modestia, vorrei aggiungere anch'io qualche considerazione al dibattito. Ci può essere bellezza senza arte, ma non può esserci arte senza bellezza, per quanto «aspra». La bellezza potrebbe non essere una proprietà delle cose, come afferma Wendy Steiner, ma è una qualità intrinseca, e sicuramente l'obiettivo primario, di tutta l'arte. Si potrebbe dire che l'effetto della bellezza, e quindi il compito dell'arte, sia far arrossire i suoi oggetti. Questa non è una verità assiomatica, anzi, per quanto ci si sforzi di sostenerla, non può essere propriamente definita una verità. Si tratta, piuttosto, di un'affermazione generale che molti liquideranno, nella migliore delle ipotesi come incredibilmente fuori moda e, nella peggiore, come priva di senso, ma è un'affermazione che Keats, per esempio, ed Edmund Burke, e forse perfino Kant, avrebbero approvato. Non pretendo, ovviamente, che sia l'unico compito dell'arte - se si può dire che l'arte abbia un compito - ma è, secondo me, il principale.
L'arte come mezzo o agente della bellezza non è il prodotto dell'ispirazione, ma della concentrazione. L'artista si concentra sull'oggetto - che sia un essere umano, reale o inventato, o una pietra in mezzo alla strada - con tanta passione e accanimento, che l'oggetto - reale o inventato che sia - prima più o meno inerte, è costretto improvvisamente ad assumere la consapevolezza di esistere, al punto da iniziare a sprigionare quella luce che indica l'avvento di uno stato di vera coscienza. Quando arrossiamo siamo allo stesso tempo intensamente vulnerabili e ardentemente, appassionatamente vivi.
Questo sommuovere e scoprire prodotto dall'arte è un processo di natura quasi sessuale. Abbiamo l'arte, dice Nietzsche, per non dover morire di verità. Penso che per una volta abbia torto: abbiamo il kitsch per non dover morire di verità, o, a un livello meno catastrofico, per poter sfuggire al confronto con la verità. Essere in comunione reale e diretta con un'opera d'arte - cosa che non accade molto spesso - incentiva in noi il senso della realtà, ci fa capire che cosa significa esistere su questa terra, in pienezza e consapevolezza e, come suggerisce Elaine Scarry, ci ricorda che siamo tutti responsabili non solo di noi stessi ma del mondo. La poesia non fa accadere nulla, afferma Auden - e per poesia possiamo intendere l'arte e il suo corollario, la bellezza - e di certo non ci aiuterà a vincere le guerre, o a impedirle - come potrà contro tale furore, chiede Shakespeare, offrire una difesa la bellezza? - ma provoca in noi un'acuta, anche terrificante, consapevolezza della realtà delle cose, inclusi noi stessi...

da: Corriere della Sera, 20 agosto 2010, p. 34

sabato 21 agosto 2010

L'aeroporto di Hitler diventa un parco giochi

Tempelhof «occupato» dai berlinesi
di Gabriela Jacomella
A vederlo dall'alto, anche solo in un volo virtuale su Google Maps, fa quasi impressione. Una sconfinata prateria nel cuore di Berlino, chiusa da un emiciclo grigio d'asfalto e, piccolissimi da quassù, gli hangar che nel '48 aprirono i cancelli a centinaia di Rosinenbomber, i C-47 americani - i «bombardieri dell'uva passa» - che diedero il via al più grande ponte aereo della storia. Uno spazio che, tra piste e prati circostanti, è più vasto di Tiergarten, «polmone verde» della capitale tedesca: 220 ettari contro 300.
Da tre mesi a questa parte Tempelhof, la «madre di tutti gli aeroporti» (così lo battezzò il papà della cupola del Reichstag, Sir Norman Foster), si è trasformato nel più grande parco giochi del mondo. Complice il sole che, a sprazzi, è tornato a splendere sulle rive della Sprea, il suo orizzonte è punteggiato dalle vele colorate dei windskaters - una sintesi tra rollerblades e windsurf - e dalle nuvole di fumo dei barbecue a base di wurstel. E ancora: jogging, sfide di calcetto, picnic sull'erba con vista torre di controllo.
È dal 30 ottobre 2008 - dopo anni di polemiche e proteste - che nessun velivolo decolla o atterra a Tempelhof. Nello stesso anno, il Senato berlinese decise di destinare 220 di quei 300 ettari alla realizzazione di un parco. Gli edifici disegnati dal nazista Ernst Sagebiel avrebbero dovuto ospitare un centro internazionale dell'«economia creativa». Infine, tre quartieri nuovi di zecca, 5 mila appartamenti e 10 mila posti di lavoro. Un piano subito arenatosi nelle pieghe della burocrazia, zavorrato dalla cappa della crisi.
Così, a maggio, il sindaco Klaus Wowereit dev'essersi stufato di quel soprannome - la «tomba milionaria» - appioppato a uno dei suoi progetti più ambiziosi. E ha spalancato ai berlinesi le porte del loro vecchio aeroporto. La risposta è stata sorprendente: «In soli tre mesi - scrive il Tagesspiegel - una maggioranza amante delle grigliate, della corsa, dei giri in bici o semplicemente bisognosa di calma e spazi aperti, lo ha conquistato in modo semplice, quasi ovvio». La parola d'ordine dell'estate 2010, a Berlino, è Tempelhof.
Il punto è che Tempelhof non è un parco. E chissà se mai lo diventerà. Le sue strutture hanno di recente ospitato l'esposizione di «moda urbana» Bread&Butter, tra made in Germany e firme internazionali; a settembre ci saranno i palchi della Berlin Music Week, e il futuro prevede la realizzazione dei padiglioni per l'IGA 2017, l'esposizione internazionale di giardinaggio (in tutti i casi l'affitto servirà a ripagare, in parte, i costi esorbitanti di mantenimento). E in mezzo? Un po'di tutto, dal tempio per i monaci shaolin al minigolf «d'artista», 18 buche che «interagiscono» con i giocatori.
No, non è un sogno di una notte di mezza estate: fa tutto parte del «pacchetto» per i tre «campi pionieri» proposti dai manager del Parco scientifico e tecnologico Adlershof, incaricati dal Senato di escogitare un utilizzo temporaneo per l'area. Tre i temi: «sport e cultura» (inclusa la religione, da cui i monaci), «i vicinati di Neukölln» (con scuole di giardinaggio e skate per i bimbi della zona), «il sapere produce cultura» (dal centro studi sulla mobilità urbana ai go-kart elettrici). Questa settimana una giuria sceglierà tra i 100 e più progetti pervenuti. I vincitori avranno vita breve: tra il 2013 e il 2016, tutto o quasi finirà, e via ai lavori per i padiglioni. E i berlinesi, che faranno? «E'importante - dichiarava ieri alla Berliner Morgenpost Sven Lemis, direttore della Bim, la società che gestisce gli immobili del Comune - che il terreno resti accessibile al pubblico». Anche perché il pubblico ci ha preso gusto. E potrebbe decidere di non volersene andare.

da: Corriere della Sera, 18 agosto 2010, p. 19

Berlino, aeroporto di Tempelhof

Lo spazio delle piste di atterraggio dell'aeroporto

mercoledì 18 agosto 2010

Come ti riciclo il palazzo

di Leonardo Servadio

«Per millenni si sono riciclati edifici e intere città – sostiene il critico dell’architettura Nikos Salìngaros –, ma perché questo avvenga occorre che i materiali e le tecniche di costruzione siano durevoli, com’erano nella tradizione. Invece dagli anni ’20 del ’900 l’uso di materiali industriali, dal cemento armato al vetro, ha portato a realizzazioni di qualità così scarsa che si può pensare solo alla loro rottamazione». Sono due logiche a confronto: riciclaggio o consumismo.
Da tempo il mondo si è accorto che consuma materie prime a una velocità eccessivamente elevata. Nei Paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) i rifiuti urbani dal 1980 sono cresciuti del 40% in termini assoluti e del 22% su base individuale, mentre entro il 2020 ci si attende una ulteriore crescita del 40% circa rispetto al 2000. Questo perché la logica del riciclaggio, che è quella che presiede alla vita della biosfera, non è ancora entrata nella cultura industriale: ma ci si aspetta che prima o poi diventi dominante anche nell’universo umano. Non è semplicemente questione di utilizzare meglio le risorse e di ridurre gli sprechi, bensì di far evolvere l’atteggiamento di fondo: il riciclaggio trasforma il materiale di scarto in risorsa primaria. In altri termini consente di generare nuovi prodotti senza estrarre materia prima dal suolo.
E il discorso non si limita ai prodotti di serie, ma si estende anche a quella realizzazione principe dell’attività umana che è la città e ai suoi elementi costitutivi, gli edifici. Com’è noto infatti, l’espansione del territorio urbano è il primo fattore di consumo dei suoli. Riguardo agli edifici è raro sentire parlare di riciclaggio, il termine ricorrente è «ristrutturazione» che evidenzia la loro particolarità: lavori più o meno imponenti possono variare gli spazi e le dimensioni di singole opere o di interi brani di città, con costi equivalenti o superiori a quelli di una costruzione nuova.
Sono lavori che si compiono con sempre maggiore frequenza nelle aree un tempo occupate dalle fabbriche, che all’origine erano in zone periferiche e oggi spesso sono diventate semicentriche a seguito dell’estensione urbana che ha invaso le campagne, in molti casi comportando la scomparsa di queste. Attivare la logica del riciclaggio comporterebbe di mantenere in via sostanziale gli edifici esistenti e di garantire anche il mantenimento della campagna rimasta.
Si può fare? «Non sempre – dice Salìngaros – il noto palazzone romano del Corviale, preclaro esempio di modernismo va abbattuto. Uno studio preliminare ha dimostrato che è corrotto dall’umidità e sarebbe eccessivamente costoso recuperarlo». È il tipico problema del cemento armato: se l’umidità raggiunge i ferri questi arrugginiscono, col tempo perdono spessore e forza, e a lungo andare la stabilità strutturale può ridursi pericolosamente.
Il passaggio, da edifici pensati per durare secoli a edifici effimeri, andrebbe quindi superato, per poter rientrare nella logica del riciclaggio. «Ma oggi c’è ancora una tendenza dominante a costruire per la breve durata. Negli Stati Uniti la grande bolla speculativa che ha fatto esplodere la crisi attuale si è fondata proprio su questo: vendere case all’apparenza tradizionali (perché queste piacciono alla gente) ma di qualità talmente scarsa che dopo pochi anni hanno bisogno di radicali e troppo costose ristrutturazioni».
Quindi tutto il contemporaneo è prima o poi da buttare? «Con altri autori, quali Leon Krier, sono stato recentemente invitato a elaborare proposte per Rotterdam. La città è stata totalmente ricostruita nel dopo guerra con criteri modernisti, talché c’è un’uniformità che oggi è venuta a noia. La mia idea è di mantenere selettivamente solo alcune torri più recenti, che danno garanzie di durata, ma di sostituire gli edifici anni ’60 che sono al termine della vita strutturale e ripensare alla geometria globale della città. Si possono erigere nuovi edifici più bassi che quindi consentono una migliore qualità di vita, riutilizzando gli spazi aperti oggi inutilizzati. Una piazza non ha bisogno di essere enorme: basta che sia accogliente e adatta agli incontri. Propongo che si recuperi il linguaggio delle forme, ricorrendo a elementi della tradizione olandese e fiamminga, molto presente in questo Paese, per realizzare quartieri nuovi che si caratterizzino per una certa coerenza segnica, così che chi li visita sappia già dallo stile degli edifici dove si trova».
Forse non era esplicito nei costruttori antichi che le loro opere dovessero durare secoli, né in quelle postbelliche che potessero arrivare presto all’obsolescenza. Di fronte all’obiettivo oggi improcrastinabile di riciclare le aree urbane ex industriali (in città come Torino e Milano le opere in corso sono ingenti e cambiano radicalmente il panorama), il problema di costruire edifici che possano essere riciclati, cioè che abbiano un futuro, diventa primario.
Nel frattempo si moltiplicano gli esempi di edifici industriali che erano stati abbandonati e oggi sono variamente riciclati: per esempio a Madrid la vecchia stazione ferroviaria di Atocha è diventata un enorme atrio dotato di un’immensa serra per la nuova stazione dell’alta velocità (progetto Moneo) o a Londra la galleria d’arte Tate Modern ha trovato spazio nei vecchi magazzini del porto (progetto Herzog e De Meuron); anche ad Amburgo il museo di arte contemporanea è stato ubicato nella vecchia stazione ferroviaria, e lo stesso è avvenuto a Berlino (progetto Kleihues); a Roma le scuderie di Villa Aldobrandini (sec. XVII) sono state trasformate in museo archeologico (da Doriana e Massimiliano Fuksas). E il riciclaggio entra a pieno titolo nel dibattito dell’architettura contemporanea.

da: Avvenire, 18 agosto 2010, p. 27