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domenica 24 aprile 2011

Quel solitario che dipingeva capolavori
Al Quirinale la monografica di Lorenzo Lotto

di Goffredo Silvestri

Nei dipinti piccoli, grandi, grandissimi di Lorenzo Lotto riuniti nella monografica alle Scuderie del Quirinale (dal 2 marzo al 12 giugno), si trovano scene che nessun altro pittore del Cinquecento e non solo ha inventato. Il gatto dagli occhi spiritati che se ne va soffiando e con la coda ritta, in allarme per la discesa dell'arcangelo nella camera da letto di Maria, venuto a turbare quella vita tranquilla. Il volto più che interrogativo, spaurito, di Maria che ha appena ricevuto l'annuncio che diventerà madre di Gesù. Il Bambino Gesù sulle fasce, appena nato, che accarezza il muso di una pecorina offerta dai pastori. I piedi umani che spuntano da sotto la mensa del tempio nella presentazione di Gesù, a riprova di una inventiva di difficile interpretazione e di un "particolarissimo senso dell'umorismo" che non lo abbandonò mai. Lo scoiattolino, che significa "preveggenza della catastrofe", che impaurisce il Bambino Gesù. Maria in trono con lo scialle "alla contadina", della "Pala di San Bernardino" nella omonima chiesa in Pignolo, a Bergamo. Cristo che si accomiata da Maria per andare ad affrontare il processo di cui conosce già la sentenza. Maria che assiste alla deposizione del corpo di Cristo nel sarcofago. La pala del Rosario che anticipa i cartelloni dei "cantastorie" con i 15 cerchi che narrano i misteri gaudiosi, dolorosi, gloriosi.
Nessuna altra Vergine Maria ha avuto vesti, maniche, manti così sontuosi e dai colori così luminosi, squillanti, rossi o azzurri sovrani, a volte freddi, con accostamenti-contrasti audaci. Di una seta o broccato da stropicciare. Ma anche nessun uomo o nessuna donna, un po' più che comuni mortali, in ogni caso non papi o cardinali o principi, ha avuto ritratti con una resa dell'aspetto fisico che è svelamento, specchio intimo degli stati d'animo. Che più moderni non potrebbero. Senza sconti su papagorgie e difetti. E se il paesaggio fosse stato ai suoi tempi un genere di pittura autonomo, Lorenzo sarebbe stato anche qui un grandissimo specialista come dimostrano il paesaggio che contorna l'apparizione della Vergine della pala del duomo di Asolo (1506), il paesaggio marino del "Polittico di Ponteranica" (1522) e il paesaggio di terra e mare che forma la base della pala di San Nicola della chiesa veneziana dei Carmini (1527-1529). Tutte e tre in mostra.
Alle Scuderie, nella mostra "Lorenzo Lotto", curatore Giovanni Carlo Federico Villa dell'Università di Bergamo, c'è tutta la pittura e la carriera di Lorenzo (1480 circa-1556 circa). Pale e polittici monumentali, quadri di dimensioni ridotte per devozione privata, ritratti, fino a quello che viene considerato l'ultimo dipinto autografo di Lorenzo, non finito per l'aggravarsi delle malattie o addirittura per la morte, "La presentazione di Cristo al tempio". Sono 58 opere, un numero felicemente contenuto che consente il migliore godimento.
Al piano terra sono i grandi e grandissimi dipinti (22) in uno spazio profondamente modificato con pannelli "color rosa cipria" che hanno creato quinte dinamiche in obliquo. Magnifico il colpo d' occhio. A destra il "Polittico di Ponteranica" del 1522, restaurato, con le sei tavole separate e l'arcangelo Gabriele, "la più squisita immagine di angelo" di Lotto, con il pigmento di lacca di robbia mescolata a vetro macinato, e la "leggerezza e candore" del panneggio del Cristo risorto.
A sinistra una delle "Nozze mistiche" con il rosso caldo della veste di Maria e l'arancione delle esuberanti maniche. "Probabilmente la più celebre impresa" di Lotto a Bergamo in cui visse dal 1514 al 1525. Con Lotto arrivano, sconosciuti, i "colori vivissimi, trasparenti, di bianco e rosso, arancio e verde, blu e viola, in una gamma accentuata da forti contrasti luminosi". Questo "capolavoro impagabile" ai nostri occhi moderni, testimonia la non brillante situazione economica di Lorenzo che dovette fornire il dipinto (189 per 134 cm) per saldare il debito di un anno di affitto al padrone di casa che è quella presenza disturbante sulla sinistra.
In secondo piano, appare "San Cristoforo", un vero gigante, dalla Santa Casa di Loreto, restaurato dai Musei Vaticani. Di fronte la famosissima "Elemosina di Sant'Antonino" del 1542, dalla basilica dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia. A chiudere, la pala della "Madonna del Rosario" del 1539, dalla chiesa di San Domenico di Cingoli, con i tondi dei misteri sopra la Madonna col Bambino in trono fra sei santi e san Giovannino e due angioletti che spargono petali di rosa nell'aria.
Sui pannelli le pale sono state collocate quasi all'altezza naturale alle quali le aveva concepite Lotto per essere ammirate dai fedeli, con un avancorpo che dà forma e spazio come ad un altare. Al primo piano sono 36 fra ritratti, pittura di devozione privata e pittura profana.
Costo della mostra secondo i dati di Mario De Simoni, direttore generale dell'Azienda speciale Palaexpo di cui fanno parte le Scuderie, due milioni e centomila euro di cui 170 mila per "promozione". Le prenotazioni hanno superato le 25 mila. Il catalogo (Silvana Editoriale) presenta i dipinti in mostra e molte delle altre opere di Lotto diventando strumento fondamentale.
Lorenzo Lotto, il più irrequieto e mobile maestro del Quattrocento-Cinquecento (vai agli itinerari). Veneziano, lavora a Venezia, a Treviso, Bergamo; a Roma nel 1509, ma per meno di un anno mentre giganteggia Raffaello; soprattutto nelle Marche, a Recanati, Jesi, Ancona e Loreto dove trova il rifugio finale come oblato della Santa Casa. "Metabolizza" Giovanni Bellini, Giorgione, Cima e Antonello e aggiunge le proprie inquietudini che lo fanno così vicino alla mentalità moderna. Un rovello che nella pittura lo spinge a cercare pace nella bellezza, nella sontuosità degli abiti, nei colori per i quali sperimenta impasti nuovi, nella luce, nella "pensosa interiorità" altrui portata in superficie anche quando fa i ritratti dei santi. In certi ghiribizzi di umorismo come i piedi umani della mensa del tempio di Gerusalemme.
Un artista che non si nasconde. Lo dimostra il gran numero di firme e date in bella evidenza sui dipinti. Ben conscio del proprio valore al punto da pagare intagliatori e doratori, per controllarli e ottenere le opere come voleva. O quando aggiunge di iniziativa nelle tarsie del coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo un episodio delle figlie di Lot per far ricordare il suo nome. Come dimostra il "Libro delle spese varie" in cui dal novembre 1538 fino all'ultimo, 1556, registra commissioni, materiali usati, quadri fatti e venduti, soldi avuti e da avere.
Tormentato, ma onesto con se stesso: gli è chiaro di saper lavorare, ma da solo e di doversi tenere alla larga dai cantieri con maestri dominanti (Tiziano, Raffaello) o committenti dominanti anche a costo di dover abbandonare i mercati artistici importanti. Ma il "Polittico di San Domenico" a Recanati gli fu pagato dai frati 700 fiorini d'oro, una cifra principesca, più vitto e alloggio in convento a lui e ad un aiuto. E dove si trova bene secondo le sue condizioni, Lorenzo rimane fedele, quasi abbarbicato come un naufrago alla tavola. Il rapporto con i domenicani, durò tutta la vita.
I visitatori sono accolti in mostra proprio dal "Polittico di San Domenico". Più che accolti sono ai piedi del polittico che è alto quattro metri e mezzo (3,50 di base) su tre ordini di scene. Quella centrale della Madonna col Bambino è in una profonda prospettiva, unitaria con i pannelli laterali e altri santi, separati dalle colonnine dorate di una cornice in stile rinascimentale.
Villa lo definisce impresa "vasta e complessa", "stupefacente" per i particolari "dettagliatissimi, le minuzie che Lotto dipinge con assoluta precisione". Nella breve biografia dedicata a Lorenzo, Vasari si concentra sulla triplice predella (perduta) con "figure piccole e cosa rara", in particolare quella centrale con san Domenico che predica, "con le più graziose figurine del mondo".
Ai lati del polittico sono le due pale restaurate di Quinto di Treviso, del 1504-1505 "remota chiesetta" parrocchiale di Santa Cristina al Tiverone, e dell'apparizione della Vergine del duomo di Asolo. La pala di Santa Cristina è la "prima opera pubblica" di Lorenzo fra i 20 e i 25 anni. Villa osserva che il "trascoloramento di luce e colori" sulla corazza nera di San Liberale, patrono di Vicenza, curata nei minimi particolari, è "un tour de force virtuosistico" che fa ricordare l'apprezzamento del collega e scrittore Lomazzo nel 1590: Lotto, un "maestro nel dare il lume".
Sulla mano del Bambino, in piedi su di un ginocchio di Maria, è un uccellino. Segno di quella Passione compiuta nella "strabiliante" lunetta col corpo del Cristo che due angeli piangenti e dalle ali variopinte hanno appoggiato sul bordo del sepolcro. Con le ferite ben in vista, il Cristo sta per scivolare nelle nostre braccia. Per farsi pagare il pattuito dai "massari della chiesetta, Lorenzo dovette far pignorare due volte "un caro de vin".
La tavolozza in rosso e arancione delle "Nozze mistiche" di Bergamo, si confronta con la tavolozza in azzurro cinerino del manto della Madonna col Bambino insieme a Caterina d'Alessandria e Tommaso (da Vienna, Kunsthistorisches Museum). Le tavolette o fogli ripiegati legati a un nastro di stoffa che pende dal collo di Maria, hanno caratteri "non riconducibili ad alcun genere di scrittura" e questo fa pensare che Lotto abbia voluto nascondere dei significati o divertirsi.
Al primo piano sono ritratti e dipinti di storia sacra che non superino in altezza il metro e 90 delle sale. Lotto grandissimo ritrattista, ha dipinto "pochissimi ritratti femminili" e il "Ritratto di donna a mezzo busto" del 1501-1502 è probabilmente il "primissimo" dei sette noti. La tavolettina del Museo di Belle arti di Digione può aver avuto come sovraccoperta l'"Allegoria della castità detta 'Sogno di fanciulla'" della National Gallery di Washington, che è accanto. La "Donna a mezzo busto" viene considerata un "deciso passo in avanti" rispetto a dipinti "di impronta ancora marcatamente belliniana". Il corpo massiccio, il volto squadrato, senza nastri o gioielli, "questa matrona di scarsa beltà" prende fascino "dall'accostamento cromatico del vestito nero, gli ocra dello scialle velato" e gli sbuffi argentei, "la tenda verde cupo dello sfondo".
Il bel volto solare, ma troppo pieno, il doppio mento, l'imperioso naso, le "mani grassottelle" di Lucina Brembati confermano la scelta di Lorenzo a non idealizzare il modello, ma a rendere la personalità con "grande maestria". Lucina è tutta piena di nastri fin dal cappello a larghe tese, di collane di perle fin nei capelli, anelli e anellini. Dal collo scende una catenina d'oro con un gustoso "gioiello-stuzzicadenti" molto alla moda e molto prezioso. L'abito sfarzoso è completato dallo zibellino che "digrigna" i piccoli denti in primissimo piano. Insomma una gran dama.
Il volto luminoso dagli occhi cerulei di Lucina contrasta con la scena notturna illuminata da una falce di luna segnata dalla sigla "CI" che rivelano il nome: "CI dentro Luna" cioè "Lu-ci-na". Un anello con lo stemma nobiliare identificò il cognome Brambati. Questo ritratto del 1523 (dall'Accademia Carrara di Bergamo), potrebbe essere uno dei primissimi ritratti notturni in assoluto.
A 25 anni, a Treviso, Lorenzo era chiamato "Pictor celeberrimus", artista di corte del vescovo Bernardo dè Rossi raffigurato a mezzo busto, di tre quarti, nella mozzetta rosa con gli occhi cerulei puntati all'osservatore. Il "naturalismo espressivo", la "descrizione minuta del volto" che non nasconde le verruche,"nulla toglie al piglio fiero ed autorevole" del vescovo. Anche per lui c'è una sovraccoperta con l'"Allegoria del vizio e della virtù".
Un ritratto a parte, presentato come in uno scrigno, è la tavolettina (29 per 23 cm) di "Giuditta con la testa di Oloferne" della banca Bnl. "Eccezionali" vengono considerati i panneggi dell'abito azzurro-verde-bianco di Giuditta con "pochi colori smaltati". Non felicissime le bocche dell'eroina e quella, sorpresissima della serva che sembra chieda a Giuditta: "Ma cosa hai fatto?"
I ritratti in mostra sono i più famosi di Lorenzo e fra i più famosi della storia dell'arte. Andrea Odoni che il collezionista veneziano di antichità si teneva in camera da letto, nel "sontuoso" palazzo con l'intera facciata affrescata. Vasari lo definì "molto bello". Particolare che lo rende ancora più prezioso è l'appartenenza alle collezioni della regina Elisabetta. Il "Triplice ritratto di orefice" (da Vienna, Kunsthistorisches Museum), rivelato dalla scatolina con anelli, con quella mano sul cuore che sembra sottolineare un "rapporto amichevole, anzi affettuoso" fra Lotto e il modello. L'affinato, pallido, malinconico (ma non per pene d'amore) "Giovane gentiluomo" dalle maniche luminose. Probabilmente Cristoforo Rovero di Treviso, abbattuto dalle perdite del padre e della madre alla quale si riferiscono i petali di rosa, la lucertola e lo scialle, l'anellino e la collana. Il librone che sta sfogliando è il "libro di famiglia" (e non dei conti) come rivela la scrittura a pagina intera. "Ritratto di gentiluomo" dalla Borghese: barbuto, sagoma massiccia, tutto vestito di nero, berretto compreso. La mano destra è appoggiata su di un tavolo, su petali di rose e fiori di gelsomino con un teschio d'avorio in miniatura, un "memento mori". Forse si tratta di Mercurio Bua, condottiero dalmata, "coraggioso e rispettato", che servì la Serenissima. La stessa visione potente del personaggio è nel "Ritratto di architetto" (dal Museo di Berlino), per la prima volta presentato in Italia. Probabilmente è il grande Jacopo Sansovino, amico sincero di Lorenzo al quale fece prestiti di denaro.
Saltiamo al semplice personaggio non identificato, dai capelli arruffati, che si presenta col cappello (di feltro) in mano. Il "naturalismo di Lotto sta toccando il massimo di compenetrazione nello spirito delle persone che raffigura" (Galleria nazionale di Ottawa). Altro personaggio non identificato è il gentiluomo sulla terrazza, del Museo di arte di Cleveland, ancora una "prima" per l'Italia. Lo sfondo è collinare. Il gentiluomo, con abbigliamento di classe, ha lo sguardo rivolto a sinistra verso la quale sembra che col braccio disteso saluti qualcuno che si allontana. La destra è su di un tavolo con una lettera aperta e un rametto di gelsomino fiorito che significa "amore senza conforto" (la persona che si allontana ?) o la stagione della fioritura. L'"intensità espressiva" dei tardi ritratti di Lotto, "essenziali e fortemente psicologici", si ritrova nei coniugi Febo da Brescia ("una melanconia introspettiva") e Laura da Pola con un ventaglio di piume dall'impugnatura d'oro lavorata, assicurato da una catena d'oro alla cintura.
Ancora una "prima" per l'Italia. Il "Ritratto del chirurgo Giovanni Giacomo Bonamigo", da Philadelphia, Museum of Art. Il chirurgo stringe al fianco il paffuto figlioletto per niente contento di avere sotto il naso i "ferri" del padre. Lotto qui si concentra sul personaggio, senza contesto.
Fra i ritratti spunta il più curioso e il più indecifrabile dei dipinti in mostra, il "Putto che incorona un teschio" su di un cuscino con un rametto di olivo. Dalla collezione del duca di Northumberland. Per le dimensioni e il tema potrebbe essere stato la "coperta" allegorica di un dipinto, ma sul significato la critica è in pieno pallone. Una prova della "complessità dell'arte" di Lotto che "si sottrae ostinatamente ad ogni pretesa definitoria". Nell'"estrema sinteticità" della composizione si ammira il "mirabile controluce di braccia, spalle, gambe del putto, i "riverberi azzurrini" del cuscino e del teschio, la cornice della finestra, sottilissima feritoia di luce nel nero del fondo.
Formidabile per incroci di mani, braccia, pugni, del braccio lungo della Croce messo in obliquo, l'inserimento di un braccio rosso acceso è la teletta quadrangolare del "Cristo portacroce" del 1526 (dal Louvre). Il volto fisicamente sofferente di Cristo con la corona di spine e sotto il peso della croce, occupa la parte centrale della scena. Le mani pallide appoggiate alla croce, con un lembo di manto azzurro per renderla meno tagliente. Un aguzzino digrignante, dal volto sfigurato dalla fine del dipinto, gli strattona la lunga chioma. Un altro, lo minaccia col pugno e gli urla nelle orecchie.
Audace incrocio visuale fra l'unico nudo in mostra, "La Castità mette in fuga Cupido e Venere" (dalla Galleria Pallavicini), e una delle Annunciazioni più celebri dell'arte italiana, quella del Museo civico di Recanati, col gattino. Un "colpo di genio" è la preoccupazione femminile di Venere "squisitamente modellata" come una statua classica, di mettere in salvo lo "stuzo da peteni", l'astuccio per pettini, come lo chiama Lorenzo, in realtà una "toletta" portatile completa.
L'"Annunciazione" è forse l'opera di Lotto in cui quotidiano ed evento miracoloso "raggiungono il più alto vertice di naturalezza e di fusione". Ri-prova di Lotto che trasforma un "tema così conosciuto e partecipato in una sintesi felice di nuove istanze spirituali e stilistiche".
L'ultimo ritratto è quello di "mastro Batista balestrier" (1552), della Pinacoteca Capitolina, restaurato da Nicola Salini. Non è un soldato né un amante della caccia, ma un falegname e Lotto dipinge il ritratto in cambio di una serie di lavori. Un segno delle cattive condizioni economiche di Lorenzo che fa il paio con la sfortunata asta (sette opere vendute) del 1550 ad Ancona.
La mostra si chiude con la "Presentazione al tempio", della Santa Casa di Loreto, restaurata dai Musei Vaticani. Dopo la Crocifissione è il passaggio più drammatico nella vicenda di Maria che dal vecchio Simeone apprende che Cristo "è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele" e anche a lei "una spada trafiggerà l'anima". Il grande quadro, del 1554-1556, è non finito. Il Vasari riferisce che negli ultimi anni Lorenzo aveva perso del tutto l'uso della parola. "Lo stile di Lotto non ha più la meticolosa precisione e la vivacità cromatica" di trent'anni prima. La gamma dei colori è "austeramente limitata". Ma la critica (Zampetti, Villa) lo considera forse il "grido più alto" di un pittore "moderno". "Qualcosa che ci porta difilato nel Novecento".

da: La Repubblica (on-line), 5 marzo 2011

domenica 10 aprile 2011

«Ho rimontato il film della mia vita»

Paladino: «La mostra è una storia, nata mischiando le opere dal ' 77 a oggi»

di Francesca Bonazzoli

«Ho messo in scena cinquanta opere come se avessi avuto degli attori da far dialogare fra loro. I lavori vanno dal 1977 al 2010, ma li ho mescolati cronologicamente e rimontati in una storia, come si fa con un film». Così Mimmo Paladino racconta la sua mostra che inaugura questa sera a Palazzo Reale. Otto sale che si spalancano agli occhi del visitatore come altrettante scenografie, ognuna delle quali ci porta in un mondo diverso. Le stanze che accolgono le opere sono bianche, senza i pesanti allestimenti protagonisti nelle altre mostre, senza pareti divisorie e con le grandi vetrate che illuminano i gialli, i rossi, i blu, l'oro e i neri di dipinti e sculture. Lo spettacolo è magnifico.
Classe 1948, beneventano di Paduli, Mimmo Paladino si gode l'effetto della messa in scena della sua vita artistica con lo stesso spirito del regista del Don Chisciotte (il film verrà proiettato allo Spazio Oberdan) e del creatore di scenografie per il San Carlo di Napoli. A Milano ha trascorso venti di quegli anni: arrivato nel 1977, si è installato a Brera dove ha ancora uno studio, e ora eccolo alla conquista del Palazzo Reale. L'incipit del percorso è un benvenuto di sapore napoletano: una simil teca di san Gennaro contenente una delle celebri teste «arcaiche» di Paladino in argento come un reliquiario. Attorno, sulla parete, tante forme di legno da ciabattino trasportate in aria da uccellini: «Di solito i piedi stanno per terra, qui invece volano via», commenta ironico l'artista che sfugge alle richieste di interpretazione dei suoi lavori. «Non amo l'idea del simbolo: la croce, per esempio, è semplicemente un segno primario; allo stesso modo i numeri o la scrittura, sono segni e basta. Certo ognuno può vederci i riferimenti che vuole, ma il mistero è tale se non lo si sa decifrare».
Troppo facile anche vedere una citazione dei corpi carbonizzati di Pompei nei Dormienti di terracotta disposti nel pavimento della penultima sala (presentati a Londra per la prima volta con la musica di Brian Eno) in una penombra resa magica dalle sonorità di David Monacchi e da un affresco rosso alla parete di ventiquattro metri che ricorda un pentagramma. «Non ho mai pensato a Pompei», confessa l'artista. «Avevo invece in mente i disegni di Henry Moore dei rifugiati nei ricoveri di Londra durante i bombardamenti».
Spazza via anche la consueta retorica sulla derivazione greco-romana o sannita delle sue figure arcaicizzanti. Persino il suo blu intenso non è un riferimento al Mediterraneo, ma al blu di Yves Klein. «Il pittore si ciba dell'arte degli altri pittori. Quando venni a Milano vidi Klein, Burri, Fontana e alla Biennale di Venezia del 1964 gli americani come Jasper Johns. Furono loro che mi colpirono».
La stanza forse più emozionante di questo percorso mozzafiato è la più piccola e intima: una lampadina che pende dal soffitto, una sedia in un angolo e sulle pareti i disegni di Paladino intorno a una piccola tela intitolata Mi ritiro a dipingere un quadro. Era il 1977, in pieno clima concettuale estremo e azzerante.
Paladino ebbe un'intuizione: scese a comprare tela e pennelli e dipinse quel quadro. È da lì che inizia l'avventura messa in scena in questa mostra.

da: Corriere della Sera, 6 aprile 2011, p. 17