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giovedì 25 marzo 2010

Si (ri)parte

Da oggi il blog diventa pubblico. Mi auguro che la rassegna stampa che ora lo occupa quasi per intero e tutte le idee che via via lo andranno ad arricchire possano essere di qualche interesse per studenti, insegnanti o semplici curiosi. Terrò d'occhio gli accessi con Google Analytics ma non inserirò banner pubblicitari dal momento che questo blog ha solo una finalità didattica. Mi riservo di cancellare qualsiasi commento che riterrò inopportuno.

domenica 21 marzo 2010

Stefano Fiorentino. Un enigma giottesco

Lodato dal Ghiberti e dal Vasari. Ma la sua «Glorificazione» nell'edificio monastico milanese è l'unica traccia rimasta della sua arte

di Arturo Carlo Quintavalle

Stefano Fiorentino, ecco un enigma per la storia dell'arte fin quasi a tempi recenti. Un enigma che il restauro importante dei dipinti del tiburio di Chiaravalle contribuisce a svelare. Cerchiamo di capire: le fonti pongono Stefano fra i seguaci di Giotto esaltandone l'opera. Lorenzo Ghiberti lo definisce «egregissimo dottore» dove dottore starà per colto, preparato, consapevole delle artes; Filippo Villani lo cita come «lo scimia» perché «dalla natura espresse qualunque cosa vuolse»; Giorgio Vasari inizia così la sua Vita: «Fu in modo eccellente Stefano, pittore fiorentino e discepolo di Giotto, che non pure superò tutti gli altri che innanzi a lui si erano affaticati nell'arte, ma avanzò di tanto il suo maestro stesso, che fu, e meritatamente, tenuto il miglior di quanti pittori erano stati infino a quel tempo». Ma allora davanti a queste lodi, a questa considerazione che lo pone alla pari dei maggiori artisti, dove stanno le opere? È caduta ormai l'attribuzione del Longhi delle storie di San Stanislao nella Basilica inferiore di Assisi, oggi assegnate a Puccio di Simone; allora come procedere? Vasari ricorda una «Nostra Donna» nel Camposanto di Pisa e loda qui le «nuove pieghe» degli abiti, per lui mai fino ad allora dipinte, e la prospettiva dell'edificio e parla di «proporzione nelle colonne, nelle porte, nelle finestre e nelle cornici». L'affresco con la Assunta al Camposanto di Pisa è stato distrutto dalla guerra, ne restano solo fotografie: la Madonna è in trono, un trono gotico, entro una mandorla retta da angeli volanti e con sopra il Redentore. Le forme sono quelle dei pittori che muovono dal Giotto degli anni della Cappella della Maddalena di Assisi (1314), oppure dalla cappella Peruzzi in Santa Croce che credo sia attorno al 1310: una costruzione spaziale consapevole, una stesura pittorica più morbida, una complessità di riferimenti che si allarga anche a Simone Martini, quello della cappella ad Assisi (1317), come nota Mina Gregori nel bel saggio introduttivo al volume che celebra il restauro («Un poema cistercense. Affreschi giotteschi a Chiaravalle Milanese», Electa). Torniamo alla immagine della Assunta di Pisa perché questo è il confronto chiave per la attribuzione degli affreschi della Certosa che vivono di un dialogo preciso con la ricerca giottesca, un Giotto che Stefano ha conosciuto ben prima che l'artista si recasse, come si suppone, a Milano attorno al 1336, poco prima della morte nel 1337. L'insieme delle pitture che si attribuiscono a Stefano stanno a Chiaravalle sotto i dipinti di un frescante lombardo che si è formato sul primo Giotto, quello da Assisi alla Cappella degli Scrovegni a Padova, finita nel 1305. Volumi netti, contorni segnati, pennellate dense, forme come bloccate. Stefano sotto i dipinti trecenteschi lombardi, sulla parete est del tiburio, propone una grandiosa Glorificazione della Vergine in mandorla sul trono con a fianco il Cristo, attorno angeli e in basso altre figure. La prospettiva è complessa, come si vede nel sarcofago aperto sotto la mandorla e nelle schiere in alto e sotto; la stesura è morbida, velature leggere, a volte anche ritocchi a secco, il tutto di grande sensibilità espressiva. Le pitture sono state condotte sia su intonaco fresco che su intonaco asciutto, queste ultime sono molto più delicate; in alcuni casi, cadute le superfici riprese a secco, appare un disegno a pennello rossiccio sull'intonaco che ci fa capire la ricca sensibilità del pittore, come nota Sandrina Bandera. Se si osservano queste immagini, ad esempio la serie degli angeli sull'arco a lato della mandorla, si coglie bene il dialogo con il Maestro delle Vele ad Assisi mentre la morbida stesura fa pensare a Simone Martini. Stefano opera in parallelo con Maso di Banco a Santa Croce (c. 1335), solo che Maso scandisce le architetture e le figure per via di netti volumi; un altro artefice contemporaneo è Puccio Capanna che, nella Basilica inferiore di Assisi (c. 1335), arrotonda le forme, le rende morbide col chiaroscuro. Stefano a Chiaravalle invece sembra qui riflettere su altri modelli. Ma quali? Se osserviamo gli altri tre campi a cominciare dalla Deposizione della Vergine, dove troviamo interventi di aiuti, scopriamo il netto dominio dello spazio ma anche la ripresa di una iconografia giottesca che arriva fino alla Cappella Bardi in Santa Croce. Lo stesso si deve dire dell'altro campo con il Corteo funebre dove lo spazio della processione che cavalca l'arco è di grande efficacia mentre, nell'altro campo con L'annuncio della morte, processione e figure si accostano dai lati e da sotto a un riquadro, una vera stanza prospettica, dove vediamo l'annuncio. E qui, anche attraverso la parziale esecuzione di aiuti, appare evidente la esperienza del Giotto del secondo decennio, ma questo rapporto appare mediato da una flebile dolcezza che evoca Simone Martini, quella stessa fluida dolcezza che sarà di Ambrogio Lorenzetti a Siena. Allora quando datare questo imponente complesso? Probabilmente prima del 1340, forse a metà degli anni '30 e quindi in perfetto parallelismo, ma anche a confronto con le citate opere di Maso di Banco e Puccio Capanna. La generazione dei pittori più vicini a Giotto dunque crea cicli imponenti poco prima della fine del maestro nel 1337.

da: Corriere della Sera, 5 marzo 2010, p. 56

giovedì 18 marzo 2010

Carlo Olmo ''Foresta di simboli che corteggia la follia''

L'architetto: avrebbe dovuto restare incompiuta

di Carlo Grande

Carlo Olmo, che ha pubblicato per Donzelli un volume sull'architetto-narciso, sulle «Archistar» (si intitola Architettura e Novecento) e' contrario all'architettura-provocazione.

Olmo, la Sagrada Familia e' un sogno o un incubo architettonico?

«Mi sono sempre chiesto se si e' in grado di entrare in quella foresta di simboli, se si puo' comprendere fino in fondo quell'opera. E' difficilissimo conoscerla nelle sue motivazioni ''interne''».

Angeli, cuspidi, colonne come alberi e un bestiario fantasmagorico. E un'infinita' di richiami: cosa sognava Gaudi'?

«Certo e' un'operazione vertiginosa, al limite della follia, che fa pensare ad artisti come Van Gogh, come Nietzsche negli ultimi anni della sua vita. E' una straordinaria avventura intellettuale, che si complica fino al punto di diventare un'opera non risolvibile per la quantita' di problemi strutturali e creativi che ha posto».

Ad esempio?

«Un uso del cemento armato che avrebbe avuto bisogno di nozioni matematiche, di una conoscenza delle resistenze e dei pesi applicabili alle strutture degli Anni 60. Lui non padroneggiava ancora quella materia, come chiunque della sua generazione, d'altra parte».

Le piace la Sagrada Familia?

«Non mi piace che si completino i non finiti, e' un'operazione che non approvo, ne' eticamente ne' culturalmente. Di fronte a opere come questa bisogna lasciare il non finito: altrimenti si arriva a degli obbrobri come avviene con certi restauri».

Alla Viollet Le Duc?

«Magari si arrivasse a quei livelli...».

Oggi si tende a riempire ogni vuoto.

«Esatto, ci vuole grande coraggio a lasciare l'opera incompiuta. Ma oggi culturalmente c'e' un horror vacui diffuso. Pensare che invece c'e' grande bellezza nell'incompiuto».

Come nei «Prigioni» di Michelangelo.

«Ci sono ''non finiti'' meravigliosi nell'arte. Ma con i monumenti e' piu' facile, se si tratta di un teatro o di una clinica lasciarli incompiuti e' difficile. Comunque ci sentiamo in dovere di completare sempre, quando la vita stessa e' interrotta dalla morte. La morte fa parte della vita, l'interruzione e' nella natura delle cose».

Qualcuno dice che la Sagrada Familia sia l'ultimo santuario della Cristianita'.

«E' una sciocchezza. La chiesa che piu' rappresenta il Novecento e' la cappella di Notre Dame du Haut di Le Corbusier, che e' esattamente l'opposto, per la distribuzione della luce, per i valori portanti. Un luogo centrale della cristianita' e' a Gerusalemme, la Chiesa del Santo Sepolcro».

Gaudi' non intendeva dare alla sua opera il significato che le viene dato oggi?

«No, caricarla di significati non va bene: Gaudi' non voleva farne la nuova cattedrale di Barcellona. Completarla e' dunque un falso storico. Molti dei valori simbolici li diamo noi. Ma in fondo e' la cosa piu' bella dell'architettura: i simboli si stratificano e vengono arricchiti dalla cultura e dal tempo».

da: La Stampa, 4 marzo 2010, p. 21

venerdì 12 marzo 2010

Pennellate di luci e colori. C'è il vero Giotto ai raggi ultravioletti

La scoperta nella Basilica di Santa Croce a Firenze

di Arturo Carlo Quintavalle

Erano illeggibili, polverosi, quasi del tutto perduti, ma adesso una nuova tecnica, un particolare proiettore agli ultravioletti, ha permesso una scoperta sensazionale: alla Cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze le figure dipinte a tempera da Giotto, a luce naturale opache, sfatte, diventano nette, dense, taglienti. Dunque si ritrova un ciclo di Giotto che rivoluziona i tempi della sua attività fra gli affreschi di Padova (1305) e quelli della Cappella della Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi (circa 1315). È un viaggio sorprendente questo sui ponteggi di Santa Croce, all'interno della Cappella Peruzzi dipinta da Giotto. Mi accompagna Cecilia Frosinini che accende una luce al neon: vedo sulle pareti delle ombre, profili indefiniti. Davanti a me l'Ascensione di San Giovanni, di fronte il Banchetto di Erode, sopra altre due storie dei santi che occupano ciascuna un terzo delle pareti laterali. Nella Ascensione si vedono discretamente le architetture, una chiesa di scorcio, alla destra figure, al centro il santo attratto verso l'alto dalle mani del Cristo dietro il quale si legge solo una massa informe. Di fronte, nel Banchetto di Erode, ancora una volta si distingue discretamente l'architettura ma, quando osservo le figure, esse sono opache, polverose, senza contrasto, dal suonatore di viola a sinistra alla servente dall'altro lato. Cecilia Frosinini spegne il neon: nel buio accende la lampada agli ultravioletti e, di colpo, tutto quello che era opaco, incerto, illeggibile diventa netto, denso di contrasto. È come se i colori di Giotto, quelli che lui aveva dato a tempera sulle pareti, tornassero vivi di nuovo e non per effetto di ridipinture ma perché la lampada riesce a recuperare quello che si credeva perduto. La lampada ha un campo di forse due terzi di metro quadrato, anche meno: il suo scorrere sulla parete illumina il volto densissimo e il corpo chiaroscurato del suonatore di liuto, le figure maschili vicino al tavolo, Erode seduto, la testa del Battista, la coppa e i piatti davanti a lui. Poi la lampada si spegne e tutto torna opaco, illeggibile. Passiamo al campo di fronte con l'Ascensione di Giovanni dominata dallo scorcio di una grandiosa basilica paleocristiana al centro della quale sale il santo, chiamato dalle mani protese del Cristo; dietro, alla luce degli ultravioletti, di colpo, ecco le teste in prospettiva schiacciata degli apostoli e poi i raggi dorati, un vero cono in prospettiva che avvolge il santo. Qui ogni figura mostra volti densi, scanditi come fossero sculture, quelle delle Virtù e Vizi del basamento della Cappella degli Scrovegni a Padova e, dopo, quelle delle formelle di Andrea Pisano alla base del campanile di Giotto. Passiamo in alto, sotto la crociera dove i costoloni a griglia geometrica richiamano subito quelli della Basilica Superiore di Assisi ecco la Visione di San Giovanni in Patmos: qui i simboli evangelici prendono consistenza, si ritagliano netti contro lo sfondo; persino le fasce con gli esagoni dove le teste a luce naturale sono illeggibili mostrano definiti ritratti, forse dei Peruzzi. Questo sotto i miei occhi è un esperimento scientifico dai caratteri non invasivi, una conferma che le tecnologie raffinate scoperte con l'aiuto del Cnr e di diverse facoltà scientifiche della Università di Firenze possono dare risultati incredibili, all'avanguardia nel mondo. La fama dell'Opificio delle pietre dure, i suoi restauri eccezionali delle croci di Giotto, hanno spinto la Getty Foundation a finanziare una ricerca su un campo dipinto della Cappella Peruzzi e su uno della Cappella Bardi in Santa Croce per accertare lo stato di conservazione delle opere dopo le imbiancature rimosse, le ridipinture parziali, i restauri succedutisi nei secoli. Lo scopo è acquisire informazioni sulle caratteristiche tecniche delle pitture per poi programmare un intervento di restauro che, ad esempio per la Cappella Peruzzi, potrebbe essere virtuale, ma con conseguenze enormi per la storia dell'arte. Certo, lo strumento, il proiettore a raggi ultravioletti, di ultima generazione, permette di vedere quello che nessuno, da metà '800, aveva mai visto; permette di ritrovare un testo fondamentale per la storia della pittura di Giotto e del Trecento, un testo che, in quel secolo, verrà ricopiato da allievi, seguaci, e, a Siena, da Ambrogio Lorenzetti; i dipinti della Cappella saranno determinanti per il Masaccio della Cappella Brancacci mentre Michelangelo copierà alcune delle figure. Importante è poi il nuovo dialogo che queste forme stabiliscono con le altre opere di Giotto, con alcuni suoi cicli ad affresco. Per capire i tempi dell'opera dobbiamo ricordare che Donato di Arnoldo fonda la Cappella probabilmente qualche anno dopo l'inizio dei lavori di costruzione di Santa Croce, nel 1295. Donato stabilisce per testamento che la Cappella venga completata al massimo entro dieci anni dalla sua morte; Donato è vivo ancora nel 1299, dunque la data della cappella potrebbe oscillare anche molto. Come stabilire una cronologia più precisa? Gli storici dell'arte sono molto divisi: per alcuni siamo attorno al 1330-1335, due anni prima della morte di Giotto, per altri a metà del secondo decennio. Ora, proprio questo recupero con i raggi ultravioletti permette di rispondere alla domanda e di ricostruire l'intero periodo dell'attività di Giotto dopo la Cappella di Padova, dunque dopo il 1305. Contrapponendosi ad altre tesi, che Giotto avesse dipinto a tempera la Cappella per fare presto, Francesca Flores d'Arcais mette in evidenza nel suo volume su Giotto che la tempera, con la sua duttilità, permetteva di ottenere sfumature di colori, e una rapidità di esecuzione, sconosciuta alle «giornate» della pittura a fresco. E adesso, sui ponti, la Frosinini stessa, coi restauratori, intuisce effetti di pittura cangiante e quindi la novità rispetto ai dipinti di Padova. Osserviamo le architetture della Peruzzi, la chiesa paleocristiana di scorcio della Ascensione dell'Evangelista evoca Assisi mentre la città vista da fuori le mura della Resurrezione di Drusiana a sinistra cita la porta romana con due torri dell'affresco con l'Estasi di San Francesco ad Assisi ma anche l'Incontro di Gioacchino e Anna alla porta aurea di Padova. Il corpo disteso con le gambe sovrapposte della Nascita del Battista evoca la Deposizione di Cristo sempre a Padova. Se consideriamo adesso l'altro ciclo, assegnato a Giotto da Cesare Gnudi, la Cappella della Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi, scopriamo che lo spazio aperto delle lunette è simile a quello dell'Evangelista a Patmos alla Peruzzi, ma negli altri campi, ad esempio nell'Arrivo della Maddalena a Marsiglia, la concezione del paesaggio è diversa. Certo è che le figure, le lunghe pieghe dense e verticali che alla Peruzzi devono avere interessato sia Masaccio che Lippi che Beato Angelico si ritrovano qui, ad esempio nella Resurrezione di Lazzaro. Se la data per la cappella della Maddalena è da fissare attorno al 1315, e dato che gli affreschi di Padova sono finiti nel 1305, sembra ragionevole pensare, per la densità delle forme, la struttura delle figure, la scansione dei volumi, che questo ciclo non sia distante da quello di Padova, dunque, mi permetto di ipotizzare, entro il 1310. Come si vede una rivoluzione. Nei manuali delle superiori, oltre che nei libri degli specialisti, quando il restauro sarà concluso, dopo le indispensabili indagini tecniche dell'Opificio figureranno certo le immagini di questo ciclo di Giotto insperatamente ritrovato.

da: Corriere della Sera, 8 marzo 2010, pp. 32-33

domenica 7 marzo 2010

Chiaravalle, il poema ritrovato

di Rossella Burattino

Le storie della Vergine ritornano alla luce. Non è frequente trovare un intero ciclo di affreschi dedicato alla morte di Maria, ma ne sono una testimonianza quelli dell'Abbazia di Chiaravalle, a dieci chilometri da Milano, da poco restaurati e riportati agli antichi splendori. Un lavoro lungo, iniziato nel 2002 sotto la direzione della Soprintendenza e con l'aiuto di finanziamenti statali e poi ripreso e ultimato tra il 2008 e il 2009 grazie al progetto Restituzioni della banca Intesa SanPaolo.
L'imponente ciclo pittorico del complesso monastico cistercense del XII-XIII secolo coinvolge l'intero spazio interno della Torre nolare o tiburio: la paternità dei dipinti è attribuita a pittori di scuola giottesca e risale agli anni Trenta, Quaranta del Trecento. I più noti rappresentano le storie della Madonna post Resurrectionem di Cristo: dipinte «a giornata», sono divise in annunciazione, corteo, funerale e glorificazione e tratte dalla «Legenda Aurea» scritta dal frate domenicano Jacopo da Varagine.
«Si tratta di due cicli che si susseguono per registri in verticale - spiega Sandrina Bandera, soprintendente per i Beni storici artistici ed etnoantropologici di Milano -. Quelli nei settori più alti sono anche i più antichi: sotto il cielo stellato della calotta della cupola, i quattro evangelisti, accompagnati da altrettanti profeti e dottori della Chiesa, annunciano la sequenza di santi e di beati connessi ai cistercensi (probabilmente una specie di genealogia dell'ordine monastico). E sono stati attribuiti a un artista lombardo del quarto decennio del secolo, il cosiddetto "Primo maestro di Chiaravalle"». Mentre, gli affreschi relativi alle storie della Vergine, sulle pareti immediatamente al di sotto del tamburo, «si distinguono per l'articolazione complessa, per la grandiosità, per la trasparenza e l'effetto sfumato dei toni cromatici - aggiunge Bandera - e sono opera di Stefano Fiorentino. L'artista, attivo con una bottega di pittori toscani dei quali rappresentava la personalità di maggior spicco, fu uno degli allievi più dotati di Giotto, seppure ancora quasi sconosciuto, padre di Giottino, altro grandissimo artista fiorentino. Stefano rappresenta la vena più gotica di questa tradizione pittorica, Vasari la descrive con parole di grande fascino e chiarezza come una "pittura dolcissima e tanto unita" per indicare l'attenzione alla rappresentazione della dolcezza dell'animo attraverso i volti e la capacità di fondere i colori». Le pagine che Giorgio Vasari dedica a Fiorentino nelle sue «Vite» gli riconoscono grande autorevolezza e citano anche il ciclo di Chiaravalle tra le sue opere fondamentali. «Sappiamo dalle fonti che Stefano si ammalò e abbandonò bruscamente i suoi lavori di Milano - continua la soprintendente -. Il ciclo di Chiaravalle mostra un repentino cambiamento e un passaggio del cantiere ai suoi allievi che seguirono in linea di massima il disegno che aveva impostato il maestro».
La raffinatezza dell'esecuzione, infatti, non è uguale in tutte le pareti: in quella est, la più sacra perché rivolta verso l'altare, spiccano il disegno e le tecniche di colorazione.
Il celeste e l'oro predominano e per dare un effetto tridimensionale, un rilievo materico, Fiorentino aveva aggiunto sull'intonaco bagnato un cuscinetto di stagno su cui poi dipingeva.
Il restauro degli affreschi giotteschi del tiburio, eseguito da Nicola Restauri di Aramengo (Asti), è stato preceduto e accompagnato da analisi e da indagini strumentali non distruttive, finalizzate allo studio delle fenomenologie di degrado, delle tecniche esecutive, dei materiali originali e di quelli utilizzati negli interventi precedenti. «Abbiamo iniziato - conclude Bandera - con la pulitura delle sbavature (si erano verificate a causa dell'acqua che entrava dalle finestre) e dello sporco grasso (dovuto all'inquinamento). Le stuccature sono state rifatte perché la loro cromia era ormai lontana da quella dell'affresco e abbiamo sottolineato la continuità della decorazione che corre lungo la tribuna e ruota sugli angoli. Infine, è stato progettato un oculo nella lanterna che si apre meccanicamente quando l'umidità all'interno supera il cinquanta per cento, così non si forma la muffa e gli affreschi respirano».
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Il restauro degli affreschi dell'abbazia di Chiaravalle rientra nel progetto Restituzioni, l'iniziativa promossa da Intesa Sanpaolo (giunta ormai alla quindicesima edizione) che si occupa del recupero di opere d'arte conservate in musei e chiese di tutta Italia e che a breve avrà un sito Internet tutto suo. Al restauro è stato anche dedicato il volume Un poema cistercense - Affreschi giotteschi a Chiaravalle Milanese (Electa, 304 pagine, 200 illustrazioni, 120 euro) che sarà nelle librerie a fine marzo

da: Corriere della Sera, 5 marzo 2010, p. 56.