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venerdì 6 novembre 2009

Piano: due mondi fanno una città

di Stefano Boeri

Incontriamo Renzo Piano in un pomeriggio che sa ancora d'estate, nel terrazzo del suo studio genovese. Siamo reduci da sei mesi di lavoro in comune e finalmente abbiamo in mano una prima bozza di «Being Renzo Piano». Era facile scivolare nella celebrazione, o nel gossip, eppure il risultato, come lui aveva fortemente voluto, è un film in presa diretta, senza retorica e senza veli, sui misteri, le difficoltà e le prospettive di un mestiere appassionante. Ed è proprio da queste considerazioni sul «fare architettura» oggi che il nostro dialogo riparte.
Una volta mi hai parlato di architettura come arte corsara...
«L' architettura è un' arte di rapina: guardi, cerchi, prendi tutto quello che può aiutarti nel progettare e poi lo mescoli, sapendo però che tutto quanto hai "rubato" e assimilato deve raccogliersi dentro la costruzione di un edificio che funzioni».
Se è per questo, tutta l' arte è rapina; e lo sono anche la scrittura, il romanzo, la scenografia.
«Sì, ma l'architettura gioca sempre su una linea di frontiera, perché non ha a che fare solo con questioni pratiche come la tecnologia, la costruzione, i materiali. Quando costruiamo c'è un momento in cui ci rendiamo conto che l'avere risposto in modo tecnicamente pertinente a un bisogno non è più sufficiente, che dobbiamo far aderire quella risposta anche a un desiderio, a un sogno, a un'immagine, a qualcosa che ti rappresenti. A quel punto, pur nascendo dal costruire, l'architettura si trasforma in qualcosa di straordinario».
La straordinarietà è un programma piuttosto ambizioso...
«Dipende da come la raggiungi: c'è chi, come il mio amico Frank Gehry, progetta proponendosi subito di realizzare qualcosa di eccezionale e poi torna indietro verso i requisiti funzionali e costruttivi e chi invece, come me, comincia dal costruire e cerca gradualmente di avvicinarsi alla straordinarietà. In realtà l'architettura è davvero tale solo quando questi due mondi, la risposta ai bisogni e la risposta ai sogni, riescono a coincidere in un solo oggetto: ecco allora che assisti a un miracolo».
In questi mesi di assidua frequentazione, la cosa che ci ha più colpito è la tua capacità di costruire continuamente delle "procedure" capaci di regolare la tua vita e il tuo tempo. In letteratura, questo è un atteggiamento tipico di quegli scrittori, come Italo Calvino, che hanno cercato metodicamente un linguaggio per descrivere il mondo, prima ancora di proporsi di progettarlo in forma narrativa...
«In effetti, anche Calvino, come me, aveva il terrore del disordine. Girava sempre con dei foglietti in tasca e scriveva appunti che erano geroglifici. Ma attenzione: Calvino agganciava costantemente il reale. Questa ossessione del prendere appunti, del "rubare dal quotidiano" è piuttosto un comportamento comune a tutti quelli che non hanno mai creduto all' impulso creativo selvaggio. E, da buon genovese del segno della Vergine, è una cosa che ti resta dentro tutta la vita».
Sembri sempre preoccupato di evitare una eccessiva autografia nei tuoi lavori, eppure c'è un gesto compositivo ricorrente anche in opere molto lontane nel tempo: qualcosa che ha a che vedere con un principio di sollevamento del terreno. Un gesto tettonico, anche di una certa semplicità, che genera aeroporti, musei, luoghi pubblici. È come se ci fosse una tua aspirazione costante alla levitazione.
«La ricerca costante di una "leggerezza" nelle strutture architettoniche è stata sempre per me importante. È l'idea dell'architettura come arte per sollevare immense superfici di suolo, sotto le quali lasciare fluire l'imprevedibile movimento della vita quotidiana. Può darsi che nei miei lavori questa ricerca sia leggibile al punto da diventare quasi un requisito linguistico riconoscibile. Non sta a me dirlo».
C'è un momento particolare in cui nasce l'idea di un progetto?
«Seguendomi in molti dei miei viaggi, avrete capito che non decido tutto sul luogo di progetto; piuttosto immagazzino delle immagini, le registro e questo mi aiuta ad alimentare un ologramma che gradualmente si compone e si memorizza nella mia mente. Io lavoro per ologrammi. È una costruzione mentale in tre dimensioni che scaturisce dal tuo mondo interiore, dalle tue conoscenze tecniche e dalla realtà del sito. Devi farla subito ed è forse il passaggio più difficile del progettare. L'ologramma serve per calibrare la scala della tua idea, per capire come letteralmente "sta" nel luogo e cosa sia l'edificio a cui stai pensando. E il disegno serve solo per aiutare l'ologramma a esprimersi. Nell'ologramma, le tue esperienze, le sensazioni del luogo, le idee costruttive si fondono in tempo reale in un'idea di architettura che poi si evolve e si articola».
Ti consideri un' Archistar?
«Il discorso sulle Archistar ha il merito di aver riportato l' architettura sulle prime pagine dei quotidiani, ma tende a trasfigurare la vera e profonda realtà del nostro mestiere, che non è quello di fare oggetti accattivanti, ma di fare cose che fanno città. Ed è proprio questa, l'architettura che fa città, la caratteristica riconosciuta al nostro lavoro, soprattutto in America. Del resto anche il progetto per la Columbia University a Manhattan nasce con questa idea: fare del campus universitario un nuovo pezzo di città, ad Harlem».
Di solito, pur essendo in solitudine, quando si progetta si è accompagnati dalla presenza mentale di qualcuno a cui si attribuisce una funzione di giudizio, una presenza critica che viene interiorizzata e che serve a misurare la qualità del tuo lavoro.
«È vero. Un tempo questa presenza si identificava in Peter Rice, che oggi non c' è più. E devo ammettere (anche se è un'idea un po' romantica) che ogni tanto, mentre sviluppo un ologramma progettuale, penso: "Cosa avrebbe detto Peter? "Lo stesso mi accade con Jean Prouvé. D'altro canto, per me sono importantissimi anche i giudizi dei bambini: i bambini sono diabolici. Io ne ho avuti 4 e li ho sempre portati in cantiere, perché sono freschi, ingenui, ma sensibilissimi e acuti. Così come

da: Corriere della Sera, 4 novembre 2009, p. 33