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giovedì 27 settembre 2012

giovedì 20 settembre 2012

«Il mio velo islamico sul nuovo Louvre»

di Stefano Montefiori

Domani il presidente della Repubblica francese inaugura il Dipartimento di arti islamiche del Louvre disegnato dall'architetto italiano Mario Bellini con il collega francese Rudy Ricciotti. «Ricordo come è nato il progetto - racconta Bellini nell'albergo di Parigi dove è appena arrivato, in vista della cerimonia -. Nel mio studio, a Milano. Mi sono messo i guanti, ho preso un piccolo pezzo di lamiera stirata, e ho cominciato a piegarlo, a modellarlo con le mani, a vedere se riuscivo a realizzare quella specie di velo, di foulard che avevo in mente». Il primo passo verso lo spettacolare tetto ondulato e translucido, sorretto da otto pilastri e ottomila tubi, che racchiude 18 mila opere d'arte, veniva compiuto. Con quel pezzo di lamiera, poi trasformato in progetto tridimensionale digitale grazie a un software parametrico, Bellini e Ricciotti vinsero il concorso internazionale battendo avversari quotati come, tra gli altri, l'anglo-irachena Zaha Hadid.
Lo chiamano ala di libellula, velo, nuvola dorata, «qualche volta tappeto ma mi piace meno», dice sorridendo Bellini: è un prodigio architettonico che attira l'attenzione, ispira metafore e per la seconda volta nella storia del più grande museo del mondo - dopo la piramide di Ieoh Ming Pei nel 1989 - interviene sulla struttura del Louvre e ne amplia la superficie.
«Avevamo tantissimi limiti, ci veniva chiesto di usare la Corte Visconti che però è vincolata - racconta Bellini -. Ne siamo usciti rifiutando le soluzioni più semplici, come una grande vetrata stile grande magazzino o una nuova palazzina, e abbiamo proposto di scavare sotto la superficie, usando un tetto translucido in modo che la luce potesse filtrare e non si avesse la sensazione di stare sotto terra».
Il progetto e i materiali usati rispondono a un principio che Bellini definisce di «empatia dialettica»: «Il nuovo dipartimento ha una sua autonomia, ma chi è all'interno non si sente chiuso, vede le facciate della Corte Visconti ai lati e il cielo di Parigi sopra di sé: le due realtà sono diversissime, si affiancano e si rispettano, non ce n'è una che prende il sopravvento sull'altra. Le due culture restano distinte, ma dialogano da pari a pari». La metafora politica è evidente, nei giorni in cui il mondo islamico si è infiammato per il video insultante su Maometto: a pochi metri dal Louvre, sabato pomeriggio, oltre 150 fanatici hanno manifestato davanti all'ambasciata americana, ferendo quattro poliziotti. «Direi che migliore risposta non potevamo dare - commenta Bellini -. Considero l'inaugurazione del dipartimento proprio in questi giorni di tensione una meravigliosa coincidenza, per niente casuale: fu un decreto del presidente Chirac, il primo agosto 2003 in piena guerra del Golfo, a decidere la creazione di un ottavo dipartimento dedicato all'Islam, in un Louvre che per oltre un secolo ne aveva avuti sette. Sarkozy pose la prima pietra, e domani Hollande inaugura».
Perché ha vinto il concorso? «Per decenni ho passato il mese di agosto con la mia famiglia e quella di un amico, in pulmino Volkswagen e in tenda, visitando tutto il mondo islamico, dal Marocco al Bangladesh passando per Libano e Iran. Secondo me, nel progetto, qualcosa di quelle esperienze è rimasto».

da: Corriere della Sera, 17 settembre 2012, p. 31

giovedì 30 agosto 2012

Il paesaggio preso a schiaffi

di Ernesto Galli Della Loggia

Trascorrere qualche giorno in Calabria - dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola - significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.
Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.
Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro - questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana - per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e - perché no? - una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?
Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.
Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque). D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace - fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti - se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.
Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.

da: Corriere della Sera, lunedì 27 agosto 2012, pp. 1 e 30


domenica 5 agosto 2012

"Ho messo le mie mani nelle mani di Leonardo"

intervista di Alberto Mattioli a Cinzia Pasquali

Mettere le mani su Leonardo, sperando che non tremino troppo. Per restaurare uno dei quadri più celebri della pittura occidentale: la Sant’Anna . Dopo anni di studi preparatori e polemiche preventive, il Louvre ha deciso finalmente di procedere. Il risultato è esposto nella Hall Napoléon fino al 25 giugno in una mostra sponsorizzata da Ferragamo che mette insieme, per la prima volta, tutto quel che esiste intorno al capolavoro: lettere, schizzi, copie, ventidue disegni prestati dalla Regina d’Inghilterra, le versioni d’atélier che raccontano i ripensamenti di Leonardo sul capolavoro e poi la sua influenza su quelli che verranno, da Delacroix a Degas, da Odilon Redon a Max Ernst. L’idea è quella di far entrare il visitatore nella testa di Leonardo, o almeno nella sua bottega. Alla fine, si rivede una Sant’Anna uguale e diversa. Nell’incredibile «sfumato» delle montagne dietro questa Sacra famiglia con due madri è spuntato un villaggio, il manto della Vergine è una colata di lapislazzulo e i suoi piedi sono delicatamente immersi nell’acqua. Il merito è di Cinzia Pasquali, una signora romana di nascita e francese di vita, sorridente ma, si capisce, determinata. Le mani su Leonardo le ha messe lei.

Perché e come è stata scelta?

«È stata fatta una gara, una procedura insolita decisa dal Louvre e dal C2rmf, il Centro di ricerca e di restauro dei musei di Francia. C’erano sette concorrenti e beh, ho vinto io. Era il luglio del 2010».

Cos’ha pensato?

«All’inizio, di aver capito male, perché mi avevano dato la notizia per telefono ma la lettera di conferma tardava. Poi ho realizzato, ho misurato la responsabilità e mi sono messa a studiare tutto quel che si sapeva su questo quadro. Fortunatamente nel ’94 erano stati fatti dei test in vista di un restauro che però non s’iniziò mai».

Poi ha cominciato a pulire...

«Usando una tecnica nuova, un gel messo a punto da Paolo Cremonesi. Non volevamo eliminare del tutto le vernici che si sono sovrapposte nei secoli e ossidate, ma assottigliarle. Un restauro dev’essere reversibile. Diciamo che questa Sant’Anna durerà per i prossimi cinquanta o settant’anni. Poi si vedrà».

Il problema, naturalmente, era quanto togliere.

«Ho sempre lavorato sotto il controllo di una commissione scientifica internazionale cui venivano sottoposti i vari test e che si riuniva ogni due o tre mesi. La discussione tra chi voleva un alleggerimento leggero e chi voleva una pulizia più in profondità è stata animata. Alla fine, come sempre, si è trovato un compromesso».

Ma lei personalmente cosa ne pensa?

«Io sarei andata anche più in profondità. Ma si è deciso di lasciare un bel po’ di quella che, molto impropriamente, si chiama patina del tempo».

Tuttavia ci sono state polemiche.

«Due membri della commissione si sono dimessi. Uno era contrario al restauro fin dall’inizio, quindi non si capisce perché avesse accettato di farne parte. Un’altra perché era affezionata alla Sant’Anna come l’aveva sempre vista».

Finita la pulitura, lei ha ridipinto.

«Non lo dica neanche per scherzo. Ho solo reintegrato alcune piccole lacune, per esempio alcuni buchi lasciati da insetti».

Più preoccupata dal togliere o dall’aggiungere?

«Certamente dal togliere. Se si leva uno strato di troppo, è perduto per sempre».

Le sorprese sono state molte. Quella che l’ha commossa di più?

«Trovare i segni delle mani di Leonardo, insomma le sue impronte digitali. Spandeva il colore con la punta delle dita. Del resto, lo faccio anch’io».

Quanto tempo ha vissuto con Sant’Anna?

«Un anno e mezzo, tutti i giorni dalle 8.30 alle 18. Questo quadro è stato un grande amore, anzi una grande ossessione. Me lo sognavo di notte».

Le piacerebbe restaurare la Gioconda ?

«Certo! E credo anche che avremmo delle sorprese. In mostra c’è la Gioconda del Prado, una copia che ha colori molto più vividi e luminosi. Credo che se la restaurassimo, la Gioconda vera risulterebbe molto simile alla copia».

Lei ha messo le mani dove le metteva Leonardo. Che idea si è fatta di lui?

«Credo che fosse un grande nevrotico. Non finiva mai nulla perché era sempre alla ricerca di qualcosa che gli sfuggiva, a caccia di un’ideale talmente elevato da risultare inafferrabile».

Ultima domanda: adesso che il lavoro è finito, cosa prova?

«Soprattutto, un’enorme ammirazione per Leonardo. Il genio è lui».

da: La Stampa, 28 marzo 2012, p. 35

giovedì 5 luglio 2012

L'arte senza l'opera. Caravaggio è un'app

di Sebastiano Triulzi

Arte e smartphone, arte e tablet, arte e app. Ormai quasi tutti i principali musei del mondo hanno aperto le porte alla rivoluzione digitale, nel segno di una comunione tra contenuti culturali, intrattenimento e business. In tempi di tagli degli investimenti pubblici, gli organizzatori di mostre ed eventi si affidano alla tecnologia per attrarre visitatori, cercando di personalizzare quanto più è possibile l’esperienza museale. Secondo il nuovo credo, l’esibizione deve proseguire anche oltre gli spazi canonici, estendendosi ad altre superfici della città per cui vengono proposti itinerari esterni o una serie potenzialmente infinita di informazioni in grado di arricchire le conoscenze appena acquisite. In occasione della mostra sull’Espressionismo tedesco, per esempio, il MoMA ha ideato un’applicazione per iPad con una mappa multimediale di New York incui sono segnati gli studi, le gallerie, i ritrovi principali degli artisti, quasi a voler ricostruire un’altra città, un altro tempo. Mentre nella mostra che Barcellona ha dedicato a Miró,L’escala de L’evasió, accanto ai dipinti c’era un codice a barre: bastava avvicinare il proprio telefonino per aprire una pagina di Wikipedia con notizie e interpretazioni critiche(una funzione, questa, consentita anche da altri spazi museali). L’app Love Art utilizzata dalla National Gallery di Londra, invece, permette di ascoltare le spiegazioni degli esperti (in audio e su video con immagini ad alta risoluzione) ma anche di ingrandire i dettagli e osservare i disegni “nascosti” sotto un’opera.
L’applicazione ci informa poi che le immagini presentate «appartengono a tutti» e che «possiamo averle al nostro fianco in ogni momento », promettendoci un «viaggio indimenticabile nell’arte» semplicemente sfiorando un touch screen.
Questo tipo di lessico pubblicitario certamente tradisce una natura commerciale che con l’arte non dovrebbe avere molto a che fare. Del resto per lungo tempo i musei sono stati i custodi delle nostre eredità culturali e ancora oggi vi entriamo per andare a vedere un quadro, una statua, un’installazione: esiste un fondamento di idolatria, di culto dell’immagine in questo pellegrinaggio, in questa cerimonia che ha reso sacra, laicamente, la visione. Il problema è però che per farne vera esperienza c’è bisogno di una porzione di tempo che pensiamo di non possedere più.
Chi resta oggi ore a guardare un dipinto? L’idea di stare fermi davanti a un’immagine che non si muove ci pone qualche problema.
E allora il museo, divenuto luogo privilegiato del processo di smaterializzazione che il patrimonio culturale collettivo sta attraversando da circa un decennio, crea intrattenimento. Improvvisamente cambiano i riti che per secoli ci sono sembrati del tutto naturali: la lettura della targhetta col nome del pittore ci pare indispensabile, e ci sentiamo privati di qualcosa se non ascoltiamo nello smartphone la descrizione del dipinto, mentre per nulla al mondo rinunceremmo alla possibilità di condividere sui social network le foto delle opere che più amiamo. E così via, fino alle app che indicano la posizione in cui ci troviamo nel museo perché perdersi, ancorché nel regno del bello o del sublime, vuol dire anche perdere tempo.
Così per alcuni osservatori l’arte da smartphone appare semplicemente la risposta del mercato alle nostre aspettative, più o meno indotte, di intrattenimento e di conoscenza su richiesta. È indicativo in questo senso il caso del Louvre che ha affidato la suaultima guida virtuale non a un’applicazione per tablet, ma addirittura al 3DS, la console portatile di Nintendo: cinquemila macchine che i visitatori si mettono al collo mentre passeggiano verso la sala della Gioconda. Secondo altri il digitale rappresenta invece un’opportunità didattica ed educativa. Ne è convinto anche Maxwell Anderson, dell’Indianapolis Museum of Art, secondo cui i musei 2.0 somigliano più a delle agorà, a delle piazze dinamiche, per le quali andrebbe sostituito il comandamento dei secoli scorsi fondato sulla triade «collezionare, preservare, interpretare » con parole d’ordine più attuali, quali la capacità di «riunire» tanto le opere quanto le persone, e di rendere il museo un luogoche sia davvero di scambio continuo.
L’ultima frontiera la sta comunque approntando Google, col suo progetto di rifotografare le sale dei musei per poter poi avere l’impressione di esservi stati senza alzarsi dal divano. E forse un domani avremo in ogni città un palazzone dove verranno riprodotti perfettamente un mese il Louvre e un altro gli Uffizi. Del resto non siamo così lontani da uno simile scenario, se è vero che alla mostra su Raffaello a Todi erano esposte, ben incorniciate, le riproduzioni digitali dei capolavori dell’artista. Dimenticando che se è definitivo il passaggio dell’opera d’arte da oggetto materiale, concreto e misurabile a immagine intangibile in quanto digitalizzata, l’originale ha comunque una sua aura, come sosteneva Walter Benjamin. Perché non tutto è sempre e comunque riproducibile. Come una giornata appena trascorsa e che non ritorneràmai più.

da: La Repubblica, domenica 3 giugno 2012, pp. 38-39.

lunedì 9 aprile 2012

Lorenzetti: affreschi per il Palazzo Pubblico

Fra il 1338 e il 1339 Ambrogio Lorenzetti affrescò in una sala del Palazzo Pubblico di Siena, per incarico dei Nove che allora governavano la città, le immagini del Buono e del Mal Governo, gli effetti di questo e di quello: sulla parete più corta della stanza (l’altra è occupata dall'unica grande finestra) è la rappresentazione allegorica del Buon Governo: in alto, Sapientia regge una grande bilancia, sotto l'imponente figura della Giustizia, cogli occhi rivolti a lei, ne tiene in equilibrio i piatti (su questi, due angeli amministrano la giustizia distributiva e comutativa) e fa scendere due corde che la Concordia, subito sotto, stringe ed unisce. La fune è raccolta da ventiquattro personaggi che se la passano l’un l’altro fino ad essere saldamente tenuta nella destra del grande personaggio del Ben Comune, seduto in trono, vestito dei colori di Siena (bianco e nero), col simbolo della città ai piedi (la lupa che allatta i gemelli): lo sovrastano le tre virtù teologali, Fides, Charitas e Spes, mentre gli sono accanto le quattro virtù cardinali, oltre a Pax e Magnanimitas. Ai piedi del Ben Comune, una piccola folla di soldati, fanti e militari a cavallo, quelli a destra più armati e minacciosi, che tengono a bada una fila di prigionieri incatenati, mentre due signori si sottomettono offrendo i loro castelli.
Sulla parete immediatamente adiacente Lorenzetti raffigurò la città di Siena (si riconosce il Duomo, nell’angolo, entrando a sinistra) e, oltre le mura, la vita sicura e felice delle campagne; nella città spicca sul compatto sfondo di palazzi, case e torri, l’attività dei suoi abitanti: mercanti nelle botteghe, contadini venuti a vendere i loro prodotti, artigiani (il sarto, un tessitore, un orefice), un maestro di scuola. E poi ancora sui tetti l’alacre operosità di muratori intenti ad abbellire la città. Alla laboriosità si affianca la gioia: un corteo nuziale, un coro di dieci fanciulle che danzano e cantano, un gruppo di nobili, che a cavallo esce verso la campagna per andare a caccia con il falcone. Qui si vedono i lavori della vigna, del grano, una fila di mercanti e di contadini, campi e boschi. Lontano è il porto di Talamone, la speranza sempre delusa dei senesi, mentre nel cielo vola Securitas. Di fronte, su un’unica parete si vede concentrata la rappresentazione del Mal Governo e dei suoi effetti nella città (che è già la sua dimora) e nella campagna devastata insicura e sterile.
Il Mal Governo, in aspetto diabolico, è attorniato da sei vizi: Crudelitas, Proditio, e Fraus e poi ancora Furor, Divisio e Guerra. Al di sopra, in antitesi alle virtù teologali della parete accanto, sono Avaritia, Superbia, Vanagloria. Ai piedi del Mal Governo la Giustizia a terra, spezzata la sua bilancia, e poi ancora scene di violenza e di uccisione. Nella città deserta di lavoro e di abitanti (solo un fabbro sta approntando le armi) la soldatesca va distruggendo gli edifici e minacciando chi ancora non è riuscito a fuggire. Nella campagna rovine di villaggi, di chiese, di uccisioni, e fughe, mentre nel cielo scuro vola minaccioso Timor.
Sopra e sotto gli affreschi due fregi contenenti medaglioni, fregi che purtroppo hanno subito nel tempo molti guasti e rimaneggiamenti. Cosi, per la parte che comprende l’allegoria del Buon Governo, è rimasta identificabile, nella cornice superiore, sola la figura del Sole, posta proprio sopra al Ben Comune. Nell’inferiore si vedono ancora Grammatica, Dialettica (Retorica è sparita): le arti del Trivio. Sulla parete adiacente (gli effetti del Buon Governo in città e in campagna) vediamo nel fregio inferiore le arti del Quadrivio (Aritmetica, Geometria, Musica e Astrologia e in più Filosofia), in quello superiore i pianeti e le stagioni benefiche: Venere, la Primavera, Mercurio, l’Estate e la Luna; c’è anche uno stemma con le chiavi di san Pietro.
Dalla parte del Mal Governo invece, in alto, i pianeti e le stagioni malefiche: Saturno, Giove e Marte, Autunno e Inverno, e i gigli di Francia. La sequenza dei pianeti, partendo dalla Luna, è quella tradizionale; quella ad esempio, del Paradiso dantesco. Sotto dovevano essere rappresentati i tiranni dell’antichità: unico visibile è Nerone nell’attimo di gettarsi sulla spada. La complessa allegoria è resa più chiara da scritte che commentano l’affresco: Timor e Securitas reggono due grandi cartigli, e ancora un altro è posto sotto i ventiquattro personaggi a privilegiare la parte positiva del Buon Governo: l’affresco è stato commissionato dai Nove a propagandare la loro politica. E poi ancora una lunga scritta corre sotto il bordo inferiore degli affreschi immediatamente prima dei fregi, come spiegazione continua alle immagini che si susseguono.

Nikolaj Rubinstein, che ha dedicato la sua attenzione esclusivamente alla rappresentazione della allegoria del Buon Governo, ha messo in rilievo che i due concetti che maggiormente vollero essere sottolineati in questa parte dell'affresco sono «The Aristotelian theory of justice in its contemporary scholastic and juristic interpretation» e quello ancora aristotelico del Bonum Commune e perciò della subordinazione dell'interesse privato a quello della comunità. A questi concetti fu assicurata la divulgazione dal Domenicano Remigio de’ Girolami, il quale compose fra il 1302 e il 1304 il De bono paci e il De bono communi (e l’incompiuta De iustitia). Il Rubinstein osserva che ovvia rappresentazione di quella teoria nel nostro affresco è la distinzione fra giustizia distributiva e commutativa ma sorvola sulla stranissima rappresentazione, né aiutano a capirla le fonti da lui indicate, Aristotele e Tommaso. In realtà per comprendere le figure poste sotto ai due tituli bisogna invertirli. Cioè bisogna leggere a sinistra dove l’angelo ha spada e corona: comutativa; a destra, dove l’angelo ha monete e armi: distributiva. Con questa inversione che mi è stata suggerita da Gianfranco Fioravanti, diventano finalmente chiari i due soggetti e guida sicura le fonti. Sappiamo che già nel XV secolo alcuni versi dell’affresco non erano più leggibili, e certamente dovute a restauri innovatori sono alcune parole e lettere del dipinto nel suo stato odierno. Poiché le due parole hanno l’ultima parte in comune è abbastanza facile supporre che siano state malamente lette una volta deterioratesi.

Chiara Frugoni, "Una lontana città", Einaudi 1983, pp. 136-138.

domenica 8 aprile 2012

Le prove di Marina

Tra i magneti della Abramovic perdo il tempo e lo spazio

di Francesca Bonazzoli

Ho fatto la performance guidata da Marina Abramovic al Padiglione d'arte contemporanea di Milano, il primo nuovo lavoro dell'artista serba dopo il clamoroso successo di due anni fa con «The artist is present» al MoMa di New York. Ma prima di raccontarvi le mie emozioni è indispensabile una premessa: sono una fan di Marina. Non semplicemente perché stimo il suo lavoro, ma perché sono stata sedotta dal suo magnetismo fin dalla prima volta che l'ho vista, nel 1998. Ero a Berlino per la prima edizione della Biennale; un assistente di Gerhard Richter mi trascinò al Kunstwerke, allora un edificio diroccato nel cuore della ex Berlino comunista, e lì Marina mi apparve come un'icona, illuminata da un grande faro di luce nella penombra di uno stanzone fumoso e spoglio, nuda contro un muro a quattro metri di altezza dal pavimento, appena sostenuta dal sellino di una bicicletta e due pioli sotto i piedi. Sotto di lei un mastello di acqua bollente e tutt'intorno a lei centinaia di persone che entravano e uscivano. Era un caos claustrofobico, ma lei, dall'alto, ci vedeva tutti senza guardarci. Da quella volta la penso sempre come un'aquila imperiale che scruta il mondo da altezze per noi irraggiungibili. Dopo un'ora sono uscita anche io, ma ancora riesco a sentire quella forte sensazione di averla abbandonata in pasto alla curiosità morbosa della folla. Marina era già riuscita ad attrarmi nel suo campo di energia.
Nessuna, fra le super star dell'arte contemporanea, è come lei: l'unica che non finge, che non ha paura di incontrare giornalisti, studenti, fan, il pubblico in generale. È accessibile a tutti e nella vita si espone al pericolo esattamente come nelle performance. Niente può ferirla perché è disponibile a farsi ferire. Nulla può spaventarla perché ha sempre paura prima di affrontare le performance. La sua cifra sono la libertà e l'autenticità. L'ho seguita alla Fondazione Ratti di Como dove ammaliò il pubblico raccontando per due ore la sua vita. Ho pianto per lei a Basilea dove stava sdraiata in una nicchia sepolcrale, abbracciata nuda a uno scheletro, gli occhi lucidi di lacrime. Volevo accarezzarla, dirle di alzarsi e andare via e alla fine non ho retto al dolore che provavo nello stare lì inerte a osservarla come un voyeur, senza poterla aiutare.
A Milano, nella sede della casa editrice Charta, mi sono fatta vestire da lei con gli energy clothes, gli abiti energetici. L'ho vista via via trasformarsi da severa masochista in dolce sciamano. Ma sempre, in lei, mi ha sedotto quella miscela, così travolgente perché autentica, di amore e crudeltà. A Milano, ieri, ha scritto ancora una nuova pagina della performance art, battezzata «the Abramovic method», e ha allargato gli spazi dell'arte fino a confini finora mai esplorati. Per la prima volta, infatti, sono state ribaltate le parti: l'artista spariva, mentre il pubblico diventava il protagonista. Prima abbiamo firmato un impegno a completare fino in fondo le due ore e mezza di performance, poi ci hanno fatto vestire con dei grembiuli bianchi. Marina ci ha guidato negli esercizi di rilassamento e infine ci ha chiesto di indossare una cuffia per isolarci dai rumori esterni e di chiudere gli occhi. Da quel momento lei è scomparsa (io ho sentito un calo di tensione e non ho smesso di sperare che tornasse) mentre i suoi assistenti ci hanno guidato nelle sale del Pac, prima seduti su un'alta seggiola accanto a una seggiolina bassa poggiata sopra cristalli di quarzo, quella per lo spirito. Facevo fatica a rilassarmi, ma ho percepito la differenza fra il mio corpo e il mio spirito tanto che più volte ho sentito la necessità di allungare la mano sulla piccola spalliera, per affetto. Poi siamo stati in piedi sotto un magnete: la sua forza mi faceva barcollare e stancare restituendomi chiara la misura del mio scarso dominio sul corpo. Infine, ci siamo sdraiati su una panca con sotto un grosso quarzo e lì, finalmente, mi sono ricaricata di energia.
Ho riflettuto sul tempo e il silenzio, ho ascoltato il mio corpo e i suoi limiti, ma rispetto alle altre performance di Marina, mi è mancata la sua presenza magnetica e penso sia mancata anche al resto del pubblico che assisteva. Ho capito che non possiamo tutti trasformarci in artisti, tuttavia è la prima volta che ho sperimentato l'arte come assenza di spazio e tempo. Con il metodo Abramovic l'arte diventa assenza, buco nero di assoluto. Cioè quello cui hanno teso tutti gli artisti: l'eternità. Dunque se mi chiedete se questa è arte rispondo sì, e anche nella più classica tradizione occidentale: dai fondi oro bizantini a Joseph Beuys passando per la Sistina di Michelangelo, il Suprematismo di Malevic, «Lo spirituale nell'arte» di Kandinskij, ovvero tutta l'arte che si è proposta di elevare lo spirito umano verso le cose ultime. Ma forse questa espansione radicale è ora talmente senza confini da portarla a collassare verso un vuoto che qualcuno dovrà pur tornare a colmare. Forse Marina stessa.

da: Corriere della Sera, 20 marzo 2012, p. 44

E la vita irruppe nell' opera per qualcosa di irripetibile

Un attacco al mercato e al «feticcio» da vendere

di Vincenzo Trione

Nel corso dei secoli, si è spesso pensato il quadro come una complessa macchina linguistica e simbolica da custodire dentro la cornice, simile a una frontiera capace di marcare una distanza dalle pareti. Poi, è accaduto qualcosa. Si è frantumato un sistema di valori. Innanzitutto, gli spettacoli futuristi, rivolti a suscitare reazioni violente nel pubblico. E, nel secondo dopoguerra, l'Action painting: la danza di Pollock, che si dispone sulla tela, invadendola con sgocciolamenti di colori. In seguito, le provocatorie azioni dadaiste e quelle surrealiste. Infine, ci sono state esperienze estreme come l'happening, fluxus, la land art, la body, il graffitismo, il post-human. Avventure accomunate dalla volontà di ripensare l'idea stessa del fare arte. Non ci si limita più a dipingere o a scolpire. Abbandonato l'atelier, l'artista progetta ambienti in cui allestisce messe in scena (l'happening); dà importanza anche a gesti minimi come i suoni, il respirare, il fumare, il sedersi su una sedia (fluxus); imprime i suoi segni spesso invisibili all'interno del paesaggio naturale (land art); tratta se stesso come materia da usare, aggredire, modellare (body art); invade le facciate di palazzi o di vagoni della metropolitana con scritture impazzite (graffitismo); manipola il suo stesso corpo, con interventi chirurgici di diverso tipo, attuando anamorfosi spesso repellenti (il posthuman).
L'intento è quello di sperimentare ardite costruzioni nelle quali si superi ogni filtro rappresentativo. Ci si porta al di là dei media tradizionali (pittura e scultura), per inventare un genere nuovo: la performance. In essa, si cancella ogni distinzione tra arte e vita: la vita entra nell'arte, e viceversa. L'opera non è più un universo compiuto e chiuso; rinuncia alle sue leggi «classiche». Si offre come territorio sensibile all'irruzione del vissuto, spazio dove i tempi della creazione convergono con i ritmi dell'esistenza.
In polemica con Duchamp - i ready made sono esercizi concettuali che si sottraggono al mito dell'unicità - i protagonisti di happening, fluxus, land art, body, graffitismo e post-human, pur con accenti diversi, concepiscono i loro interventi come qualcosa di irripetibile. I loro «show» non possono essere replicati: esistono solo nel momento in cui vengono eseguiti. Si svolgono in diretta e chiedono di essere completati dal pubblico. Sono sintesi tra teatro, danza, musica. In essi, nulla è finto: tutto, è reale. Determinante è il contesto in cui avvengono: gallerie, musei. Cruciale non è la «cosa» in sé, ma l'accadere, il succedere: lo svolgersi dell'evento, il tempo come flusso. La forma non come «fatto» costituito e risolto, ma come processo, divenire. A queste tensioni rinvia il verbo inglese to perform, che allude al compiere qualcosa: al gusto per una spettacolarizzazione non specializzata nell'ambito della recitazione o dell'esecuzione musicale, ma estesa anche a manifestazioni povere ed elementari.
Non senza eccessi e facili scandalismi, il performer non è un regista, che programma situazioni da contemplare. Ma si colloca sul medesimo piano degli spettatori. Propone un esplicito «attacco» contro le regole del mercato, che cerca sempre la commerciabilità dei prodotti. Non asseconda le consuetudini dei collezionisti, che prediligono quadri, fotografie e sculture da mostrare nelle loro case. Si affida ad atti che hanno una funzione disturbante: disorientare, scuotere, talvolta ferire. Siamo dinanzi a una pratica ambigua. Da un lato, si celebra la centralità assoluta dell'autore: l'opera si dà solo in quanto esibizione della corporeità. Dall'altro lato, si tende verso una profonda smaterializzazione: si mette in discussione l'idea dell'arte come feticcio da vendere.
Ma cosa resta di una performance? Talvolta, alcune reliquie. Spesso, «resoconti» filmici o fotografici: grazie alla video-recording, fondata su riprese, zoomate e primi piani, è possibile conservare memorie di rappresentazioni effimere. Questa necessità di «conservazione» rivela le contraddizioni sottese alle opzioni dei performer. Per un verso, l'urgenza di spingersi verso territori inesplorati. Per un altro verso, il legame con un bisogno che, da secoli, accompagna gli artisti: restare nel futuro, continuare a vivere, lasciare impronte di sé. Del resto, l'artista autentico - anche il più nichilista - come ha scritto Javier Marías, è sempre animato da una speranza: «Lasciare una qualche traccia del suo passaggio sulla Terra».

da: Corriere della Sera, 20 marzo 2012, p. 45

venerdì 30 marzo 2012

Se un commesso di Palazzo Madama guadagna 4 volte chi dirige gli Uffizi

di Gian Antonio Stella

Se il guadagno misura il merito, dirigere gli Uffizi è un lavoro da 1.780 euro? Lette le denunce dei redditi dei ministri e degli alti burocrati di Stato, i direttori di alcuni dei musei più importanti d'Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.
A uscire allo scoperto, in calce a una lettera pubblica, sono Anna Lo Bianco, direttore della Galleria nazionale d'Arte antica di Palazzo Barberini, Maria Grazia Bernardini, del Museo di Castel Sant'Angelo, Anna Coliva, della Galleria Borghese, Antonio Natali, della Galleria degli Uffizi, Andreina Draghi, del Museo di Palazzo di Venezia, Serena Dainotto, della Biblioteca dell'Archivio di Stato di Roma e tanti altri funzionari alla guida di biblioteche e archivi e istituzioni museali che fanno grande il nostro Paese.
Il punto di partenza, come dicevamo, è la tesi espressa da alcuni esponenti del governo e altissimi grand commis di Stato dopo la (meritoria) scelta di trasparenza fatta giorni fa con la pubblicazione sul Web dei redditi e dei patrimoni. Tesi sintetizzabile così: tanta responsabilità, tanto guadagno. Con parallela citazione dell'America e delle società calviniste dove il reddito non solo non viene pudicamente nascosto come da noi (il denaro è stato a lungo «lo sterco del diavolo» sia per i comunisti sia per i cattolici) ma al contrario esibito, a riprova della affermazione professionale.
Un po'quello che ha detto Paola Severino. La quale, a Liana Milella che le chiedeva se non fosse imbarazzata per i sette milioni di euro denunciati, ha risposto: «No, perché guadagnare non è un peccato se lo si fa lecitamente producendo altra ricchezza e pagando le tasse. A questi redditi sono arrivata solo dopo anni di duro lavoro, supportato da tanta passione».
Fin qua, par di capire, i direttori dei musei ci stanno: è il mercato, bellezza. E le alternative inventate finora, vedi socialismo reale, non hanno dato risultati incoraggianti... Ma perché lo Stato dovrebbe dare 395 mila euro lorde al direttore generale della Consob (che poi ne prende altri 95 mila da membro della Commissione di garanzia per gli scioperi) e undici volte di meno al direttore del museo fiorentino che ospita la «Nascita di Venere» di Botticelli e la «Maestà di Santa Trinità» del Cimabue, «l'Annunciazione» di Leonardo da Vinci e la «Maestà di Ognissanti» di Giotto?
Perché 519.015 euro lorde di pensione all'ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini e 32.535 (cioè 16 volte di meno: sedici volte!) ad Anna Lo Bianco che guida la Galleria nazionale d'Arte antica e per 1.765 euro netti al mese (un quarto di quanto prende un commesso di Palazzo Madama di pari anzianità) porta il peso di custodire e valorizzare la Fornarina di Raffaello, il ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni e quello di Enrico VIII di Hans Holbein e «Giuditta che taglia la testa ad Oloferne» di Caravaggio? Che senso ha che lo Stato tratti con tanta disparità, a capocchia, figli e figliastri?
All'estero non va così. I «pari grado» dei nostri dirigenti, in Francia, Gran Bretagna o Australia, guadagnano il doppio se non il triplo. La stessa Spagna, per dire, nonostante sia in crisi quanto e più di noi, paga i direttori dei più importanti musei dai 50 ai 60 mila euro. Questione di rispetto. Questione di «merito».
Da qui la lettera di «outing», che val la pena di riportare parola per parola: «Tra tanti che sentono il dovere della trasparenza a proposito dei propri redditi, vogliamo ora proporci anche noi, archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari, funzionari con compiti complessi che spaziano dalla gestione del personale al fund raising, alla direzione di musei, fino a incarichi altamente specialistici come la cura di mostre, grandi restauri o la redazione di pubblicazioni scientifiche».
Ebbene, proseguono con amara ironia i firmatari della protesta, «non raggiungiamo i duemila euro al mese; ed è lo stipendio vero, che non prevede nessuna indennità, nessun altro tipo di compensazione. A noi il merito quindi di bilanciare la media europea contro l'eccesso di compensi dei parlamentari, dei manager di Stato e non, di professori universitari. Nel nostro caso gli stipendi si collocano molto al di sotto».
Peggio, insistono: «Un bel giorno, ormai alcuni anni fa, la riforma Bassanini stabilì fortissimi aumenti di stipendio solo per i dirigenti del ministero dei Beni culturali con contratti di tipo privatistico, allargando a dismisura la differenza tra i prescelti e non, con una conseguente e inevitabile soggezione dei primi nei confronti della politica. Saremmo curiosi di sapere come ci apostroferebbe il giornalista Vittorio Feltri che nel corso di una trasmissione televisiva definiva "scherzosamente" barboni i parlamentari per i loro compensi, in fondo di modesta entità se confrontati a tanti altri. E vorremmo anche sapere cosa pensano il presidente del Consiglio Monti e il ministro Severino che con rigore ritengono il denaro il giusto compenso al merito».
Ed ecco la conclusione: «I nostri meriti - spiace dircelo da soli - sono elencati in densi curricula e in un'altissima specializzazione che ci viene a parole continuamente riconosciuta. Ma allora come la mettiamo visto che anche il nostro ministero, pur avendone la possibilità, non ci ha riconosciuto nessuna progressione dimostrando così di non conoscerci e chiedendoci ancora oggi, la fotocopia del diploma di laurea e di perfezionamento?»
È stata questa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il dicastero dei Beni culturali ha appena avviato una specie di concorso che dovrebbe portare a una modesta (cento o centocinquanta euro) progressione meritocratica degli emolumenti. Ma per farlo ha chiesto ai suoi stessi direttori, archivisti, funzionari, archeologi, storici dell'arte, architetti e bibliotecari di fornire un incartamento con dentro non solo tutti gli incarichi di lavoro effettuati ma addirittura il certificato di laurea che, ovviamente, già possiede in qualche cassetto. Una piccola, stupida, crudele umiliazione burocratica supplementare.

da: Corriere della Sera, 9 marzo 2012, p. 29

giovedì 29 marzo 2012

Il vero incontro è «originale»

Che cosa cercano i turisti al museo? Sacralità e fantasmi

di Carlo Sini

Nel 1936 Walter Benjamin aveva già capito tutto: nel tempo della riproducibilità tecnica l'opera d'arte perde fatalmente la sua «aura», cioè quel fascino, caratterizzato da una misteriosa presenza e lontananza, che è proprio di tutti i capolavori delle cosiddette belle arti. La ragione è in fondo semplice. Anche nell'età moderna l'opera d'arte ereditava e riviveva, a suo modo, l'origine ancestrale della espressività umana: un'origine legata al senso magico, rituale e sacrale dell'esistenza. È questo «quid» magico, la sua capacità di dar corpo ai fantasmi, il segreto dell'aura che sembra abitare le opere, rendendole al tempo stesso simulacri e feticci dell'originale.
Nell'oscurità della cella dimora la statua del dio o della dea, sottratta agli sguardi indiscreti dei profani ed esibita ai fedeli in processione solo nei giorni speciali della festa. È nel travestimento dei coreuti e degli attori, simulacri della selva e del cielo, che gli dei e gli eroi si esibiscono allucinatoriamente sulla scena. Tutta la nostra grande arte si è generata da qui, sacralizzando, non più il dio evocato nel feticcio, ma l'opera stessa. Se si voleva conoscere Tiziano e Raffaello, bisognava fare voti e mettersi per via, come i pellegrini di un tempo che volevano vedere Santiago de Compostela o la certosa di Pavia.
E tuttavia la riproducibilità tecnica, come dice Benjamin, era già in cammino. Da tempo immemorabile l'alfabeto aveva dato corpo alle parole e ai pensieri e nel Rinascimento la stampa diffondeva anche figure e immagini come riproduzioni dell'originale in centinaia di copie. È proprio l'idea della copia, tecnicamente costruita, l'origine della «smagicizzazione» del mondo, come disse Max Weber.
Cartesio, per esempio, voleva costruire una copia dell'uomo fatta di terra e, per gratitudine della scoperta di una nuova scienza che sarebbe nata dai suoi geniali esperimenti mentali, prometteva un viaggio votivo alla Madonna di Loreto: curioso intreccio di antico e di moderno. Ma quando la riproducibilità tecnica diviene, in un certo senso, la realizzazione compiuta del feticcio, cioè, come dice la parola, del suo essere «facticius», un idolo fabbricato ad arte, proprio allora anche l'originale (o, se preferite, il suo fantasma) scompare per sempre. Prossimità e lontananza svaniscono e lasciano il posto alla semplice e inerte presenza dei «prodotti» nel supermercato. Quale sarebbe mai infatti l'originale di un prodotto commerciale, di un rasoio come di un'automobile? Tutt'al più si può parlare di prototipo, dove il riferimento al tipo, alla serie, già la dice tutta.
Ecco allora che l'arte, nella società industriale, esce dal segreto della sua cella e si esibisce senza pudore alla portata di tutti (Platone, pensando alla scrittura, già diceva che si prostituisce nei quadrivi). L'opera d'arte diviene merce per il consumo di massa. Ecco il volto della Gioconda che sembra sorridere sulle magliette, o la faccia ridotta a fumetto di Marilyn Monroe, e le immagini in schiera delle lattine di Coca Cola e della zuppa Campbell. Questa consapevole dissacrazione dell'arte operata da artisti come Andy Warhol segna il nostro tempo. E non solo la nostra passione merceologica, ma anche la nostra possessione analitica guida il lavoro «critico». Pensate alla furia strutturalista che viviseziona il «Canzoniere» di Petrarca riducendolo a un corpo anatomico fatto di ricorrenze statistiche di parole, di procedimenti grammaticali e sintattici, di figure retoriche: Laura e l'aura se ne vanno insieme (com'erano venute). La medesima sevizia analitica, condotta tecnologicamente all'estremo confine del microscopico e dell'invisibile, si può esercitare sul corpo materiale di un quadro, di un monumento, di un passaggio orchestrale e così via.
L'arcana sacralità delle opere d'arte, il loro sempre fallito e sempre rinnovato tentativo di esprimere, nelle parole e nelle immagini dell'uomo, il linguaggio di Dio e la verità del mondo, vengono meno nella nostra epoca efficiente e smarrita. Benjamin se ne angosciava; ma non perdeva la speranza. Forse la massa di turisti che affolla ogni giorno il Louvre o gli Uffizi, venendo da tutte le regioni del pianeta, porta con sé la possibile magia di un incontro e un'occasione vivente di futuro.

da: Corriere della Sera, 29 febbraio 2012, p. 53

giovedì 9 febbraio 2012

Il paradosso dell'arte: in malora ma di Stato

di Pierluigi Battista

Che fortuna: nel labirinto burocratico-giudiziario, nel paradiso dei ricorsi e dei commi, l’Italia sta scaraventando via 25 milioni degli odiosi privati di modo che i pezzi del Colosseo in via di sgretolamento per mancato restauro restino saldamente nelle mani dello Stato. Che fortuna: grazie agli acrobati del cavillo, agli ideologi del dirigismo statalista che non scende a patti con quel mostro sociale che sono i «privati», l’Italia non diventerà come gli altri Paesi civili, dove i privati, addirittura incentivati da una demenziale e capitalistica politica di detrazioni fiscali, contribuiscono alla manutenzione e al buon funzionamento di musei, biblioteche, opere d’arte, gioielli architettonici. Poveri ma di Stato, rimarremo sempre.
Le opere d’arte in malora, ma in malora pubblica, nell’attesa che una sentenza del Tar confermi la sentenza di un altro Tar, che si appoggi su una sentenza della Corte dei Conti e che a sua volta si ispiri a una sentenza del Consiglio di Stato: il tutto in una manciata di inutili e paralizzanti lustri.
Volete mettere il lamento straziante di chi è professionalmente adibito a mungere 1′assistenzialismo di Stato, a supplicare per un’elargizione pubblica, una sovvenzione, una clientela foraggiata, una burocrazia culturale più pingue? Bisogna occupare il Teatro Valle per chiedere piogge di denari statali alla cultura, mica usare quei 25 milioni di euro che il gruppo di Della Valle ha messo a disposizione per restaurare il Colosseo e salvarlo dal cedimento che quel grande anfiteatro sta vivendo ogni giorno, pezzo dopo pezzo. Dovessero mai altri privati, altri borghesi danarosi, emulare quell’esempio e contribuire a salvare, chissà, Pompei, o i musei che chiudono con le casse vuote, oppure le chiese e i palazzi e i capolavori dell’arte di cui è ricca l’Italia e che si stanno dissolvendo, nell’indifferenza generale ma, per fortuna, nella mani dello Stato impotente e onnipotente, squattrinato e in rovina ma pur sempre «pubblico». C’è sempre la carta bollata di un ricorso, per fortuna del nostro Paese in disfacimento artistico ma pur sempre disfacimento pubblico, a bloccare nei piccoli borghi, nelle cittadine più decentrate, una borghesia diffusa che forse, chissà, per senso del prestigio, per vanità, per dare un segno della propria presenza, per consegnare il proprio nome alla posterità, per senso civico, potrebbe pur contribuire a un moderno mecenatismo che sopperisca alla mancanza di fondi dello Stato e in più fornisca carburante a un senso dell’appartenenza, della comunità, ormai sbiadito.
C’è sempre un’«istanza superiore» a bloccare tutto, ma non il degrado delle rovine che si disfano per l’incuria pubblica, per la piccineria culturale di un ceto politico e sindacale (è la Uil che ha bloccato tutto) che manda in malora i beni culturali pur di conservare il feticcio del monopolio di Stato. Nella distruzione dei monumenti che muoiono ogni giorno. Pubblici però, non privati.

da: Corriere della Sera, 16 gennaio 2012, p. 35

giovedì 26 gennaio 2012

Che città vogliamo

di Marco Romano

Che Milano vogliamo? Il Pgt, che avrà comunque negli anni come esito finale la forma visibile della nostra città, quella costituita dagli edifici che verranno costruiti con le sue norme, non ce lo ha detto e non sembra ce lo dirà mai. Qualche giorno fa su queste colonne Gianni Biondillo ha segnalato con giusta irruenza lo scempio che va profilandosi davanti al Cimitero Monumentale, il doppio sgorbio della demolizione di un palazzo esistente che gli amanti della buona architettura vorrebbero venisse lasciato in eredità ai nostri figli - perché possano continuare ad ammirare i loro predecessori - e della ricostruzione al suo posto di un nuovo palazzo di dimensione e di aspetto offensivi.
Ma a queste rimostranze - che sempre su queste colonne mesi fa avevo del resto sollevato sulla nuova lottizzazione della cascina Merlata - il sindaco ha sorprendentemente obiettato che il progetto era stato approvato dal consiglio comunale, sottintendendo che le procedure della democrazia siano garanti della bellezza. E invece non è così, perché quello che molti di noi vorrebbero è che la discussione sul Pgt avesse come preliminare un chiarimento proprio su questo aspetto: se l'esito delle norme edilizie è la forma della città, la nicchia entro la quale i suoi cittadini dovrebbero avere il piacere di vivere, allora è il caso di mettere in primo piano quali siano i criteri condivisi della sua bellezza, una discussione i cui esiti non sono oggi neppure intravisti dal nostro sindaco e dal consiglio comunale.
Ma la bellezza visibile è la sola eredità che i nostri figli riceveranno, quella bellezza che continuiamo a cercare nei quartieri antichi delle nostre città, quelli che a Milano vediamo distruggere e che vorremmo fare rivivere in quelli nuovi dei quali continuiamo a replicare il tanto deprecato squallore. La bellezza di una città è da secoli in Europa un campo sostenuto da regole che tutti i cittadini conoscevano fino a cinquant'anni fa e che ancora conoscono - seppure forse in modo inconsapevole - quando mostrano di apprezzare appunto i quartieri antichi e di criticare quelli moderni, un apprezzamento del resto rispecchiato dai valori immobiliari. Queste semplici regole sono elementari, sono le sequenze di strade e di piazze, di passeggiate e di square, di giardini pubblici e di monumenti, strade e piazze che non impediscono il sorgere di grattacieli moderni, come quello del Centro svizzero, come la torre Velasca, come quello della Pirelli, che i milanesi hanno subito amato.
Regole troppo semplici, si dice, per il mondo contemporaneo: l'irrompere del capitale finanziario comporta, si dice, una città senza regole - un Pgt flessibile - così da permettere a questo capitale non soltanto di avere distrutto con la recente crisi economica la nostra ricchezza materiale, ma anche la nostra ricchezza spirituale, la bellezza della nostra città: come chiunque può accertarsene sulle rovine della vecchia Fiera e delle ferrovie Varesine, anche i consiglieri comunali.

da: Corriere della Sera - Milano, 17 gennaio 2012, p. 1