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giovedì 30 agosto 2012

Il paesaggio preso a schiaffi

di Ernesto Galli Della Loggia

Trascorrere qualche giorno in Calabria - dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola - significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.
Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.
Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro - questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana - per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e - perché no? - una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?
Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.
Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque). D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace - fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti - se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.
Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.

da: Corriere della Sera, lunedì 27 agosto 2012, pp. 1 e 30


domenica 5 agosto 2012

"Ho messo le mie mani nelle mani di Leonardo"

intervista di Alberto Mattioli a Cinzia Pasquali

Mettere le mani su Leonardo, sperando che non tremino troppo. Per restaurare uno dei quadri più celebri della pittura occidentale: la Sant’Anna . Dopo anni di studi preparatori e polemiche preventive, il Louvre ha deciso finalmente di procedere. Il risultato è esposto nella Hall Napoléon fino al 25 giugno in una mostra sponsorizzata da Ferragamo che mette insieme, per la prima volta, tutto quel che esiste intorno al capolavoro: lettere, schizzi, copie, ventidue disegni prestati dalla Regina d’Inghilterra, le versioni d’atélier che raccontano i ripensamenti di Leonardo sul capolavoro e poi la sua influenza su quelli che verranno, da Delacroix a Degas, da Odilon Redon a Max Ernst. L’idea è quella di far entrare il visitatore nella testa di Leonardo, o almeno nella sua bottega. Alla fine, si rivede una Sant’Anna uguale e diversa. Nell’incredibile «sfumato» delle montagne dietro questa Sacra famiglia con due madri è spuntato un villaggio, il manto della Vergine è una colata di lapislazzulo e i suoi piedi sono delicatamente immersi nell’acqua. Il merito è di Cinzia Pasquali, una signora romana di nascita e francese di vita, sorridente ma, si capisce, determinata. Le mani su Leonardo le ha messe lei.

Perché e come è stata scelta?

«È stata fatta una gara, una procedura insolita decisa dal Louvre e dal C2rmf, il Centro di ricerca e di restauro dei musei di Francia. C’erano sette concorrenti e beh, ho vinto io. Era il luglio del 2010».

Cos’ha pensato?

«All’inizio, di aver capito male, perché mi avevano dato la notizia per telefono ma la lettera di conferma tardava. Poi ho realizzato, ho misurato la responsabilità e mi sono messa a studiare tutto quel che si sapeva su questo quadro. Fortunatamente nel ’94 erano stati fatti dei test in vista di un restauro che però non s’iniziò mai».

Poi ha cominciato a pulire...

«Usando una tecnica nuova, un gel messo a punto da Paolo Cremonesi. Non volevamo eliminare del tutto le vernici che si sono sovrapposte nei secoli e ossidate, ma assottigliarle. Un restauro dev’essere reversibile. Diciamo che questa Sant’Anna durerà per i prossimi cinquanta o settant’anni. Poi si vedrà».

Il problema, naturalmente, era quanto togliere.

«Ho sempre lavorato sotto il controllo di una commissione scientifica internazionale cui venivano sottoposti i vari test e che si riuniva ogni due o tre mesi. La discussione tra chi voleva un alleggerimento leggero e chi voleva una pulizia più in profondità è stata animata. Alla fine, come sempre, si è trovato un compromesso».

Ma lei personalmente cosa ne pensa?

«Io sarei andata anche più in profondità. Ma si è deciso di lasciare un bel po’ di quella che, molto impropriamente, si chiama patina del tempo».

Tuttavia ci sono state polemiche.

«Due membri della commissione si sono dimessi. Uno era contrario al restauro fin dall’inizio, quindi non si capisce perché avesse accettato di farne parte. Un’altra perché era affezionata alla Sant’Anna come l’aveva sempre vista».

Finita la pulitura, lei ha ridipinto.

«Non lo dica neanche per scherzo. Ho solo reintegrato alcune piccole lacune, per esempio alcuni buchi lasciati da insetti».

Più preoccupata dal togliere o dall’aggiungere?

«Certamente dal togliere. Se si leva uno strato di troppo, è perduto per sempre».

Le sorprese sono state molte. Quella che l’ha commossa di più?

«Trovare i segni delle mani di Leonardo, insomma le sue impronte digitali. Spandeva il colore con la punta delle dita. Del resto, lo faccio anch’io».

Quanto tempo ha vissuto con Sant’Anna?

«Un anno e mezzo, tutti i giorni dalle 8.30 alle 18. Questo quadro è stato un grande amore, anzi una grande ossessione. Me lo sognavo di notte».

Le piacerebbe restaurare la Gioconda ?

«Certo! E credo anche che avremmo delle sorprese. In mostra c’è la Gioconda del Prado, una copia che ha colori molto più vividi e luminosi. Credo che se la restaurassimo, la Gioconda vera risulterebbe molto simile alla copia».

Lei ha messo le mani dove le metteva Leonardo. Che idea si è fatta di lui?

«Credo che fosse un grande nevrotico. Non finiva mai nulla perché era sempre alla ricerca di qualcosa che gli sfuggiva, a caccia di un’ideale talmente elevato da risultare inafferrabile».

Ultima domanda: adesso che il lavoro è finito, cosa prova?

«Soprattutto, un’enorme ammirazione per Leonardo. Il genio è lui».

da: La Stampa, 28 marzo 2012, p. 35