Pagine

domenica 23 maggio 2010

La Bibbia in classe. Corso alle superiori nelle ore di italiano

di Marco Garzonio

Come l'Eneide, l'Iliade, L'Odissea anche la Bibbia entra nelle scuole. È stato firmato il protocollo d'intesa tra Ministero dell'Istruzione e Biblia (associazione laica e aconfessionale che da anni lavora al progetto) e una commissione mista è all'opera per predisporre proposte e materiali da inviare a tutti gli istituti dopo l'estate.
L'innovazione è di portata storica. Si promuoverà infatti la conoscenza della Bibbia all'interno delle diverse materie e in percorsi interdisciplinari. Verranno offerti strumenti didattici e persone competenti per mostrare ai ragazzi come il testo sacro ha permeato opere letterarie, filosofia, arte, storia ed è vivo in esse. Da un punto di vista tecnico non verrà introdotta una nuova materia, né sarà toccata l'ora di religione; di fatto si creeranno le condizioni per aggiornare contenuti e svolgimento dei programmi. Secondo una prima ipotesi ministeriale l'esperienza pilota dovrebbe essere riservata al biennio delle superiori all'interno delle ore di italiano.
Il proposito, insomma, è far ritrovare le radici spirituali del pensiero e delle espressioni poetiche, risalire alla fonte originale là dove i geni dell'umanità hanno tratto materia e ispirazione, creare nessi e scoprire risonanze. Dar spazio alla Bibbia è un modo per destare curiosità negli studenti, dare spessore a insegnamenti che spesso sembrano lontani dalle domande di senso dei giovani. E son tante: anche se loro possono essere goffi o smodati nell'esprimerle, così da creare negli adulti alibi all'incapacità di stare ad ascoltarle e, soprattutto, a comprenderle. Gli effetti di questa moderna rivoluzione pedagogica sono destinati a coinvolgere i nostri figli, certo; ma possono investire i modi della convivenza oggi. In un'epoca in cui pare prevalente la logica del conflitto, proporre la Bibbia nella scuola è porre le premesse per ristabilire una verità spesso in ombra: Ebrei, Cristiani, Musulmani vengono da lì; dal Libro per antonomasia tutti traggono valori religiosi e umani insieme. Attraverso i riferimenti al testo sacro si possono certo ricostruire diversità, vicende di tensioni e di scontri, ma la frequentazione della pagina ispirata da Dio, il misurarsi con l'attualità del suo messaggio, è anche l'occasione per stare assieme, ritrovarsi, dialogare, individuare riferimenti e progetti comuni. L'esperienza insegna come l'approccio diretto alla Parola divina, il silenzio e il clima di preghiera da essa suscitati avvicinano nel profondo. Sono le teologie, invece, ad indossare spesso l'elmetto, a creare le condizioni per cercar di tirare Dio dalla propria parte, appropriarsene e mettergli una casacca, autocandidarsi ad essere unici interpreti autentici.
Portare la Bibbia nella scuola, senza creare una nuova ora, né pensare a concorrenze con l'insegnamento confessionale della religione cattolica può costituire un'opportunità preziosa per diffondere un messaggio di cittadinanza condivisa, di ricerca pacifica in un destino comune, se l'approccio sarà quello giusto, fatto di grande competenza e di libertà. Sul primo termine del binomio sembra non vi siano dubbi. Alle spalle del movimento promosso da Biblia stanno personalità quali mons. Gianfranco Ravasi, Giuseppe De Rita, Claudio Magris, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Amos Luzzatto, Margherita Hack, Tullia Zevi, per citare solo alcune delle oltre diecimila firme apposte al primo appello a sostegno dell'iniziativa. Ma anche il riferimento alla libertà sembra garantito. I due protagonisti, il Ministero e gli esperti di Biblia, metteranno a disposizione materiali e anche una qualche risorsa, ma saranno poi i singoli istituti, in omaggio all'autonomia didattica, a decidere di recepire l'invito e di fare proprio il nuovo corso. Presidi e insegnanti, certo, ma anche genitori, famiglie, associazioni che in qualche modo si muovono intorno al mondo della scuola dovranno dimostrare di crederci. E chissà mai che non siano forse gli studenti stessi per primi a chiedere che l'occasione sia colta al volo. Ricambiando la fiducia che viene riposta in loro.

da: Corriere della Sera, 18 maggio 2010, p. 26

Metodo Dorfles: sguardo e pensiero

«Per capire l'arte servono scarpe, occhio, sensibilità. Non teoria»

di Pierluigi Panza

Il piacere di seguire e orientare per più di sessant'anni le «oscillazioni del gusto» (dal titolo di un suo celebre libro del 1958) è stata un'esclusiva di Gillo Dorfles. Bisogna emergere come figura di critico in ancor giovane età (diciamo quella in cui oggi i «giovani» possono al massimo elemosinare un contrattino), ed essere dotati di una salute di ferro, perché le proprie capacità intellettuali e sensibili possano essere messe così a lungo al servizio degli appassionati d'arte sui giornali e nelle università. Dorfles ha avuto inoltre l'opportunità di sperimentarle su una palestra privilegiata come la Biennale d'arte e di architettura di Venezia (dove è stato anche commissario e curatore del Padiglione italiano), di cui ha seguito per sessant'anni le esposizioni e le conseguenti oscillazioni del gusto, che oggi potremmo definire polverizzazioni. Oscillazioni filtrate alla luce di quelle personali di Dorfles, che nel corso degli anni ha modificato - ma non cambiato - il suo modo di sentire e raccontare le arti e gli oggetti.
«Le prove veneziane sono una prova del fuoco per un critico», racconta Dorfles, che ripensando oggi alle valutazione fatte nel corso dei decenni ritiene di aver visto bene: movimenti come Corrente, da lui osteggiato, hanno avuto uno spazio sempre più marginale nella storicizzazione dell'arte mentre artisti come Fontana e Dorazio, da lui sostenuti, hanno via via assunto un ruolo rilevante.
La figura del critico è stata da lui interpretata come quella del conoscitore che orienta il gusto, nel suo caso senza abbracciare codificati metodi critici definibili per scuole (che chiama «vuoti teoreticismi»). Anche quando, per brevi stagioni, semiologia, psicologia e sociologia sembravano elementi fondativi dell'attività critica militante, Dorfles si è sempre sorretto a una sorta di «critica empirica, fondata sulla sensiblerie». Anche quando questa ha creato una distanza con il parere della doxa: «Quando vedo Maurizio Cattelan e Damien Hirst io non resto scandalizzato».
Il pregio di Dorfles alla Biennale (Gillo Dorfles, Inviato alla Biennale 1949-2009, a cura di Anna Luigia De Simone, Scheiwiller) è quello di essere stato, innanzitutto, un cronista colto del nuovo. Nessun movimento o tendenza - dada, neo-dada, pop, op, arte cinetica, action painting, comic strip, tutto quello che è passato... - è sfuggita al suo retino. Della Biennale, infatti, Dorfles ha sempre privilegiato la sua qualità di vetrina «di ciò che sta avvenendo» non luogo di retrospettiva e nemmeno di revisione critica: «Mi sembra senz'altro opportuno - scrive Dorfles - che la Biennale continui ad assumere delle posizioni di punta, di fatto il compito della Biennale è questo: presentare ogni volta quello che è il panorama attuale dell'arte contemporanea» («Le arti», 1968). Lui ha così collocato se stesso nella posizione di avamposto nel segnalare l'emergere di nuove correnti e figure, poi celebrate, come, ad esempio, Mark Rothko. In un articolo su «Aut aut» del '58 parla di lui come un nuovo Mondrian e del fondatore di «un nuovo tonalismo».
I termini di confronto degli artisti esposti sono, per Dorfles, le Avanguardie storiche - sua vera cartina al tornasole - e i grandi maestri, come Klee, Kandinsky e Mondrian. Una costante del Dorfles biennalista è l'attenzione non solo al tema della singola rassegna, ma un'osservazione puntuale dei singoli padiglioni dei vari Stati, senza timore di giudizi negativi.
La sua Biennale n.1 è la XXIV, la prima dopo la Guerra (1948-'49), quella della riscoperta delle Avanguardie. Espongono Picasso, Braque, Chagall e Klee, mentre l'arte italiana è impegnata ad «entrare nella modernità», anche con i metafisici Campigli, Marini e Scipione.
Una riflessione del '54 rivela la precocità di Dorfles nel registrare lo sfarinamento di ogni restrittivo e definitorio sistema delle arti. È vero che, nei suoi articoli sottintende come arti le tre cosiddette «arti del disegno», ovvero pittura, scultura e architettura. Ma fin dal '54 Dorfles intuisce quella che potremmo definire la stagione «liquida» dell'arte e degli oggetti: «Oggi sarebbe meglio chiamare la scultura arte visiva tridimensionale», scrive. E il tema della vastità di tutto ciò che «si può chiamare arte» va di pari passo con quello della contingenza dell'espressione: «Il fatto che l'esaustione di movimenti come la pop, l'op, l'environnement, avvenga nello spazio di un biennio, non deve sorprendere perché è tipico della nostra epoca» scrive Dorfles. Che si lamenta, semmai, quando avviene il contrario, quando si restringe troppo il campo o non si sperimenta il nuovo, come registra nella XXXVI edizione del '72: «Non si può fare una Biennale guardando al passato»!
La dimensione politica non è centrale in Dorfles, ma nemmeno assente. La sua denuncia sull'arretratezza delle espressioni dei Paesi dell'Est, «dove la ricetta realista è ancora imperante», e le sue osservazioni contro l'accademismo di alcuni Paesi come l'Egitto sono già degli anni Cinquanta. Tanto che alla Biennale del dissenso del '77 Dorfles non appare molto sorpreso: già sapeva e aveva detto della fatica dei giovani dell'Est ad emergere sotto l'oppressione del blocco comunista. Qualche appunto si trova contro la spartizione partitocratica negli enti culturali italiani: «...se la spartizione politica delle cariche cessasse di inquinare questa morta laguna...» («Corriere della Sera», 1983).
Il rapporto fondamentale dell'arte con la tecnologia è indagato sin dal 1964 (XXXII Biennale) in una breve riflessione su «Il Ponte». Dorfles recepisce il valore della tecnologia per l'universo estetico in almeno due direzioni. La prima è quella benjaminiana: l'arte è entrata nell'epoca della riproducibilità tecnica per cui disegno industriale e fotografia non sono esperienze estranee all'orizzonte estetico. Una dimensione che Dorfles accentuerà concentrando, in anni più recenti, la sua attenzione su oggetti e comportamenti. La seconda riguarda l'uso di elementi della tecnologia come forme espressive rappresentative della nostra epoca, quando, come nel Gruppo 70, «il lato tecnologico interviene come aspetto semantico».
Emergono nelle sue riflessioni anche indicazioni di rotta. Ad esempio, suggerisce di non affidare il Padiglione italiano a un solo curatore, ma a un carnet di critici per renderlo pluralista. Dall'analisi dell'ultima Biennale, emerge un invito a riconsiderare il ruolo della pittura nella società contemporanea: alcuni video e installazioni delle ultime edizioni sono a lui parsi eccessivi ed arbitrari (l'ultima Biennale apprezzata da Dorfles è quella curata da Harald Szeemann). Infine un richiamo: è inutile pensare di moltiplicare le Biennali per il mondo! Ce n'è solo una, ed è quella di Venezia.

da: Corriere della Sera, 19 maggio 2010, p. 39

giovedì 13 maggio 2010

prova di questionario

Questa è la prima domanda

Opzione1.1
Opzione1.2
Opzione1.3

Questa è la seconda domanda. l'opera

Opzione2.1
Opzione2.2
Opzione2.3
Opzione2.4

Rispondi alla terza domanda con vero o falso

 
V
F
Prima opzione vero
Seconda opzione falso
Terza opzione falso
Quarta opzione vero

Questa è la "quarta" domanda: confronto

Opzione4.1
Opzione4.2
Opzione4.3 lunga
Opzione4.4
Opzione4.5

Questa è la quinta domanda: ordine cronologico

Opera1
Opera2
Opera3

Questa è la sesta domanda: riconosci l'opera





Michelangelo «spiritualista»

di Michele Dolz

Il 13 ottobre 1449 Paolo III si ar­rampicò per l’ultima volta sui ponteggi della Cappella Paolina nel Palazzo Apostolico, che egli ave­va voluta affrescata da Michelange­lo. I due grandi dipinti, di oltre sei metri di lato, non erano ancora ulti­mati ma splendevano già della po­tenza figurativa del genio, non di­versa da quella mostrata nel grande Giudizio Universale. Papa Paolo ri­cordava bene il fasto con cui aveva scoperto otto anni prima quella che chiamava «Parusia della Seconda Venuta», ma non sarebbe arrivato a inaugurare i nuovi affreschi, perché morì un mese dopo. Quella volta, sugli spalti, aveva trovato un Miche­langelo stanco, rattristato, si direbbe quasi invecchiato. Ma sereno. Il 27 febbraio 1547 gli era morta Vittoria Colonna, la donna con la quale ave­va trovato un’intesa intellettuale e spirituale profonda. Il Condivi scris­se: «Egli amó grandemente la Mar­chesana di Pescara, del cui divino spirito era inamorato, essendo al­l’incontro da lei amato sinceramen­te (…) A Roma se ne venne non mossa da altra cagione se non di ve­der Michelagnolo; e egli all’incontro tanto amor le portava che (…) per la costei morte più tempo se ne stette sbigottito e come insensate». Le let­tere, le poesie e i disegni scambiati tra i due ne sono eloquente testimo­nianza.
Ora con tempestiva accortezza do­po il restauro degli affreschi, Crispi­no Valenziano pubblica una serrata analisi dell’opera, che vuole andare alle sue radici teologiche: San Paolo e San Pietro di Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano (Libre­ria Editrice Vaticana, 101 pagine, 14,50 euro). Intanto si può essere d’accordo, come molti hanno già in­dicato, nel vedere il ritratto del tor­mentato artista nei volti di san Pao­lo caduto dal cavallo e di un perso­naggio che medita, come in dispar­te, nella crocifissione di san Pietro.
Molto assomigliano al Nicodemo della Pietà di Firenze. Quell’uomo e­ra stato nominato da poco capo del­la Fabbrica di San Pietro e, dal cuore della cristianità, seguiva con atten­zione lo svolgersi del Concilio di Trento, apertosi nel 1545. Nel feb­braio 1546 era morto Lutero.
Una domanda relativa a questo pe­riodo michelangiolesco ha attraver­sato la storia dell’arte: il circolo di Vittoria Colonna aveva tendenze protestanti? A volte sembra una do­manda strumentale all’intorbida­mento delle acque nell’arte cristia­na. Certo è che un cenacolo della Colonna veniva chiamato a Roma, che se ne parlasse a favore o contro, la «chiesa viterbese». Ma leggendo le lettere si scopre che il gruppo spicca­va semmai per una spiritualità molto forte e intima e per una apertura menta­le non comune nella Roma dell’epoca: «…aspettar con pre­parato animo sub­stantiosa occasione di servirvi, pregando quell Signore, del quale con tanto ar­dente et humil core mi parlaste al mio partir da Roma, che io vi trovi al mio ritorno con l’i­magin sua sì rinovata et per vera fe­de nel anim vostra, come ben l’ave­te dipinta nella mia Samaritana», scriveva Vittoria.
Del gruppo faceva parte anche Regi­nald Pole, cugino di Enrico VIII al quale aveva tentato d’impedire un’avventura troppo pericolosa.
Paolo III lo aveva voluto nella com­missione De Emen­danda Ecclesia, car­dinale e legato pa­pale al Concilio. Suo fu il discorso inau­gurale. Ma si dovet­te persino allontare temporaneamente perché trovò molti avversari nell’ala ri­gorosamente tradi­zionalista. Oggi si può dire che la sua posizione sul tema del momento, la giustificazione, era ben ortodossa, ma che egli era «conciliatorista», va­le a dire non trovava giusto la sem­plice respinta delle tesi luterane senza tentare neanche un ap­profondimento dialogico. Teologi­camente, la conclusione della com­missioni mista di teologi protestanti e cattolici del 1999 - purtroppo poco nota - gli ha dato ragione. Pole e I suoi amici vivevano un radicale spi­ritualismo, ma nell’obbedienza alla chiesa di Roma. Tutto ciò traspare negli affreschi. La caduta di san Paolo è il trionfo della grazia, con un Cristo che si tuffa dal cielo preceduto da una luce abba­gliante. La grazia inonda Paolo, ma la mano sinistra di Cristo indica la città di Damasco (che potrebbe as­somigliare alla Roma classica): là ti verrà detto cosa devi «fare» (le ope­re). La fede, insomma, non à mai di­sgiunta dalla carità, pena la sua stessa morte. E l’apostolato è la più grande carità. Questo sembra dire l’affresco. In quello di Pietro fu Mi­chelangelo stesso a cambiare sog­getto: non la chiamata, come voleva il papa, ma il martirio, l’opera su­prema in risposta alla fede. Entram­be furono composizioni innovative.
Un esempio per tutti i dipinti di sog­getto simile di Caravaggio, conside­rando però la versione Odescalchi della conversione di Paolo.
Notevole questa inquadratura di Va­lenziano, che va a evidenziare l’uni­co modo per comprendere la deco­razione della cappella.

da: Avvenire, 7 maggio 2010, p. 31