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giovedì 30 dicembre 2010

Il suo nome è Freud, Lucian Freud

di Richard Newbury (trad. Marina Verna)

Come ci si sente, si chiede Martin Gayford, a posare da amico, oltreché rinomato critico d'arte internazionale, per due ritratti, un olio e un'acquaforte, fatti da un artista che ancora in vita - ha compiuto 88 anni l'8 dicembre - è diventato Old Master, Antico Maestro, e il cui nonno inventò quell'altra minuziosa indagine che mette a nudo l'essere umano, la psicoanalisi? Quando Martin Gayford si propose come modello a Lucian Freud, si conoscevano già perché qualche volta avevano pranzato insieme o erano andati a un concerto jazz. «Le andrebbe di cominciare il prossimo giovedì sera?». «Ed è stato così - scrive Gayford in Man with a Blue Scarf: on sitting for a portrait by Lucian Freud, il suo libro appena uscito da Thames & Hudson, pp. 247, £ 18,98 - che attraversando lo specchio sono passato dallo scrivere di arte al diventarne un pezzo - anzi due pezzi, l'olio Man with a Blue Scarf e l'acquaforte Portrait Head -, un processo durato più di un anno e mezzo».
Per Lucian Freud tutti i ritratti sono «ritratti nudi», come Benefits Supervisor Sleeping, che, venduto all'asta per 17 milioni di sterline, detiene il record del prezzo più alto pagato per un artista vivente. Oppure Naked Portrait [Verity Brown] (2004), o Irishwoman on a bed (2003-4) o l'assistente di LF David [Dawson] and his dog Eli (2003-4), tutti dipinti contemporaneamente a Man with a Blue Scarf (2003-4) [Martin Gayford] e The Brigadier (2004), ritratto di Andrew Parker Bowles, un altro dei suoi vecchi amici. Sono questi che Freud chiama «ritratti nudi con vestiti». Negli stessi anni 2003-4 dipinse anche due ritratti di cavalli: un «nudo» dei quarti posteriori della Skewbald mare e la testa di un Grey Gelding.
«Io [Gayford] gli chiedo se il mio ritratto sia collegato a quello di David Hackney (2003), dato che sono simili nel formato e nell'angolazione. "No, nella mia testa il tuo ritratto è sempre stato collegato con quello della Skewbald mare (la puledra pezzata) che era appena finito quando la tua testa è cominciata. Ho imparato moltissimo su come dipingere in modo più libero, e sto cercando di applicare quelle lezioni"».
«Cerco di fare qualcosa di piccolo come quello che ho appena fatto. La risposta per me ideale da parte di qualcuno che abbia visto un mio lavoro nuovo sarebbe: Oh, non avevo capito che era suo», dice LF a MF. «Essere capaci di disegnare bene è la cosa più difficile - molto più difficile che dipingere, come si vede dal fatto che ci sono pochissimi grandi disegnatori rispetto al numero dei grandi pittori - Ingres, Degas, e pochi altri».
Nel 1954, l'anno in cui teatralmente passò dai lavori graficamente lineari alla pittura pura, LF scriveva: «Il soggetto dev'essere tenuto sotto la più stretta osservazione: se lo si fa, giorno e notte, il soggetto - lui, lei o esso - rivelerà alla fine il tutto senza il quale la selezione stessa non è possibile».
Gayford osserva che LF considera tutto ciò che dipinge un ritratto. «La sua peculiarità nella storia dell'arte è il suo essere consapevole dell'individualità di ogni cosa. Ha una sensibilità completamente non-platonica, per metterla in termini filosofici. Nel suo lavoro nulla è generalizzato, idealizzato o generico. Insiste sul fatto che anche gli oggetti più umili e - agli occhi della maggior parte delle persone - insignificanti hanno le loro caratteristiche. Di conseguenza il suo Four Eggs on a Plate (Quattro uova in un piatto, 2002) diventa una sorta di ritratto di gruppo».
«Scelgo i soggetti dei miei dipinti d'impulso. Dato che non sono molto introspettivo, è difficile per me dire perché sia così». Ognuno è una esplorazione in un territorio sconosciuto. «Faccio solo ciò che mi diverte, mi interessa, mi intrattiene». «Quando un dipinto è finito, spesso lo guardo e mi stupisco di tutte le tribolazioni che mi è costato». «So che la mia idea della ritrattistica derivava dall'insoddisfazione per i ritratti che assomigliano alle persone. Io invece vorrei che i miei fossero ritratti di persone. Vorrei essere chi posa, non osservarlo. Non voglio ottenere solo una somiglianza, come un imitatore, ma ritrarlo come se fossi un attore».
La conversazione durante e dopo le pose spazia dalle storie su un LF squattrinato nella Parigi del dopoguerra con Picasso e Giacometti o nel 1952 in Giamaica con Ian Fleming, che stava scrivendo Casino Royale e prese LF, che all'epoca chiudeva ogni discussione con i pugni (di qui Self Portrait with a Black Eye, autoritratto con un occhio nero), come modello per James Bond. «Pensavo che quella fosse una strana idea, ma mi battevo, il che era più di quanto lui (Fleming) non facesse. Ci fu un periodo in cui trovavo più semplice picchiare qualcuno che non averci una conversazione». LF aveva/ha anche uno straordinario successo con le donne. Aveva fatto colpo su Ann Fleming, così come su una buona metà delle bellezze di Londra, ma poi fu lei a presentargli quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, Caroline Blackwood.
E ovviamente arte e artisti. «La rassomiglianza in un certo senso non è il punto, che il dipinto abbia o no una buona somiglianza non ha nulla a che fare con la sua qualità come ritratto. Le persone ritratte da Rembrandt sono tutte simili in quanto hanno tutte una grandeur spirituale. Tutte le opere di Goya (o di Ingres e Courbet) sono piene, come tanta parte della grande arte, di una sorta di scherzosità». Questo certamente vale per LF. Lui adora l'arte francese, mentre detesta tutta l'arte italiana, soprattutto Raffaello. Unica eccezione Tiziano, che adora.
Il corpo di un artista, per LF, può influenzare la sua arte. «Picasso era basso, il che spiega i suoi nudi femminili massicci e incombenti. Era molto maligno, assolutamente velenoso, non che ci facessi gran caso. Una volta gli chiesi che cosa gli piacesse di una comune amica. Rispose: il fatto che posso farla piangere tutte le volte che voglio». LF poi rievoca il sadismo, e tuttavia la forza, nella Dora Maar Weeping della Tate, che lui nel 1942 aveva accompagnato in treno da Londra a Brighton.
Quando il ritratto di MG fu finalmente finito, con grande soddisfazione di LF, «un senso di sgonfiamento era quasi esattamente controbilanciato dal sollievo per la fine». «Un aspetto dei ritratti buoni è l'impossibilità di memorizzarli», sostiene Gayford. Dopo averlo esposto al Museo Correr di Venezia insieme con The Queen, Hockey e Parker Bowles, al Moma di New York e al Fogg ad Harvard, fu acquistato per 7 milioni di sterline da John e Frances Bowes della California.
Per MG «il quadro è il ritratto di un osservatore, rivolto verso il mondo, positivo e interessato. Invece l'incisione è il ritratto di una persona colta nell'introspezione, nell'ansia, nella tensione e nel pensiero. Ognuno, a suo modo, è un ritratto di me e forse, in certi momenti e in circostanze diverse, riflettono due aspetti di quasi tutte le persone».

da: La Stampa, 23 dicembre 2010, pp. 34-35

mercoledì 29 dicembre 2010

Kubler: l'improvvisa trasformazione del linguagggio artistico all'inizio del Novecento

Una componente importante nelle sequenze storiche di eventi artistici è l'improvviso cambiamento di espressione e di contenuto che si verifica a intervalli determinati quando un intero linguaggio formale cade improvvisamente in disuso, per essere sostituito da un nuovo linguaggio di componenti diverse e di grammatica non convenzionale. Ne troviamo un esempio nell'improvvisa trsformazione dell'arte e dell'architettura occidentale attorno al 1910. La struttura della società non manifestò alcuna rottura e la trama di invenzioni utili continuò a svolgersi passo passo in stretta successione, ma il sistema dell'invenzione artistica subì un'improvvisa trasformazione, come se un gran numero di uomini si fosse improvvisamente reso conto che il repertorio di forme da loro ereditato non corrispondeva più all'attuale significato dell'esistenza. La nuova espressione esterna che ci è oggi così familiare in tutte le arti figurative e strutturali è un'espressione corrispondente a nuove interpretazioni della psiche, a un nuovo atteggiamento della società ed a nuove concezioni della natura.
Tutti questi processi di rinnovamento del pensiero si svolsero ognuno per proprio conto e lentamente, ma in arte la trasformazione fu quasi istantanea: nacque così tutta quella configurazione che noi oggi riconosciamo come arte moderna e che non presenta che pochissimi chiari legami con il precedente sistema di espressione. La trasformazione cumulativa di tutta l'esistenza per mezzo di invenzioni utili si svolse in maniera graduale, ma il suo riconoscimento percettivo in arte per mezzo di corrispondenti forme espressive fu discontinuo, improvviso e urtante.

George Kubler, "La forma del tempo", Einaudi 2002, p. 86.

sabato 25 dicembre 2010

Sacra e civile, l’arte insegna il buon governo

di Andrea Fagioli
Il David sullo sprone di Santa Maria del Fiore, non quello di Michelangelo Buonarroti bensì una copia in vetroresina, ha per un giorno e una notte attirato l’attenzione di fiorentini e turisti. In tanti, tra il 12 e il 13 novembre, con il naso all’insù verso la Cupola del Brunelleschi, dalla parte del transetto nord, hanno ammirato incuriositi l’accigliato personaggio biblico in procinto di lanciare con la sua fionda l’attacco fatale al gigante Golia. Anzi, lassù per aria, il gigante sembrava lui, come del resto di fronte all’originale con il quale condivide l’altezza (5 metri e 17), ma non certo il peso (350 chili contro gli oltre 5 mila) pur essendo stato realizzato a ridosso di quelle Alpi Apuane (presso gli Studi d’arte Cave di Michelangelo) dalle quali proveniva quel marmo con quella venatura che nessuno voleva lavorare e che ha suggerito ad alcuni, visto il capolavoro che poi ne è venuto fuori, il parallelo evangelico con la pietra scartata dai costruttori che è divenuta testata d’angolo: il David come il Cristo.
Calato dallo sprone, il finto David ha fatto per alcune ore bella mostra di sé sul sagrato del Duomo per poi essere accompagnato davanti a Palazzo Vecchio, dove il David, quello vero, trovò effettivamente la sua collocazione, nel 1504, per rimanervi quasi quattro secoli prima di essere sostituito, anche in quella circo­stanza da una copia, e trovare una collocazione più sicura sotto la cupola di vetro della Galleria dell’Accademia in via Ricasoli.
L’opera infatti, commissionata al ventiseienne Buonarroti nel 1501 per la Cattedrale e scolpita nel cortile dell’attuale Museo dell’Opera del Duomo, venne 'dirottata' in Piazza della Signoria poco prima dell’ultimazione. A deciderlo furono i componenti di una commissione convocata dall’Opera di Santa Maria del Fiore il 25 gennaio del 1503 more florentino (1504 nell’uso comune), che discussero a lungo sulla possibilità di mutare la destinazione del capolavoro, decidendo finalmente per la posizione accanto all’ingresso del palazzo comunale dove oggi vediamo la copia realizzata nel 1882.
L’idea di riportare il David alla collocazione per cui era stato pensato si deve a 'Culter', l’associazione che ha curato gli eventi di 'Florens 2010' per la Settimana internazionale dei Beni culturali e ambientali con la consulenza di Sergio Risaliti e France­sco Vossilla, autori di due volumi (L’altro David e Metamorfosi del David) sulla statua del Buonarroti. «Il lato propedeutico - afferma Risaliti - è stato il chiodo fisso. Su questa logica si sono pensate le diverse azioni, la messa in scena generale. Si voleva arrivare a tutti, in modo da far scattare meccanismi di comprensione storica spesso trascurati nella moderna musealizzazione del capolavoro». E nell’epoca in cui tutto è virtuale, «abbiamo voluto - spiega Enrica Maria Paoletti, re­sponsabile di 'Culter' - far vedere e far toccare con mano (anche materialmente quando la copia della statua è scesa sul sa­grato) la realtà, rendendo viva in qualche modo la storia di un’opera simbolo in tutto il mondo di una città».
«Il David è tornato a casa, alle radici religiose - ­ebbe modo di commentare l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori -. Sugli sproni della Cattedrale sta benissimo. Questa è un’operazione culturale importante. Così è possibile vederlo e apprezzarlo come e dove era stato pensato all’inizio». Adesso Betori ribadisce che «le cose più belle di Firenze sono state fatte quando è stato più forte il legame tra le radici religiose e la vita del popolo». Il David, simbolo religioso che diventa simbolo civile, è l’esempio più evidente.
Ma non mancano nel capoluogo toscano altre sintesi artistiche di questo tipo, anche a livello di architettura. Basterebbe pensare al com­plesso di Orsanmichele, che più che una chiesa sembra un palazzo: «l’altissimo parallelepipedo», lo definì Piero Bargellini nelle sue Strade di Firenze (Bonechi editore), che spiega come il nome derivi da Orto di San Michele, ovvero l’orto delle monache benedettine sul quale nel Duecento sorse la prima Loggia del grano (il mercato del grano), diventato poi santuario mariano. Ma che sia chiesa e resti prima di tutto chiesa è stato ribadito anche da un accordo recente tra la Soprintendenza (la proprietà dell’immobile è infatti statale) e la diocesi, che ha ottenuto ad esempio che la chiesa ospiti solo concerti gratuiti di musica sacra, contrariamente a quanto accadeva in precedenza, salvaguardando inoltre la liturgia il sabato, la domenica e nei giorni festivi. Ma questa è storia recente.
Tornando al passato, la loggia, alla metà del Trecento non sembrò più un luogo adatto al mercato, che fu trasferito altrove. Così, nel 1380, l’edificio venne sopraelevato di due piani. Nella parte superiore fu comunque alle­stito il magazzino del grano (oggi Museo di Orsanmichele), mentre le dieci arcate della loggia vennero chiuse, grazie ad eleganti trifore in stile tardogotico e vetrate dipinte, dando origine alla chiesa, come so­stanzialmente la vediamo ancora, con l’aggiunta dei tabernacoli all’esterno. «La Madonna - scrive ancora Bargellini - vi appare, infatti, come Madre del popolo, nel granaio della Repubblica, destinato ai poveri; e i santi, che si affacciano dai tabernacoli, appartengono al cielo, ma sono in terra i patroni delle Arti», ovvero del lavoro. Non a caso è in quel luogo che i fedeli più poveri, in occasione delle carestie, si recavano per pregare ma anche per rifornirsi gratuitamente di grano. Orsanmi­chele è stato definito «il monumento più fiorentino di Firenze» per il suo carattere tra religioso e civile: chiesa e granaio, santuario e magazzino, luogo civico di mercato e nello stesso tempo luogo di culto mariano. Anche geograficamente si trova pressoché a metà strada tra il Duomo e Palazzo Vecchio, in quella via Calzaiuoli che è la più centrale ed elegante della città.

venerdì 24 dicembre 2010

L'arte? Fantasia e automatismo

di Gillo Dorfles
Accade spesso che dinnanzi a un dipinto fantasioso e alquanto convulso, il critico d'arte «di turno» constati: «Bisogna riconoscere che qui c'è molto automatismo», vuoi per biasimare o per giustificare la fattura dell'opera. E, infatti, accade spesso che l'artista, volutamente o istintivamente, si lasci guidare da un impulso del tutto irrazionale e quasi onirico, o, anzi, sfrutti questo impulso per valersene (fors'anche per fantasia carente). Nulla di male, ovviamente, se questa facoltà del comportamento viene dominata e sfruttata in favore dell'arte, anzi se permette che la stessa prenda il sopravvento sulla volontà dell'artista. Giacché, in effetti, sono diverse le modalità secondo cui può avvenire il verificarsi di un automatismo nella realizzazione di un'opera visiva (ma non solo visiva perché spesso anche un'improvvisazione musicale e poetica può godere di una condizione analoga con tutte le conseguenze positive o negative che ne derivano). Quella serie di «atti corporei» che sfuggono, anche solo parzialmente, al nostro controllo, costituiscono la principale matrice dell'automatismo e non devono essere confusi con quelli intenzionali e guidati dalla nostra coscienza; non solo, ma non devono essere assimilati con procedimenti provocati volontariamente da stati onirici o da droghe.
Occorre, a questo punto, distinguere tra due eventualità di automatismi nell'ambito artistico: quella di cui l'artista si vale come spunto da accettare, «dirigere», e finalizzare a una meta; e quella di coloro che sono succubi della stessa, sicché il risultato sfugge, almeno in gran parte, alla loro volontà e intenzionalità.
Il confine tra le due eventualità non è mai netto, ma è probabile che in ogni caso un tempuscolo non ancora concettualizzato funga da impulso motorio e da gerente d'una futura realizzazione artistica. Non basta senza dubbio appellarsi alla presenza di un automatismo - ovviamente in buona parte subconscio - (anche senza far ricorso a Freud e seguaci), per giustificare quello che spesso dipende solo dall'azzardo, piuttosto che dall'autentica fantasia, ma non c'è alcun dubbio che molte ben note opere da ascrivere a situazioni automatiche hanno la loro origine in situazioni analoghe: si pensi soltanto a Wols e a Mirò, a Pollock o a Schifano. Un recente saggio della nota estetologa Silvia Vizzardelli (Verso una nuova estetica. Categorie in movimento, Bruno Mondadori, pp. 200, 20) affronta molti degli aspetti analizzati da quella che definisce «una nuova estetica» e che sono tra i più considerati nelle ultime pubblicazioni dedicate alla «filosofia dell'arte» (da Baudrillard a Lyotard, a Susanne Langer) partendo soprattutto dalle fondamentali trattazioni di Rudolf Arnheim, appunto per i rapporti tra percezione ed espressione, e di Ernst Cassirer sui problemi delle «Forme Simboliche» e i diversi aspetti dell'immagine, e senza tralasciare il fondamentale contributo di Merleau Ponty, il quale ha «saputo cogliere con grande chiarezza la reciproca implicazione di percezione e senso, percezione e immaginazione».
D'altro canto il rapporto tra inventiva e razionalità e quello tra gestaltismo e linguistica giustificano tanto la convergenza tra bello e sublime quanto il dissidio tra ragione e istinto. Ed è proprio qui che il disaccordo si fa più intenso, soprattutto affrontando il problema dell'automatismo dal quale ha preso lo spunto - seguendo la grande lezione di Cassirer e di De Clérambault - quello che considera l'automatismo «come una modalità di funzionamento della vita mentale volta al mantenimento del passato, sempre associata a un'opposta tendenza... controllata dalla soggettività e gestita dall'autocoscienza». Ecco, dunque come, ancora una volta, dobbiamo accettare la compresenza di forze miocinetiche e di immagini fantastiche, di spontaneità corporea e di elaborazione concettuale per valutare, in misura effettiva un determinato lavoro: senza lasciarci sopraffare dall'ipotesi di un favoloso inconscio né da quella di una misteriosa valenza psicogena.
Ecco, dunque, come dobbiamo arrenderci all'evidenza di una creazione artistica di cui siamo solo in parte i responsabili, e di cui, solo fino a un certo punto, possiamo prevedere gli sviluppi. Ma, comunque, lo spunto miocinetico dell'artista sarà pur sempre diverso e migliore di quello del normale individuo. Lasciamo, dunque, che l'automatismo continui a snidare talvolta la nostra fantasia attraverso una risposta miocinetica, purché la coscienza rimanga vigile e non ci faccia stendere qualche pennellata abnorme senza che ce ne rendiamo conto (il che, poi, non sarebbe il peggiore dei mali).

martedì 14 dicembre 2010

Blu. Seduzione e mistero

di Claudio Magris
Un colore può uccidere? Nel Maestro del Giudizio Universale - geniale romanzo poliziesco del tedesco praghese Leo Perutz - un rosso insostenibile, frutto dell'allucinazione della droga e immagine della fine di tutte le cose, schianta chi lo vede. Nel trascinante romanzo di Gérard Roero di Cortanze, Il colore della paura, la ricerca di un indaco assoluto diventa la strada del male, del delitto e dell'orrore. Ma «che cos'è il colore?», si chiede Luisa Bertolini nel suo libro Il colore delle cose, aggiungendo peraltro che non è questa la domanda, quanto la difficoltà di dare un nome ai colori, di scoprirne la grammatica e, prima ancora, di indicare il colore puro, assoluto, il rosso o il verde in sé, che nessuno ha mai visto. I colori non sono soltanto una seduzione della vita e della poesia, ma sono prima ancora un'affascinante problema per la filosofia, che si è tante volte posta il problema della loro esistenza o non esistenza, del loro rapporto e del loro significato, dagli aristotelici a Kant, da Husserl a Wittgenstein. Quale è il colore di una foglia, il verde che mostra a mezzogiorno o il nero che vediamo di notte? Quando diciamo «blu» indichiamo qualcosa di reale, come quando indichiamo il peso o la massa di quello stesso oggetto che ci appare blu, oppure quella parola è solo una metafora, una traduzione che il nostro cervello fa di determinate lunghezze d'onda con cui la luce arriva alla nostra corteccia cerebrale? Traduzione sofisticatissima, visto che il grande Atlante dei colori Dumont elenca 999 sfumature cromatiche diverse che l'occhio umano riesce a distinguere.
Il colore è un protagonista non solo di tanta poesia e letteratura, ma anche di aspre contese filosofiche. Goethe riteneva che il suo capolavoro fosse la sua Teoria dei colori, la quale contestava la spiegazione di Newton. Aveva - a metà - torto, perché la luce arriva al nostro cervello come dice Newton, ma aveva - a metà - ragione, perché noi vediamo blu, rosso o verde, e non cifre che indicano le rispettive lunghezze d'onda della luce. Nessuno come Paolo Bozzi - grande psicologo della percezione, musicista e musicologo e assai notevole ancorché appartato scrittore - ha dimostrato che Goethe analizza una realtà oggettiva: noi vediamo giallo o viola e non numeri, e questo vedere - e dunque il giallo e il viola che vediamo - sono una realtà oggettiva, un'esperienza del reale e del mondo, un incontro dei nostri sensi e della nostra mente con la vita.
Parecchi anni fa, Paolo Bozzi - senza il quale non avrei forse scritto il mio Danubio, perché mi ha insegnato a vedere e a percepire concretamente le cose, temi cui sono dedicati alcuni suoi memorabili saggi - ha ripetuto all'Università di Trieste, per integrare un mio corso su Goethe, gli esperimenti di quest'ultimo, i giochi fra luci e ombre, gli effetti di rifrazione, l'accostamento di colori diversi che si modificano reciprocamente, il fenomeno per cui gli oggetti scuri appaiono più piccoli di quelli chiari della stessa dimensione. Bozzi aiuta a capire che il mondo è reale, oggettivo anche nelle cosiddette qualità terziarie; che l'azzurro significa in sé lontananza, privazione e nostalgia, anche se certo non solo questo. Fra tutti i colori, scrive William Gass nel suo trattato filosofico On Being Blue, quest'ultimo ha, insieme al verde, il più intenso impatto emozionale.
Il simbolismo del colore è un grande capitolo nella storia della cultura e talora varia da una cultura all'altra, come nelle frasi idiomatiche (in italiano, rileva Anna Maria Ferrari, si diventa verdi di rabbia, in tedesco anche blu). Forse nessun colore ha tanti e tanto contraddittori significati come il blu. Elencarli significherebbe compilare una vasta antologia della poesia e della letteratura mondiale, come emerge dal libro di Amelia Valtolina, Blu e poesia. Il romantico fiore azzurro di Novalis, immagine della poesia stessa e dell'essenza della vita, rivelazione mistico-religiosa per un altro romantico come Runge, sublimità peraltro dissacrata da Baudelaire; malinconia e infinito, astrazione delle idee e nostalgia; colore celeste e marino ma anche infero (il giacinto azzurro di Persefone); colore dell'anima ma anche colore «sacrilego» e «morente» nella poesia di Benn; colore di tante avanguardie artistiche, dal Cavaliere Blu di Kandinsky ai cavalli azzurri di Marc, da Picasso a Matisse. Colore dell'infinito e della banale ubriachezza - sono blu, in tedesco, significa essere sbronzo. Colore della tristezza (to feel blue, in inglese essere tristi; i Blues dei neri d'America. C'è infatti un cromatismo musicale, un colore dei suoni). In Cina gli ebrei venivano chiamati «musulmani blu» - visto che i mediorientali in generale erano considerati musulmani - per distinguerli, in base alla tinta del loro copricapo, dagli altri, ossia dai veri islamici. Alcuni psicologi chiamano «indigo children», bambini indaco, alcuni bambini particolarmente creativi e originali in misura perfino inquietante.
Nel romanzo di Gérard Roero di Cortanze - vitale, trascinante e sanguineo come il suo autore, prolifico e avventuroso scrittore che unisce un profondo senso dell'inquietudine contemporanea a un piglio epico da Alexandre Dumas - il protagonista, Jean Antoine Giobert, è alla ricerca del Blu assoluto. Lo cerca nelle terre che circondano il suo castello, in cui fiorisce una pianta da cui si estrae un incredibile azzurro-indaco; lo cerca in strani e occulti concorsi banditi per ottenere vari tipi di quel colore: blu sera, blu luna, blu notte, blu cielo, blu mare e così via. Questi concorsi generano misteriosamente orribili delitti, descritti con granguignolesca potenza. La cronaca e l'indagine del crimine s'intrecciano a macabre fantasie che emergono dal profondo del passato e dell'inconscio, al ricordo rimosso di un massacro della famiglia del protagonista bambino. L'infera ricerca dell'indaco perfetto si mescola alla vocazione di fenomeni occulti (sonnambulismo, ipnosi) e viene vissuta con tale ossessione da diventare il colore della pelle del protagonista e di suo figlio, simile al livido della morte.
La ricerca del Blu, dell'Indaco assoluto - la ricerca dell'assoluto tout-court - è un'ossessione mortale (come indica la pagina che qui si riporta, in cui il colore perfetto nasce dalla morte delle farfalle) quasi i colori nascessero veramente dall'ombra, come riteneva il bizzarro gesuita barocco padre Kircher, anziché dalla luce, come sapeva Newton. Ma la forza epica dell'autore riesce ad attraversare quel mare oscuro, a trovare la vita passando per le forche caudine della morte. La seduzione dell'azzurro può essere quella di un abbandono alla beatitudine dell'abisso, come nel Grand bleu di Luc Besson, oppure, come nel Film Blu di Kieslowski, quella della libertà della vita.

giovedì 9 dicembre 2010

Il museo del Novecento che accende Milano

di Carlo Bertelli

Finalmente Milano ha il suo Museo del Novecento. I 7 milioni di turisti che visitano ogni anno la città hanno ora una nuova meta, un luogo che corrisponde al mito di Milano del Novecento e che, con inedite prospettive, fa scoprire la storia architettonica della città che più città di così non potrebbe essere. Gli stessi milanesi scopriranno la loro città dalle grandi finestre del museo che racconta le glorie di un secolo che fu molto milanese.
È stato un colpo di genio, da parte di chi era preposto alla direzione delle collezioni civiche (Claudio Salsi), offrire un'alternativa all'idea tanto caldeggiata di trasferire le raccolte comunali d'arte moderna alla Bovisa e invece ha sostenuto la scelta strategica del cuore di Milano. E ancora quanto mai saggia fu la decisione di Brera di non spedire a Roma il grande soffitto che Lucio Fontana aveva creato all'Elba e che ora, insieme al grande neon che proietta un forte messaggio di modernità su tutta la Piazza del Duomo, è grande segno di una grande Milano lanciata sul futuro. «Ascolta il tuo cuore, città», aveva scritto Alberto Savinio. Questa volta è stato ascoltato. Fontana ha la sua Cappella Sistina.
Era difficile ricavare un museo nello spazio dell'Arengario. Malgrado tanta magniloquente monumentalità, l'edificio non è che una stretta quinta tra il Palazzo Reale e la breve via Marconi, mentre il suo interno era stato concepito soltanto per funzioni celebrative. Superate le difficoltà di partenza, l'architetto Italo Rota (con Fabio Fornasari) e i curatori del museo, in particolare la nuova direttrice Marina Pugliese, che con la mostra di «Alice al Castello» ci aveva già dato prova della sua capacità di manipolare le collezioni, hanno saputo dare un valore positivo a un percorso labirintico, evidenziando le particolarità di una collezione formata di tanti episodi, nei quali la creatività degli artisti operosi a Milano s'intreccia con la curiosità e il gusto dei collezionisti e con le proposte dei galleristi.
Le poche, ma significative presenze dei protagonisti stranieri dell'arte del XX secolo nelle raccolte milanesi occupano una sala introduttiva, dopo Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, l'icona che il XIX secolo consegnò al Novecento pieno di speranza. Ma 21 Boccioni, 5 Balla, 2 Carrà (uno però più metafisico che futurista), e poi Severini, Soffici, Depero, Funi, tutti in fase futurista, fanno del museo milanese una delle più ricche e varie raccolte del Futurismo italiano nel mondo. Savinio, ci dicono, è omaggiato nella casa museo Boschi Di Stefano, qui a Milano, ma certo se ne sente la mancanza accanto al suo celebre fratello, che qui, dopo un commovente capolavoro come Il Figliol prodigo, chiude con l'infelice ritratto di Isa. Arturo Martini (che del resto incominciamo ad ammirare già nei rilievi all'esterno del museo) e Marino Marini, sono qui sovrani. Marini ha finalmente abbandonato la sua incongrua sistemazione nella villa Reale e si offre con ritratti usciti dalle vetrine, persone vere che sembra di poter interrogare.
Una inventiva distribuzione degli spazi ha consentito di dare alla visita il senso di continue sorprese, allestendo sale che danno risalto ad artisti o a temi che poco si prestano ad una presentazione collettiva, come Morandi, che non solo ha una sua sala, ma è anche l'unico italiano che all'inizio del percorso si presenta con un'opera (esattamente la celebre Natura morta con palla del 1918, dalla collezione Jucker) nella sezione dei protagonisti stranieri, accostato a un Bracque della stessa data e proveniente dalla stessa collezione.
Ossessionato dai problemi della sicurezza, già allarmato dalla inevitabile pressione delle scolaresche, trovo giusto che la grande rampa elicoidale che sale dal pianoterra sia sgombra e sia stata considerata come un aereo raccordo verticale reso stimolante dalle viste sulla città. Le inquadrature di città che il museo offre ne fanno già parte. Ai vari piani si sviluppa il raggruppamento tematico, che ha la fortuna di contare su alcuni veri capolavori, come Estate di Carrà, La visita di Guidi, la Grande natura morta di De Pisis del 1944, la Scultura n. 11 di Fausto Melotti e di contare su alcune inaspettate presenze romane, come Scipione e Ziveri, Scialoja e Scarpitta.
Sarebbe stato poi molto strano che proprio Milano, dove l'arte detta cinetica o programmatica è nata, non ne presentasse esempi in una raccolta pubblica, quando è invece da sempre esposta alla Galleria d'Arte Moderna di Roma. Finalmente, con depositi temporanei e doni, Anceschi, Boriani, Colombo, Dadamaino, Devecchi, Enzo Mari, Grazia Varisco e Bruno Munari sono qui. Manca all'appello Antonio Barrese, che l'anno scorso aveva rallegrato il Natale di Milano con il suo grande albero girevole.
Milano presenta ora anche i suoi artisti viventi, come Vittorio Matino o Claudio Olivieri, la cui attività ha già occupato alcuni decenni del secolo scorso, ma non si chiude entro la cerchia dei navigli, che anzi è qui una bella scelta dei torinesi e dell'arte povera. La sorpresa del museo, le cui collezioni si erano viste per scampoli in numerose mostre, è di rivelarci alcuni tesori nascosti. La sala che compone due grandiosi Gastone Novelli con un prezioso Licini (esposto, come in una teca, in una saletta nera, ricordo delle «sale negre» del Castello e nello stesso tempo citazione di Carlo Scarpa) è un bell'esempio di museografia.
Occorre sottolineare che un museo non è una mostra che si realizza facendosi prestare in giro ciò che non si ha. Un museo è il risultato di anni di acquisti e donazioni. Il museo non possiede altro che ciò che possiede o che ha avuto in comodato. Inutile dunque dire, oggi, che al nuovo museo manca questo o quello. Nessuno più dei direttori dei musei ha desideri repressi. Ora che il museo è aperto, le donazioni arriveranno e anche gli acquisti saranno meglio giustificati. Forse non sarà più necessario che una grande collezione milanese emigri a Venezia. Il fatto nuovo per Milano è che da oggi esiste un luogo pubblico, chiaramente disegnato, bene accessibile dalla strada con i suoi due ingressi e il bookshop, dotato di un archivio consultabile e di sale di studio, con spazi per mostre periodiche e insomma con tutto ciò che distingue un museo funzionante nel resto del mondo. Dunque una macchina pronta ad essere usata. La nuova Lamborghini.

da: Corriere della Sera, 6 dicembre 2010, p. 33