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giovedì 5 luglio 2012

L'arte senza l'opera. Caravaggio è un'app

di Sebastiano Triulzi

Arte e smartphone, arte e tablet, arte e app. Ormai quasi tutti i principali musei del mondo hanno aperto le porte alla rivoluzione digitale, nel segno di una comunione tra contenuti culturali, intrattenimento e business. In tempi di tagli degli investimenti pubblici, gli organizzatori di mostre ed eventi si affidano alla tecnologia per attrarre visitatori, cercando di personalizzare quanto più è possibile l’esperienza museale. Secondo il nuovo credo, l’esibizione deve proseguire anche oltre gli spazi canonici, estendendosi ad altre superfici della città per cui vengono proposti itinerari esterni o una serie potenzialmente infinita di informazioni in grado di arricchire le conoscenze appena acquisite. In occasione della mostra sull’Espressionismo tedesco, per esempio, il MoMA ha ideato un’applicazione per iPad con una mappa multimediale di New York incui sono segnati gli studi, le gallerie, i ritrovi principali degli artisti, quasi a voler ricostruire un’altra città, un altro tempo. Mentre nella mostra che Barcellona ha dedicato a Miró,L’escala de L’evasió, accanto ai dipinti c’era un codice a barre: bastava avvicinare il proprio telefonino per aprire una pagina di Wikipedia con notizie e interpretazioni critiche(una funzione, questa, consentita anche da altri spazi museali). L’app Love Art utilizzata dalla National Gallery di Londra, invece, permette di ascoltare le spiegazioni degli esperti (in audio e su video con immagini ad alta risoluzione) ma anche di ingrandire i dettagli e osservare i disegni “nascosti” sotto un’opera.
L’applicazione ci informa poi che le immagini presentate «appartengono a tutti» e che «possiamo averle al nostro fianco in ogni momento », promettendoci un «viaggio indimenticabile nell’arte» semplicemente sfiorando un touch screen.
Questo tipo di lessico pubblicitario certamente tradisce una natura commerciale che con l’arte non dovrebbe avere molto a che fare. Del resto per lungo tempo i musei sono stati i custodi delle nostre eredità culturali e ancora oggi vi entriamo per andare a vedere un quadro, una statua, un’installazione: esiste un fondamento di idolatria, di culto dell’immagine in questo pellegrinaggio, in questa cerimonia che ha reso sacra, laicamente, la visione. Il problema è però che per farne vera esperienza c’è bisogno di una porzione di tempo che pensiamo di non possedere più.
Chi resta oggi ore a guardare un dipinto? L’idea di stare fermi davanti a un’immagine che non si muove ci pone qualche problema.
E allora il museo, divenuto luogo privilegiato del processo di smaterializzazione che il patrimonio culturale collettivo sta attraversando da circa un decennio, crea intrattenimento. Improvvisamente cambiano i riti che per secoli ci sono sembrati del tutto naturali: la lettura della targhetta col nome del pittore ci pare indispensabile, e ci sentiamo privati di qualcosa se non ascoltiamo nello smartphone la descrizione del dipinto, mentre per nulla al mondo rinunceremmo alla possibilità di condividere sui social network le foto delle opere che più amiamo. E così via, fino alle app che indicano la posizione in cui ci troviamo nel museo perché perdersi, ancorché nel regno del bello o del sublime, vuol dire anche perdere tempo.
Così per alcuni osservatori l’arte da smartphone appare semplicemente la risposta del mercato alle nostre aspettative, più o meno indotte, di intrattenimento e di conoscenza su richiesta. È indicativo in questo senso il caso del Louvre che ha affidato la suaultima guida virtuale non a un’applicazione per tablet, ma addirittura al 3DS, la console portatile di Nintendo: cinquemila macchine che i visitatori si mettono al collo mentre passeggiano verso la sala della Gioconda. Secondo altri il digitale rappresenta invece un’opportunità didattica ed educativa. Ne è convinto anche Maxwell Anderson, dell’Indianapolis Museum of Art, secondo cui i musei 2.0 somigliano più a delle agorà, a delle piazze dinamiche, per le quali andrebbe sostituito il comandamento dei secoli scorsi fondato sulla triade «collezionare, preservare, interpretare » con parole d’ordine più attuali, quali la capacità di «riunire» tanto le opere quanto le persone, e di rendere il museo un luogoche sia davvero di scambio continuo.
L’ultima frontiera la sta comunque approntando Google, col suo progetto di rifotografare le sale dei musei per poter poi avere l’impressione di esservi stati senza alzarsi dal divano. E forse un domani avremo in ogni città un palazzone dove verranno riprodotti perfettamente un mese il Louvre e un altro gli Uffizi. Del resto non siamo così lontani da uno simile scenario, se è vero che alla mostra su Raffaello a Todi erano esposte, ben incorniciate, le riproduzioni digitali dei capolavori dell’artista. Dimenticando che se è definitivo il passaggio dell’opera d’arte da oggetto materiale, concreto e misurabile a immagine intangibile in quanto digitalizzata, l’originale ha comunque una sua aura, come sosteneva Walter Benjamin. Perché non tutto è sempre e comunque riproducibile. Come una giornata appena trascorsa e che non ritorneràmai più.

da: La Repubblica, domenica 3 giugno 2012, pp. 38-39.