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sabato 26 giugno 2010

E nel museo resta solo lo scheletro

di Maurizio Cecchetti

È stato definito in vari modi, ma sempre secondo un leitmotiv che evoca la grandezza e la retorica: cenotafio, mausoleo, monumento all’ego della sua mamma, Zaha Hadid, l’architetto di origini irachene che il giorno dell’inaugurazione del Maxxi pare si sia rifiutata per mezz’ora di scendere dall’auto che la trasportava perché all’ingresso del Museo era stata disposta la gigantesca scultura Calamita cosmica di Gino De Dominicis che raffigura uno scheletro umano disteso a terra della lunghezza di oltre venti metri e col naso a becco. Scaramanzie della maga irachena a parte, si può dire che la moda museale di concepire musei che non servono per esporre le opere d’arte, ma per dare emozioni a un pubblico da luna park discende – ahinoi – da un «modello» che ha compiuto da poco mezzo secolo di vita: il Museo Guggenheim di New York progettato da F.Ll. Wright.
Si raccontano alcuni aneddoti su questo museo, ma ce n’è uno che illustra alla perfezione la mentalità con cui gli architetti, certi architetti, pensano anche oggi i musei. L’allora direttore delle collezioni Guggenheim di pittura "non oggettiva", James J. Sweneey, si rivolge a Wright e, quasi disperato, gli chiede cortesemente se l’architetto non possa pensare spazi un po’ più ampi e alti, perché lui ha da esporre quadri molto grandi e non saprebbe dove metterli. Wright, visibilmente irritato, gli chiede: quali quadri? Sweneey gliene mostra uno e non ha neanche il tempo di fiatare che Wright allunga il suo bastone da passeggio e squarcia la tela. «La mia architettura non ha bisogno di quadri», pare sia stata la risposta di Wright, e bisogna dire che se uno si trova al Guggnheim e sale la lunga spirale trovandosi sempre col pavimento in una certa inclinazione rispetto alla visione del quadro, beh, potrebbe anche esser che alla fine si trovi d’accordo con l’architetto americano (Mario Vargas Llosa, l’anno scorso, parlando del Museo di Jean Nouvel per le arti e le culture extraeuropee, voluto da Jacques Chirac a Parigi, scriveva che «se si togliessero dall’interno i 3.500 pezzi etnologici e artistici, l’edificio non perderebbe nulla perché, per quanto mostra e rappresenta, ciò che contiene è indifferente, se non superfluo»).
È bene non dimenticare che il Museo di Wright si rivelò lungo gli anni insufficiente per contenere le collezioni della Guggenheim newyorkese, così nel 1992 si aggiunse un corpo di fabbrica progettato da Gwathmey Siegel and Associates, un alto e grande parallelepipedo che pesa come una lastra tombale sull’edificio di Wright. Così, dopo i fasti di Bilbao, la Fondazione Guggenheim ha commissionato a F.O. Gehry un nuovo Museo per New York, che a causa delle difficoltà economiche per ora tarda a decollare. Del resto, Gehry si sente l’erede più vicino al grande padre Wright, e Bilbao ha imposto il suo «brand» architettonico a una quantità di altri edifici espositivi e non solo, tanto che qualcuno ha dato un nomignolo a questa moda: «Bilbaoism». In realtà, se nell’edificio di Wright agiva un impulso poetico, nella spettacolarizzazione museale contemporanea non va vista soltanto una moda estetica, ma il prodotto di una strategia di merchandising che fece i primi passi quando Thomas Krens salì sul trono della Fondazione Guggenheim e vi restò per vent’anni fondando – come scrisse Charles Jencks – una «nuova religione» di cui il museo era la cattedrale, ovvero mise in pratica l’idea del «museo globale come pacchetto immobiliare».
E qui veniamo al Maxxi e al Zaha Hadid. Criticandone la concezione come «flusso di energie», che genera un cortocircuito di punti di vista e di spazi, Germano Celant, che ha stretti rapporti con Guggenheim e Gehry, ritiene che l’edificio di Zaha Hadid esprima un’estetica «liquida e ondulatoria» tipica della cultura virtuale e tecnologica di oggi. Sarà, ma se uno segue i percorsi interni del Maxxi sembra quasi che il museo nasca come polemica disarticolazione dell’idea continua, grandiosa e «inutile» del Guggenheim di Wright, dove alla rampa che sale prendendo una forma a spirale, portandoci a un certo punto vicino al cielo che si spalanca dal grande occhio-lucernaio, si sostituisse al Maxxi una serie di cul-de-sac, di segmenti «tronchi», fluidi certamente, caotici volutamente, ma anche dispersivi. Il Museo di Wright è un tempio per qualcosa che mescola ambiguamente etereo ed eterno, vacum e spirito, sacralità e aura estetica. Quello di Zaha Hadid – che vi s’ispira proprio nel percorso ascendente sotto forma di rampa – ha la prosaica valenza di spazio «indefinito», da plasmare apparentemente, dove però si esce convinti di aver attraversato uno scalo aeroportuale, con le sue tante vetrine, i servizi, le proposte commerciali.
Nonostante la spesa folle – cento milioni di euro (senza completare tutto il progetto) – il Maxxi ha delle pecche anche costruttive nella cura dei particolari: gli scalini di zinco a griglia offrono un’immagine povera e sciatta in un insieme che invece aspira al gigantismo tecnologico; i parapetti dei percorsi sopraelevati sono rivestiti di lastre che hanno subito deformazioni e mostrano fessure fra un elemento e l’altro... Cose che saltano all’occhio di primo acchito, ma è probabile che altre sciatterie esecutive emergerebbero da uno sguardo più dettagliato.
E siamo a De Dominicis. Praticamente è la prima mostra antologica di una certa ampiezza, cento opere, di questo artista «magico», che sfugge a facili classificazioni. Una mostra, curata da Achille Bonito Oliva (catalogo Electa), che contrasta la volontà dell’artista, il quale ebbe sempre verso il proprio essere nel mondo un atteggiamento paradossale. Anche la sua morte, dichiarata il 29 novembre 1998, assomiglia più a una scomparsa che a un decesso. Lo sguardo da mago ipnotizzatore, l’eleganza dei modi e del gesto, il sogno perenne della morte come immortalità: vedi lo scheletro con pattini a rotelle che tiene al guinzaglio lo scheletro di un cane e sull’indice della mano destra un’asta dorata in equilibrio, celebre opera del 1969 che s’intitola Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, o l’uomo down che alla Biennale del 1972 sedeva immobile sotto gli occhi increduli del pubblico, e i numerosi ritratti di figure con naso lungo e appuntito che sono diventati il logo che identifica De Dominicis, il suo autoritratto, la sua icona d’artista divino che portando alla luce il paradosso, visivo o linguistico, dichiara l’inconsistenza della distinzione tra superficie e profondità, fra sostanza e apparenza, nella realtà che ci circonda e ci proietta nell’universo, quasi per dire che anche ciò che è piccolo, o accidentale, è capace di produrre uno stallo nel moto «universale», o una sua discontinuità, magari usando i mezzi minimi dell’arte. È una mostra che fa capire la grandezza anche pittorica di un genio che venne sempre guardato come uno stravagante, mentre sapeva bene ciò che cercava; eppure, è una mostra che dissacra il mito, diluendolo lungo i percorsi afasici e sacrificati (sacrificali?) di questo museo, dove la pendenza della «passeggiata» interna non riesce mai a evocare e a favorire l’anabasi interiore ed estetica; anzi, disperde e priva dell’aura un artista che andrebbe guardato con l’occhio contemplativo, e il tempo-ritmo necessario alla pittura sacra, per quanto, egli, sia e rimanga un artista «naturale», uno che cercava la magia naturalis nascosta nelle cose.

da: Avvenire, 22 giugno 2010, p. 24

venerdì 25 giugno 2010

I restauratori fanno il «lifting» alla donna del Veronese

di Pierluigi Panza
Visti i tempi grami, i restauratori d'arte devono aver pensato di trasformarsi in chirurghi estetici. Non si spiega altrimenti come un viso di donna raffigurato nella «Cena in Emmaus» del Veronese (1559-1560), tela appartenuta al cardinal Richelieu e ora al Louvre, più che a una pulitura sembra esser stato sottoposto a un lifting. Il naso da nobildonna dipinto dal Veronese è diventato infatti, sotto i ferri dei conservatori, un nasino - obbligato dirlo - alla francese. Per altro, l'intervento di rinoplastica è avvenuto in due fasi: nella prima i restauratori hanno realizzato il nasino francese poi, forse accortisi dell'improprietà, lo hanno rimodellato.
Michel Favre-Félix, presidente dell'Associazione per la salvaguardia del Patrimonio Artistico di Parigi, ha accusato i restauratori: «Veronese aveva immaginato una madre di nobile famiglia, quasi una eco della Vergine Maria, ed è stata trasformata in una caricatura di un adolescente del ventunesimo secolo, con le guance gonfie e un broncio ridicolo». Descrivendo poi il tentativo di correggere il primo restauro come una «tacita ammissione» di «errori grossolani», ha dichiarato al Guardian che il museo si è rifiutato di riconoscere il secondo restauro. Critiche sono piovute anche da Michael Daley, direttore di Art Watch, che ha parlato fotografie che sono «prove incriminanti», di restauratori che si comportano come «chirurghi d'immagine» che fanno più male che bene. Per Daley, la bocca presenta ora labbra più «gonfie e informi», il naso è «affilato» e con «una narice grottescamente grande».
Per un confronto disciplinare, abbiamo raccolto qualche impressione dal chirurgo estetico Mario Goisis: «Il restauratore ha agito come un chirurgo plastico, ringiovanendo il volto. I segni del tempo, come le borse sotto gli occhi, la riduzione dell'angolo tra il naso e il labbro superiore e lo svuotamento delle guance sono mascherati e corretti: la donna appare più giovane». Un intervento, insomma, che non fa bene sperare in vista del 18 giugno, quando una commissione del Louvre si riunirà per decidere se restaurare la «Madonna col Bambino e Sant'Anna» di Leonardo Da Vinci. Se questa è la linea, s'impongono numerosissimi interventi: la riduzione della rottura del setto nasale nel «Federico da Montefeltro» di Piero della Francesca; la mastoplastica al seno e la lipoaddominoplastica per le veneri di Tiziano; la liposuzione per «Le tre grazie» di Rubens... Ovviamente ormoni per la «Donna barbuda» del Ribeira...

Tre immagini che mostrano le diverse fasi del restauro: la situazione iniziale, al termine del restauro e dopo la correzione finale.


domenica 20 giugno 2010

Archeologia: musei a picco

di Alessandro Beltrami

A guardarlo sembra il grafico dei mercati mondiali degli ultimi anni segnati dalla crisi. E invece è quello dei visitatori dei musei e dei siti archeologici. Il trend negativo degli istituti museali italiani è un dato che prosegue ormai dal 2007: nel 2008 gli accessi totali nei musei statali erano stati 33.105.281, lo scorso anno sono stati 32.344.810, con un calo del 3% (e -6% rispetto all’anno precedente). Ma quello dell’archeologia sembra accelerare la parabola negativa. 16.816.125 erano stati i visitatori nel 2006. Nel 2008 e nel 2009, elaborando i dati disponibili sul sito del Ministero dei Beni e della Attività Culturali, sono stati rispettivamente 14.777.083 e 14.085.563. Una falla che si fa più ampia per quanto riguarda gli introiti: 57.706.449,58 nello scorso anno contro i 62.964.998,81 del 2008, per un calo dello 8,5%.
Certo, il rilevamento del Mibac, in quanto limitato agli istituti statali, non tiene conto dei beni gestiti dagli Enti territoriali che in alcune regioni sono nettamente prevalenti o addirittura esclusivi, come nel caso della Sicilia e del Trentino Alto Adige. Ma anche in questo caso i dati non sono più confortanti. I Musei Capitolini, ad esempio, di proprietà del Comune di Roma, sono stati visitati nel 2008 da 516.420 contro le 452.232 del 2007: -12,4%. In calo anche gli accessi ai gioielli della Magna Grecia: i visitatori della Valle dei Templi di Agrigento sono stati nel 2007 663.889 e 616.503 nel 2008, con un saldo negativo del 7,1%; l’area archeologica di Neapolis a Siracusa è passata da 591.793 a 537.018 con un -9,3% di visite.
Nella top 30 segnalata dal Mibac sono 12 i musei, monumenti e aree legati all’antichità. Tra 2008 e 2009 solo il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, le cui collezioni sono tra la più importanti a livello mondiale, e gli scavi di Ercolano hanno fatto un salto in classifica passando il primo dal 15° al 16° posto con 314.001 contro i 290.748 del 2008 mentre la città vesuviana ha fatto un balzo dal 20° alla 18° posto e da 245.573 a 274.814 visitatori.
Il 2009 era stato però l’anno nero dei rifiuti in Campania: nel 2007 il Museo partenopeo aveva staccato 357.032 biglietti mentre gli scavi di Ercolano erano stati visti da 301.786 persone. Un lieve segnale di ripresa che però non ha nemmeno sfiorato Pompei. Che dai 2.545.670 visitatori del 2007 è passata ai 2.233.496 del 2008 fino ai 2.070.745 dell’anno scorso: in due anni si è volatilizzato il 18,7% del pubblico. Gli incassi sono crollati del 20,1%, passando dai 20.477.198,55 euro del 2007 ai 16.369.854,70 del 2009. Complessivamente i dodici musei e siti archeologici della top 30, che comprendono tra gli altri il Museo Egizio di Torino, Villa Adriana a Tivoli, le Grotte di Catullo a Sirmione, sono passati dai 10.159.413 visitatori e 60.336.887,77 di euro di incasso nel 2008 ai 9.775.056 visitatori 55.719.151,19 euro di incasso del 2009. Rispettivamente -3,8% e -7,7%.
Sul territorio italiano è stimata la presenza di circa 1.800 siti e monumenti archeologici, senza contare i musei specifici e quelli che incorporano al loro interno sezioni dedicate alle antichità. Un’offerta culturale che (secondo le elaborazioni del Touring Club) è frequentata da 21,6 persone su 100 almeno una volta all’anno. Il problema è che una manciata di siti cattura la grande maggioranza dei visitatori. Gli scavi di Pompei e, a Roma, il sistema di Colosseo, Fori e Palatino e il Pantheon hanno avuto nel 2009 da soli 8.440.148 visitatori, pari al 59,9% del totale. E infatti Colosseo e scavi pompeiani sono in cima alla classifica del Mibac. Se vi fosse incluso, il Pantheon si piazzerebbe al terzo posto, scalzando dal podio gli Uffizi.
Quello che il nostro Paese non riesce a fare è valorizzare il suo patrimonio diffuso, specie nell’Italia meridionale, dove il patrimonio archeologico si presenta come (l’ennesima) risorsa sottoutilizzata. E se possono forse far sorridere le poche decine di visitatori dell’area archeologica di San Severino Marche o del Parco archeologico di Siponto, certo è che sono spie della difficoltà in cui si trova la cultura italiana. Sempre più spesso si ricorre alla politica dei commissariamenti (il riallestimento del museo di Reggio Calabria è stato affidato alla Protezione Civile).
Una delle soluzioni ciclicamente prospettate è l’intervento dei privati. «Questa attenzione alla valorizzazione e al ruolo dei privati nella gestione del patrimonio culturale italiano – analizza il Dossier Musei 2009 del Touring Club Italiano – si è focalizzata, però, quasi esclusivamente sui musei e sui siti dei grandi numeri come gli Uffizi, gli scavi di Pompei o il Colosseo e concentrandosi, forse troppo, su quella fetta di utenza fatta da turisti stranieri che ogni anno visita le "icone" del Bel Paese».
Tutta colpa quindi dello schiacciamento della valorizzazione culturale sulle logiche del marketing? Esiste anche un problema di comunicazione da parte dei musei a un pubblico diversificato. Lo rivela uno studio realizzato dal Centro Studi Gianfranco Imperatori dell’associazione Civita, presentato lo scorso febbraio in un convegno e in un volume edito da Giunti.
L’indagine, che ha portato alla luce un pubblico composto soprattutto da donne (il 56,4%) comprese tra i 25 e i 44 anni, ha evidenziato giudizi problematici sugli allestimenti, che appaiono «dispersivi, sovrafollati di oggetti, complessi». Anche se giudicati coerenti dal punto di vista scientifico sono ritenuti scarsamente fruibili, tanto da far apparire in alcuni casi l’istituzione "distante" dalle esigenze del pubblico. Chi si dice poco o per nulla soddisfatto di pannelli informativi, guide o audioguide è in media il 14% del pubblico. L’accumulo di opere fa sì che i visitatori si soffermino per un periodo relativamente breve davanti alle opere.
Lo studio ha rivelato che ai Musei Capitolini il reperto a cui un visitatore dedica in media tempo maggiore è quanto resta del tempio di Veiove: 32 secondi. Seguono la Venere Capitolina con 29 secondi, il Galata morente con 27 e la fontana di Morforio con 24. Alla Vecchia ebbra solo 13. Dopo di lei è una semplice passeggiata tra marmi preziosi e i gatti che sonnecchiano su l’alluce del colosso di Costantino.

da: Avvenire (on line), 16 maggio 2010

domenica 13 giugno 2010

Astratto in chiesa: ma chi lo capisce?

Nell’arte liturgica si alternano scarsa preparazione e snobismo di chi corre dietro alle mode

di François Boespflug

Il primo compito nell’ordine delle urgenze consiste secondo noi nel ripartire risolutamente dal concilio Vaticano II prendendo finalmente sul serio non solo quanto concerne lo spazio liturgico, l’altare e il mobilio, ma più globalmente l’orientamento indicato in generale alle belle arti nella Costituzione sulla liturgia. Vi si dichiara fra l’altro che «la Chiesa non ha mai fatto suo alcuno stile», ma che accoglie volentieri tutti gli stili nella misura in cui si prestano a servire la liturgia. Vi si parla anche, forse per la prima volta nella lunga storia dei discorsi della Chiesa sull’arte, del «ministero» di quest’ultima e del suo ruolo potenzialmente teologale, ben al di là del livello puramente funzionale o decorativo in cui si sarebbe talvolta tentati di confinarla, almeno in Occidente. L’importanza di questa dichiarazione non è certamente ancora stata percepita nel suo giusto valore; o se lo è stata, oggi non lo è più. Rari sono i rimandi a questo testo negli scritti relativi all’arte religiosa della nostra epoca. Alcuni teologi fra gli specialisti (poco numerosi) dell’arte sacra cristiana del XX secolo lasciano tranquillamente intendere che questo testo conciliare è ai loro occhi ampiamente superato e non più degno di vero interesse, in quanto non sarebbe all’altezza delle sfide del momento per non aver saputo valutare il cammino dell’arte nell’ultimo secolo. Mi permetto di essere di parere contrario. La dichiarazione conciliare costituisce un principio dalle molteplici applicazioni e rimane senza equivalenti nella lunga storia dei discorsi magisteriali sull’arte. (...) D’altro lato è chiaro che se i rapporti fra le comunità cristiane e l’arte devono ridiventare toniche ed esigenti, non ci si potrà limitare alla prospettiva generosa ma pur sempre alquanto vaga espressa dal Concilio, che è essenzialmente una prospettiva di accoglienza per quanto, si precisa, condizionale. C’è indubbiamente qualcosa di più e di meglio da fare. «Accoglienza » è diventata la parola magica per una concezione minimalista dei rapporti fra la Chiesa e le arti, a dispetto delle sue arie di apertura e di generosità. La «condizionalità» è una clausola che rischia di applicarsi solo a posteriori: e allora sarebbe troppo tardi. È piuttosto a monte, nei momenti chiave della concezione e della commissione dell’opera destinata a luogo di celebrazione liturgica, che importa che gli artisti e i rappresentanti della Chiesa si incontrino e confrontino i loro punti di vista.
Ciò implica non solo che la Chiesa impari nuovamente a commissionare e a formulare le sue attese invece di limitarsi a dire «io assumo», «io accolgo», «io compero», ma anche che si accerti che gli artisti suscettibili di lavorare per essa siano capaci di farlo in conoscenza di causa e siano stati sufficientemente formati alla bisogna. Ma quali sono gli artisti che accettano di entrare in tale pro­spettiva, e quale istituzione è in grado di proporre loro una formazione? La Chiesa cattolica deve imparare nuovamente a spender tempo e denaro per formare dei chierici nel solco degli stretti e complessi legami che per secoli sono esistiti fra essa (la sua liturgia, la sua catechesi, la sua missione) e le arti. A quando l’inserzione nelle facoltà di teologia di una vera formazione all’iconografia cristiana, e più generalmente alla lettura dell’immagine, che non sia una semplice spolveratura omeopatica? (...) Un altro compito sarebbe prendere in considerazione e pensare teologicamente il venir meno delle figure del Dio cristiano nell’arte moderna e contemporanea. Si tratterebbe di pensare lo svanire del volto nell’arte del XX secolo; di tornare una volta di più sulla questione di sapere quali possono essere ora i rapporti del cristianesimo con la figura. Hans Urs von Balthasar era del parere che «solo quel che comporta una figura può trasportare e tuffare nel rapimento (…) Senza figura l’uomo non può essere afferrato né trasportato. Ed essere trasportato è l’origine del cristianesimo». Ci si può tuttavia chiedere se il problema è ben posto. Si può pensare che la vera posta in gioco nel mantenimento o nella dimenticanza della figura in generale e del volto in particolare sia altrove piuttosto che nel «rapimento », versione un po’ barocca di una delle tre funzioni tradizionalmente assegnate all’arte religiosa («commuovere, far ricordare, istruire»). Un ulteriore obiettivo sarebbe denunciare il fossato che si va scavando fra l’arte d’avanguardia e la gente (non solo i cristiani). Essa decisamente non capisce più. Anche con la miglior buona volontà, anche quando si sente in dovere di aggiornarsi per avere qualche occasione di capire, non riesce proprio a seguire. Subentra una pesante stanchezza, molto smobilitante: si finisce per abituarsi a non capire, ben presto si cesserà di sentirsi colpevoli o stupidi per questo.
Converrebbe dunque chiedersi perché quanti hanno la responsabilità di decidere, nei musei, nei ministeri o nella Chiesa, con il pretesto frutto di sollecitazione ma fraudolento che è quello che vuole la gente, o con il pretesto che bisogna aprirsi alla modernità, privilegiano tanto e in modo così unilaterale «il rapporto con la cultura » (sottinteso: d’avanguardia) senza tenere in alcun conto la sensibilità reale e le attese della gente e senza rendersi conto che rischiano di accreditare «un bluff gigantesco». Trascurando certe forme culturali che non possono più mostrarsi, ne favoriscono arbitrariamente altre, in particolare «l’arte di Chiesa-Stato » (la separazione ha qui ceduto il posto alla collusione), forme che non hanno alcuna possibilità di ricezione nel popolo di Dio. È forse un effetto della paura profonda, tanto più imperiosa in quanto incosciente, di «perdere l’autobus», di non riuscire a imbarcarsi nell’ultimo treno culturale in partenza? Checché ne sia, quest’obiettivo implica rendere la parola e una certa visibilità a tutti quegli artisti che lavorano nell’ombra e che pur controcorrente continuano senza provare vergogna e senza nascondersi (ma anche senza ostentarlo) a ispirarsi alla Bibbia, alla liturgia e alla teologia. Sono più numerosi di quanto si pensi. Ma chi si cura di andare incontro a questi soldati semplici dell’arte? Chi sono?Dove sono recensiti? Dove si fa memoria di quanto essi hanno creato dal 1950? Quali sono i luoghi che osano dedicar loro le proprie strutture? Essi non tengono a esser chiamati «pittori religiosi». Non importa: è certamente grazie a loro, lo si scoprirà un giorno, che prosegue, al di là delle rotture annunciate e proclamate, la vasta storia delle forme di cui la Bibbia rimane «il grande codice».

da: Avvenire, 3 giugno 2010, p. 29

giovedì 10 giugno 2010

Ruspe, cavi e mattoni: contestato a Pompei il restauro del Teatro

di Alessandra Arachi

Già il rumore non lascerebbe dubbi: i martelli pneumatici producono quelle vibrazioni perforanti inequivocabili. Ma poi basta scavalcare una piccola recinzione (facilissimo, non c'è un custode in giro nemmeno a pagarlo oro) ed ecco che sì, diventa complicato credere ai propri occhi. I martelli pneumatici diventano quasi un dettaglio nel terribile cantiere del Teatro Grande di Pompei, invaso da betoniere, bob kart, ruspe, cavi, levigatrici e chi più ne ha ne metta. Nel condominio sotto casa vostra sarebbero più prudenti nel fare i lavori.
E invece qui, roba di archeologia del II secolo avanti Cristo, gli operai si muovono in mezzo alle rovine come elefanti dentro una cristalleria e a cercare un responsabile di tutta la baracca si trova soltanto «il geometra Pasquale», così almeno è capitato a noi nella giornata di ieri quando i martelli e le ruspe erano in piena azione sotto gli occhi di turisti attoniti.
Lo hanno chiamato «il restauro» del teatro. Ma adesso che i lavori sono quasi finiti, è l'Osservatorio del patrimonio culturale che è entrato in azione. Una lettera a Sandro Bondi, ministro per i Beni Culturali per denunciare «l'evidenza della gravità degli interventi».
Scrive Antonio Irlando, responsabile dell'Osservatorio, al ministro: «La gravità è facilmente e banalmente dimostrabile, in particolare della cavea, che, rispetto ad una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura». E basta un giro attorno al teatro per crederci. Oppure per non riuscire a credere ai propri occhi.
A guardarlo adesso il Teatro Grande di Pompei sembra uno scherzo. Un'illusione informatica di chi si è divertito a giocare con un'immagine. Come quando, chessò, si mettono i baffi alla Gioconda. E invece è tutto vero. E adesso Marcello Fiori, il commissario straordinario di Pompei, mette rapidamente le mani avanti: «Quello è un progetto redatto dal precedente soprintendente Pietro Giovanni Guzzo e approvato dalla direzione generale del ministero per l'Archeologia, dal segretario generale, dal capo gabinetto del ministero, dal capo gabinetto della Regione Campania. Nel teatro così restaurato suonerà il 10 giugno il maestro Riccardo Muti».
È arrivato quindici mesi fa a Pompei, Marcello Fiori già dirigente in aspettativa dell'Acea, è l'ex braccio destro di Guido Bertolaso alla Protezione civile: è stato lui l'uomo che ha controllato tutti i lavori del G8 all'Aquila, oltre ad aver fatto il commissario straordinario del termovalorizzatore di Acerra. Adesso Fiori è diventato un dirigente del ministero dei Beni Culturali, grazie ad un decreto per le emergenze utilizzato dal ministro Sandro Bondi, e sta gestendo i fondi per il ripristino di Pompei, circa 110 milioni di euro, più o meno, per decine di cantieri aperti in mezzo agli scavi.
Come e gestiti da chi, questi cantieri, non è dato saperlo. Perlomeno ci hanno provato a chiederlo i dirigenti sindacali, senza successo. Gianfranco Cerasoli della Uil ha inutilmente inviato lettere e lettere al commissario Fiori per avere lumi sull'elenco dei lavori, delle forniture, delle consulenze, dei servizi, contestando i ribassi delle gare per l'aggiudicamento dei lavori che per le rovine di Pompei sono arrivati anche al 40%.
«Non spetta a Cerasoli farmi queste domande», ha così risposto ieri il commissario Fiori, seccato. E altrettanto seccata è stata la risposta di Cerasoli: «Fiori è semplicemente obbligato contrattualmente a dare le risposte nella logica della trasparenza».
Fiori si è dichiarato «comunque disponibile a far vedere quello che serve, l'elenco di tutti i lavori e di tutte le procedure adottate». E sarebbe interessante vederle le procedure. Soprattutto capire quali sono stati i criteri adottati nel ripristino dei disastrati scavi di Pompei, visto che alla fine di febbraio è stato lo stesso direttore degli scavi di Pompei, Antonio Varone, a scrivere un'accorata lettera al commissario Fiori.
Segnalava Varone a Fiori «un notevole numero di edifici di Pompei antica che versano in condizioni di degrado statico», ma anche pregandolo «per l'incolumità del pubblico di provvedere alle identificazioni di murature ad immediato pericolo di dissesto statico».
Quei problemi statici sono ancora lì. In compenso ora le strade a ridosso di Porta Stabia, lungo la via delle tombe pullulano di allegri cartelli colorati «Friendly Pompei», c'è scritto a segnalare un percorso di visita agli scavi realizzato con colate di cemento lungo la strada archeologica: adesso non si vedono più le lastre antiche. Ma si vedono i grandi cartelloni che segnalano la possibilità di visitare i meravigliosi cantieri della Casa dei Casti Amanti, sistemati con bob kart e betoniere, a dispetto della promessa di fare soltanto scavi a mano.
Comunque sarebbe stato bello fare una visita in questi cantieri tanto celebrati. Ieri, chissà perché, erano assolutamente inaccessibili. Chiusi al pubblico.

da: Corriere della sera, 25 maggio 2010, p. 23

domenica 6 giugno 2010

Milano dà il via libera a Cattelan

di Elisabetta Soglio

Il sindaco Letizia Moratti dà il via libera alla installazione di Maurizio Cattelan, la mano con il dito medio alzato, che verrà collocata in piazza Affari, davanti alla sede della Borsa. Rispetto alle perplessità per questa scelta, inizialmente sollevate da parte della maggioranza di centrodestra, la Moratti pare oggi più morbida: «È ironica, è spiritosa, è arte. E l'arte non può essere imbavagliata. Anche la finanza in questo momento di crisi ha bisogno di un po'di ironia». Di certo, invece, il cavallo imbalsamato con la scritta Inri sparirà dal catalogo della retrospettiva dedicata al controverso artista: «Ne ho parlato con l'assessore Finazzer e non mi pare ci siano problemi a questo proposito. Si sono confrontati, lui e Cattelan, e hanno trovato un accordo».
Conferma l'assessore Massimiliano Finazzer Flory: «Non ci sono problemi e sapevo di poter contare sull'intelligenza e l'amore per la cultura del sindaco». Unico punto su cui la Moratti non è precisa è la sede destinata ad ospitare la retrospettiva, dal momento che lei stessa nei giorni scorsi aveva suggerito che si traslocasse da Palazzo Reale al Pac: «Stiamo semplicemente studiando - minimizza il sindaco - una linea culturale per ogni sede che gestiamo, ragionando sulle destinazioni di questi luoghi espositivi chiusi».
Il caso Cattelan, il secondo nella storia del Comune di Milano dopo quello suscitato dai bimbi impiccati esposti nel 2004, era stato sollevato la scorsa settimana durante una riunione di pre-giunta. La delibera che dava l'incarico a Cattelan era stata ritirata dagli assessori presenti all'incontro. Oltre alle perplessità sulle due opere, il dito e il cavallo, era stata la stessa Moratti a suggerire che, quanto meno, la personale venisse traslocata da Palazzo Reale al Padiglione d'arte contemporanea. Se Cattelan aveva risposto ricordando di essere stato cercato dal Comune, l'assessore Finazzer si era poi assunto la responsabilità della scelta, che aveva difeso al punto di minacciare, in alternativa, le dimissioni. Fra l'altro, la scultura di piazza Affari rientra in un progetto che coinvolgerà dieci piazze milanesi e dieci grandi artisti: ognuno di loro proporrà un'installazione «per rompere l'ovvietà del nostro spazio urbano e uccidere i nostri pregiudizi».
Il via libera della Moratti non pare però destinato a mettere del tutto a tacere le polemiche in seno alla coalizione che guida. Già ieri, ad esempio, il capogruppo della Lega, Matteo Salvini, ha stigmatizzato la decisione: «Prima i bimbi impiccati, adesso un dito medio alzato. Milano farebbe volentieri a meno di una pseudo-arte che in realtà è solo business e lucra sulle porcherie. Un assessore alla Cultura dovrebbe difendere cause più importanti: con tutti i problemi che hanno i nostri musei, le compagnie di teatro, le associazioni, i movimenti, ci perdiamo dietro a Cattelan? Mi pare molto triste per tutta Milano, spero che almeno l'assessore sia soddisfatto della sua grande trovata».
Va all'attacco anche il critico Vittorio Sgarbi, predecessore di Finazzer in giunta: «Finazzer segue la moda e punta sui soliti noti». Spietato anche il suo giudizio su Cattelan: «Io non l'avrei voluto a Milano, perché è soltanto un provocatore che ha fatto fortuna. Deve la sua fama al leghista che tolse dall'albero i tre fantocci impiccati: dovrebbe ringraziarlo ancora oggi ed essere contento così». Per questo, Sgarbi si appella al sindaco Moratti: «Se ha cacciato me per due geni come Witkin e Saudek, non si può tenere uno che le propone un dito medio alzato davanti alla Borsa».

da: Corriere della sera, 24 maggio 2010, p. 27

venerdì 4 giugno 2010

Scontro in Comune sugli alberi di Renzo Piano

di Andrea Senesi

Il sogno in verde di Renzo Piano sfuma davanti alle porte di Palazzo Marino. Niente soldi, sugli alberi si alza bandiera bianca. Ieri è stata rottura tra dirigenti e funzionari del Comune e lo staff dell'architetto genovese. Riunione tesissima. Alla fine, di fronte all'impotenza economica del Comune, la resa. Spiega Letizia Moratti: «Noi siamo disponibili a finanziare 150 alberi in centro. Ma non sull'intero progetto da 15 milioni per 3.500 piante». Il nodo della questione? Gli sponsor. I finanziatori privati che avrebbero dovuto coprire i costi dell'operazione. Secondo il Comune però sarebbe toccato ai promotori del progetto trovarli. Opposta la versione del comitato di Renzo Piano (dove siedono il giurista Guido Rossi, l'ingegner Giorgio Ceruti, l'architetto Alessandro Traldi, il paesaggista Franco Giorgetta, la coordinatrice Alberica Archinto): è un modo garbato per chiuderci le porte in faccia. Duecentododici frassini alti venti metri (per non ostruire la visuale dei negozi) lungo l'asse che collega piazza Duomo al Castello. Il progetto doveva partire da qui, «dal cuore della città».
Niente da fare per le 12 location individuate tra cui corso Genova, De Amicis, Fiori Chiari, Forlanini, Bligny. Gli altri 3.500 alberi, appunto. Il Comune, in realtà, non aveva mai nascosto le difficoltà tecniche. «Prima di procedere si faranno dei saggi», aveva puntualizzato l'assessore ai Lavori pubblici, Bruno Simini. «Spesso le mappe dei sottoservizi non corrispondono a quello che si trova scavando». Anche l'assessore al Verde Maurizio Cadeo aveva messo le mani avanti «Abbiamo già finanziato la piantumazione di 70.000 alberi. Se l'architetto Piano troverà gli sponsor e i finanziatori, noi saremo felicissimi e disponibili a cominciare da subito il suo progetto». L'obiettivo, si era detto nell'ultima riunione a Palazzo Marino, era trasformare la città in tante oasi verdi. C'era il sogno Expo, ma soprattutto la promessa fatta a Claudio Abbado per convincerlo a tornare sul palco scaligero. Ieri è sfumato tutto. Comune e Renzo Piano si sono detti addio. Addio al sogno in verde. E ora al maestro Abbado chi lo dice?

da: Corriere della sera, 22 aprile 2010, p. 3

giovedì 3 giugno 2010

I capolavori rubati dal ladro solitario

Ha segato l'inferriata di una finestra e preso 5 tele, tra cui un Picasso e un Modigliani

di Massimo Nava

«Incredibile»: per destrezza, importanza del bottino e soprattutto facilità, complice una buona dose di negligenza. La polizia di Parigi e i responsabili del Museo d'arte moderna di Parigi sono increduli dopo la scoperta, ieri mattina, all'apertura del museo, del clamoroso furto di cinque capolavori di notevole importanza e valore dei maestri Pablo Picasso, Henri Matisse, George Braque, Amedeo Modigliani e Fernand Léger. Un colpo, secondo alcune stime, da cento milioni di euro, anche se il «prezzo» è difficilmente valutabile nel mercato della ricettazione e dei furti su commissione.
È stato un ladro solitario, un uomo vestito di nero, con passamontagna, a penetrare indisturbato nelle sale del museo, al Trocadero, forzando una finestra, presumibilmente non collegata al sistema di allarme che comunque non ha funzionato. Il ladro ha segato un'inferriata e tagliato un lucchetto prima di separare con cura, usando un temperino, le tele dalle cornici. Le telecamere a circuito chiuso lo hanno filmato mentre arrotolava i capolavori, li infilava in una borsa a tracolla e se ne andava in tutta tranquillità.
Le tele trafugate sono la Donna con ventaglio di Modigliani, la Pastorale di Matisse, l'Olivier près de l'Estaque di Braque, la Natura morta con candelabri di Léger e Le pigeon aux petits pois di Picasso, opera quest'ultima che ha la particolare caratteristica di essere firmata sul retro.
«È un furto sciocco» ha dichiarato Pierre Cornette de Saint-Cyr, il commissario alle esposizioni del Palais de Tokyo, come viene chiamato il Museo d'arte moderna parigino. Il commissario confida sul fatto che i dipinti siano recuperabili. «Capolavori del genere sono talmente conosciuti, e oggi ancora di più dopo la diffusione delle immagini del furto, che nessuno può immaginare di riuscire a venderli. A meno che non si voglia ricattare le società d'assicurazione».
Ieri mattina, i visitatori, come sempre numerosi e in coda di buon ora, hanno trovato naturalmente il museo chiuso, con laconica comunicazione: «Motivi tecnici». La polizia ha ispezionato le sale e fatto gli accertamenti di rito. Sul marciapiede, un'«esposizione» piuttosto insolita: le cornici, mestamente vuote.
Il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, ha espresso «costernazione»: «Sono particolarmente triste e scioccato per questo attacco intollerabile al patrimonio universale di Parigi. Auspico che tutti i mezzi necessari siano attuati per ritrovare questi capolavori». Il museo occupa un'ala del Palais de Tokyo, a due passi dalla Senna, proprio di fronte alla Tour Eiffel. Aperto nel 1961 conserva più di 8.000 opere di autori del XX secolo.
Non è la prima volta che i musei parigini sono presi di mira dai ladri. Nei mesi scorsi, un furto di minore importanza, era stato compiuto al Museo Picasso, nel Marais. In passato, come si sa, venne trafugata anche la Gioconda.

da: Corriere della sera, 21 maggio 2010, p. 30

mercoledì 2 giugno 2010

Triennale, le mutazioni dell'arte

di Vittorio Gregotti

Perché la Quinta Triennale di Milano del 1933 fu tanto importante nella vita della cultura, dell'architettura e delle arti figurative?
La risposta è certamente intricata; vi sono alcune ragioni che ne mutano anzitutto l'assetto interno, ma soprattutto il ruolo per la città. La Triennale, dopo dieci anni di attività, passa, dalla Villa Reale di Monza (dove era cominciata nel 1923 a partire dalle iniziative promosse fin dal 1919 dalla Società Umanitaria e dal sindaco socialista di Milano Caldara), al Palazzo dell'Arte, progettato da Giovanni Muzio al Parco Sempione di Milano, divenuto parco pubblico alla fine del secolo. Ciò avviene con il sostegno delle autorità e con quello economico dell'industriale milanese Bernocchi. La Triennale inoltre diventata ente autonomo, ha un riferimento diretto anche al nuovo potere politico del fascismo. Gio Ponti e Mario Sironi ne costituiscono il direttorio organizzatore. Alla sua inaugurazione nel 1933 partecipano, oltre al Podestà di Milano Marcello Visconti di Modrone, Vittorio Emanuele III, autorità politiche nazionali e persino il ministro tedesco Goebbels.
Mutano anche i contenuti con una forte presenza dell'architettura, ed in particolare proprio del gruppo dei razionalisti, ma anche con una intensa partecipazione dei pittori del Novecento, con importanti interventi monumentali e celebrativi, sia pure una partecipazione che presenta accentuate differenze delle singole personalità. Il movimento del 900 (la rivista con lo stesso titolo diretta da Bontempelli e Malaparte si pubblica a partire dal 1926) era stato già promosso dalle riviste «Valori Plastici» (1918-21), la «Ronda» (rivista romana di letteratura) e fondato ufficialmente nel 1922 con la mostra dei «sette pittori» alla Galleria Pesaro. Nel 1924 era stato presentato anche alla Biennale di Venezia (sponsor Margherita Sarfatti), poi nel 1926 e 1929 in due mostre alla Permanente a Milano. Con varie provenienze (metafisica, futurismo, classicismo, gusto dei primitivi, nazionalismo) erano presenti da Sironi a Carrà, da Campigli a Casorati, a Funi e molti altri e poteva contare su un ampio numero di architetti attivi sin dal 1920.
I razionalisti (che si erano ufficialmente formati a partire dal 1926 con le dichiarazioni pubblicate sulla «Fiera letteraria») sono ampiamente rappresentati sia nella mostra dell'architettura internazionale della Triennale del 1933 che nelle architetture-esempio, costruite nel parco. Sono presenti quasi tutti i protagonisti, rappresentati in modo esemplare nelle loro intenzioni dalla «villa studio per artisti» di Figini Pollini con Melotti e Fontana.
Infine la presenza delle arti decorative ed industriali, tramontata l'organizzazione regionale, accentua l'importanza delle partecipazioni internazionali più avanzate come quella del Deutsche Werkbund (che peraltro verrà chiuso l'anno successivo dal regime). Ma, ciò che è ancora più importante, la V Triennale divide idealmente due periodi culturali: quello del «ritorno all'ordine», slogan che attraversò tutta l'Europa dopo il 1919 e che considerava superate le esperienze delle avanguardie (anche se il futurismo come neofuturismo permane in Italia ancora per molti anni). Il «ritorno all'ordine» in Italia assume la veste del movimento del 900 in pittura ed in architettura con le sue varianti neoeclettiche, metafisiche, neoclassiche, di modernismo moderato e di nazionalismo ma influenza anche i primi anni del razionalismo italiano. La Triennale del '33 promuove, però, una nuova affermazione del movimento moderno in Italia, un'affermazione fatta di pochi ma esemplari edifici e sottolineata dall'azione critica di riviste come «Quadrante» (1933-36) di Bardi e Bontempelli e «Casabella» (1928-40), diretta, proprio a partire dal 1933, da Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico.
Sono anche gli anni della speciale versione dell'astrattismo italiano di Melotti, di Fontana, Licini, Veronesi, cioè di quella speciale versione che Paolo Fossati definiva «l'astrattismo dell'immagine sospesa», che molta influenza ebbe sulle particolarità con cui si definì dopo il '33 la figura del razionalismo italiano nel quadro del movimento moderno europeo.
Sono infatti gli anni della costruzione delle opere più importanti di Terragni (come la Casa del Fascio di Como o l'asilo Sant'Elia) di Cattaneo, di Figini e Pollini, opere come l'importante collaborazione con Adriano Olivetti ed il piano della Valle d'Aosta, che li associa con altri protagonisti di quegli anni come il gruppo dei BBPR (Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers) con Bottoni, Pagano, Persico, Nizzoli, Cattaneo, Vietti e qualche altro, per restare al gruppo milanese. È questo gruppo che partecipa anche alle riunioni annuali dei CIAM (Comitato Internazionale dell'Architettura Moderna) dove sono presenti i grandi maestri internazionali da Le Corbusier a Walter Gropius.
I protagonisti del 900, pur con opposte interpretazioni (ma dovremmo aggiungere con molte distinzioni interne anche musicisti, con l'azione della rivista «Rassegna musicale» ed i letterati con riviste come «La Ronda», «Solaria», «La Voce» ed il «Baretti») seguitano negli anni Trenta ad esercitare un'attività professionale importante proprio nella definizione dell'immagine della città di Milano (che giunge nel 1933 ad avere quasi un milione di abitanti) e nel rinnovamento di alcune sue parti centrali come piazza San Babila e corso del Littorio; anche se questo progressivamente avviene sotto la pressione ideologica del regime, rappresentata soprattutto, per l'architettura da Marcello Piacentini, che realizza a Milano il Palazzo di Giustizia.
La rivista «Domus» prosegue inoltre la sua funzione di eclettica mediazione tra le parti. I razionalisti, in misura progressiva, prendono invece coscienza delle contraddizioni tra l'internazionalismo progressista del movimento moderno e le posizioni del regime.
Proprio nel 1933 in Germania avviene la svolta reazionaria decisiva con la chiusura della scuola del Bauhaus e la persecuzione dei grandi artisti moderni delle avanguardie. Sono poi proprio le Triennali del 1936 e soprattutto quella del 1940 a rendere evidenti le contraddizioni.
Anche la storia successiva delle Triennali assume nel dopoguerra la responsabilità di segnare alcune svolte importanti nella cultura italiana come quella del '48, del '64, del '68 e quella della «multimedialità» degli ultimi anni.

da: Corriere della sera, 12 maggio 2010, p. 33