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mercoledì 8 giugno 2016

Monza, il flop del museo civico Spesi 300 mila euro, incassati 18 mila

di Riccardo Rosa

Dovrebbe diventare il «gioiellino» della cultura monzese, ma per ora il Museo civico di via Teodolinda sta costando alle casse comunali come un diamante. Inaugurato il 28 giugno del 2014, dopo circa dieci anni di lavori e un costo complessivo di oltre cinque milioni di euro, lo spazio espositivo ha chiuso il 2015 con un bilancio da profondo rosso. Il consuntivo parla di 306 mila euro di costi di gestione, a fronte di soli 18 mila euro di ricavi. Vale a dire un gap di 288 mila euro che negli ambienti culturali e politici monzesi sta provocando più di una riflessione sulla reale possibilità dell’amministrazione comunale di generare reddito attraverso la cultura. Così, mentre Villa Reale decolla grazie a mostre ed eventi di richiamo internazionale e il museo del Duomo cresce grazie ai suoi tesori, il Museo civico ricavato nella quattrocentesca Casa degli Umiliati per riportare alla luce la Pinacoteca civica dopo 40 anni, arranca. In realtà, il 2015 è stato avaro solo sotto il profilo economico perché i visitatori non sono mancati. Solo che le partecipazioni di massa si sono verificate in corrispondenza di aperture gratuite, magari collegate a eventi collaterali come i laboratori per bambini organizzati durante i fine settimana. «Teniamo presente che non stiamo parlando di Brera o di un’esposizione dove la gente torna magari più di una volta — commenta Raffaella Fossati, presidente dell’associazione Amici dei Musei —. Forse servirebbe un po’ più di coraggio. La struttura ha delle bellissime sale laterali vuote che potrebbero essere sfruttate meglio. Un esempio? La mostra di Caravaggio a Villa Reale avrebbe potuto essere ospitata nei Musei civici».
In questa direzione vanno le numerose iniziative adottate dall’associazione, come le visite guidate gratuite. L’assessore alla Cultura, Francesca Dell’Aquila, spiega che i costi di gestione sono incomprimibili. «Stiamo cercando di limarli — sottolinea —, ma più di tanto non si può fare. Per ora siamo in una fase di rodaggio, ma sono sicura che le iniziative che abbiamo in cantiere porteranno frutti». In particolare, sul tavolo dell’assessore ci sono due progetti: l’organizzazione di visite guidate per non vedenti e non udenti e la possibilità di acquistare un biglietto abbinato al museo del Duomo. Il dettaglio dei conti del Museo dice che circa la metà dei 306 mila euro dei costi di gestione è data dal personale (99 mila euro per 4 persone già dipendenti del Comune) e da iniziative culturali esterne al museo che incidono per 60 mila euro, mentre il resto della cifra è composto dai costi per la sicurezza (93 mila euro), da attività varie (24 mila euro) e dalle utenze (24 mila euro). Secondo Paolo Piffer, capogruppo in Consiglio comunale della lista civica PrimaVera Monza, la chiave per svoltare potrebbe essere un migliore impiego del personale. «Il Museo ha solo un sito Internet — commenta Piffer —, ma è senza profilo Twitter e la pagina Facebook potrebbe essere aggiornata con più frequenza. Facendo un po’ di formazione a uno o due dei quattro dipendenti si potrebbe sfruttare meglio il mondo del web e diffondere online con maggior efficacia attività e contenuti. Non mi piace l’atteggiamento rinunciatario che la giunta ha adottato. Sono certo che con iniziative di maggior respiro, il museo potrebbe realmente diventare il gioiellino che tutti si aspettano».

da: Corriere della Sera Milano, 17 maggio 2016

domenica 1 maggio 2016

Islam e Occidente, perché tutto passa per le immagini?

di Paolo Monti

In anni recenti, numerose occasioni di dibattito, e talvolta di conflitto, fra Occidente e mondo islamico, sono nate proprio intorno alla questione della visibilità, cioè di che cosa si debba vedere e di che cosa non si debba vedere: il velo e i simboli religiosi nello spazio pubblico, le vignette e i film satirici contro l'islam, le immagini di guerra e tortura in Iraq, la distruzione di opere d'arte antica in Siria e Iraq, i filmati di esecuzioni e decapitazioni da parte di Daesh, le proteste di massa durante le “primavere arabe” e in Turchia, e molti altri. Perché tanta tensione intorno a dove vanno e a dove non vanno gli sguardi? Perché tali scontri riguardo a che cosa è rappresentato e a che cosa non deve esserlo?
Le singole questioni sono fra loro, naturalmente, eterogenee e ciascuna di esse per essere compresa appieno merita una riflessione distinta. Tuttavia, il ricorrere trasversale della questione della visibilità indirizza verso una differenza culturale che si rende registrabile attraverso tutte quelle circostanze. Aggiungendo a tale divario la situazione di visibilità pervasiva tipica della scena multiculturale e mediatica contemporanea, ecco che si comprende come le tradizioni visive di Oriente e Occidente si trovino non solo messe alla prova ciascuna al proprio interno, ma anche poste in immediato reciproco contrasto. [...]
Mai come nel nostro tempo il flusso di immagini è stato intenso e pervasivo. Tale condizione è stata spesso ottimisticamente abbracciata come il frutto buono di amplificate possibilità tecniche, ove al moltiplicarsi delle immagini disponibili corrisponderebbe un diretto proporzionale arricchimento delle esperienze individuali e sociali e un conseguente aumento della conoscenza e del rispetto per la diversità. L'emergere di contrapposizioni e talvolta di aperti conflitti intorno alla questione della visibilità e del nascondimento suggerisce tuttavia in modo sempre più evidente quanto quel tipo d'interpretazione delle implicazioni etiche e politiche dell'attuale sovraesposizione iconica fosse purtroppo ingenuo. La questione delle immagini, infatti, non riguarda mai semplicemente la visione di questa o quella immagine, quanto piuttosto quelli che possono essere chiamati i “regimi di visibilità” entro cui le immagini si mostrano allo sguardo condiviso. Il problema è costituito dai diversi spazi di visibilità e di nascondimento che sorgono da risposte divergenti a domande come: che cosa vediamo? Che cosa amiamo vedere e che cosa odiamo vedere? Chi deve far vedere? Chi ci dice che cosa c'è da vedere? Che cosa significa guardare insieme questa immagine? [...] In particolar modo, la sovraesposizione mediatica contemporanea pone domande importanti rispetto alla condizione di “spettatori” che riguarda la maggior parte dei cittadini, sia in Occidente sia nel mondo islamico, i quali sono chiamati dalle circostanze a diventare a propria volta più riflessivi, attivi, consapevoli. La visione, soprattutto la visione di ciò che non si vorrebbe vedere, assume spesso un carattere passivo, confina l'individuo nella sua funzione meramente “ricettiva” rispetto agli eventi, enfatizzando le reazioni emotive a breve termine ma lasciando tra parentesi la dimensione del Volere e dell'agire, e dunque in ultima istanza la fondamentale dimensione etica del proprio essere posti davanti alle immagini. Affrontare una situazione in continuo e repentino mutamento esige una capacità di giudizio che non parta innanzi tutto dalle immagini proposte, ma dalla costruzione per esse di uno spazio di comprensione adeguato. Per mettere a fuoco questa esigenza, ci viene in aiuto un'osservazione di Marie-Iosé Mondzain: «Siamo sballottati nella tempesta degli spettacoli del mondo, una Bildersturm che non ci lascia più il tempo di capire in che direzione vanno le nostre scelte e quali sono le ragioni del nostro gusto. Eppure occorre che rispetto all'immagine costruiamo scelte e prendiamo decisioni. Quali immagini scegliamo di vedere insieme? Non vedremo mai tutti la stessa cosa, ma possiamo decidere insieme di amare od odiare regimi di visibilità in cui si gioca la questione fondatrice di ogni condivisione. Non si condivide qualcosa di visibile senza costruire quel luogo invisibile che rende possibile la condivisione stessa. Alcune “iconicità” distruggono ogni tipo di condivisione nella comunicazione di un programma».
Quando l'immagine diventa “programmatica” in senso ideologico, quando diventa distruttiva perché fonte d'irriducibile conflitto, l'alternativa non può essere solo quella di assommare altre immagini di segno contrario o quella di “distrarre” l'attenzione degli spettatori verso qualcos'altro. Piuttosto può essere necessario riportarsi alla costruzione di uno spazio non prepotentemente iconico, fatto di riesame autocritico del proprio patrimonio di immagini e di cooperazione civile intorno ai bisogni emergenti, ma talvolta anche di una misurata e consapevole «sospensione della percezione», nell'espressione di Jonathan Crary, per restituire alla percezione stessa una forma di attenzione meno compulsiva e più riflessiva. Accettare la compatibilità di più simboli all'interno della sfera pubblica, evitare di rappresentare criticamente qualcosa non per un divieto ma per coltivarne una diversa comprensione, affiancare alla logica della visione da spettatori quella dell'incontro personale e dialogico, riscoprire i molti esempi di “meticciato” del linguaggio visivo che hanno caratterizzato i rapporti fra Europa e mondo islamico in architettura e nelle arti: sono molti gli esempi possibili di una relazione con le immagini che interpreti una diversa relazione fra i cittadini e le loro tradizioni religiose e secolari.
I mutamenti in atto sono occasione per favorire lo sviluppo di immaginari alternativi. nati magari dalle situazioni di conflitto, ma riflessivamente plasmati dalla consapevolezza della propria strutturale implicazione con altri. Possiamo intendere in questo senso gli immaginari come “schemi di dimenticanza e di attenzione” che indirizzano la domanda etica del soggetto circa il valore di ciò che vede e ciò che questo implica per il proprio agire personale. Indirizzando l'attenzione del soggetto potremmo dire il suo percepire e il suo trascurare gli immaginari veicolano un certo senso di corrispondenza fra le esperienze particolari dell'individuo e i significati di valenza universale, o almeno generale, propri del mondo condiviso con gli altri. Intesi in questo senso, i confini del visibile non richiamano più solo un limite che deve essere abbattuto, ma anche una soglia ove è possibile incontrare lo sguardo d'altri, uno sguardo che sfiora le medesime immagini - o forse anche immagini diverse - ma condivide rispetto a esse una domanda di senso e un bisogno di abitabilità di quello spazio che accomuna almeno tanto quanto distingue.
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Si apre con un contributo di Gilles Kepel, il celebre studioso francese autore di libri come Dio è tornato e Oltre il terrore e il martirio, il terzo ebook del progetto “Conoscere il meticciato, governare il cambiamento", realizzato dalla Fondazione Oasis per Marsilio con il contributo della Fondazione Cariplo. In Il tablet e la mezzaluna (a cura di Alessandro Zaccuri, euro 4, 99) l'attenzione si concentra sul ruolo attualmente svolto dai media nel confronto, sempre più serrato e a tratti drammatico, tra islam e mondo occidentale. Sullo sfondo degli attentati parigini alla redazione di “Chariie Hebdo” e al teatro Bataclan scorrono, tra gli altri, gli interventi di Stella Coglievina sulla normativa europea in materia di libertà di espressione, di Laura Silvia Battaglia sullo stile comunicativo di Daesh, di Viviana Premazzi sull'uso politico del rap e di Eugenio Dacrema sull'evoluzione mediatica del jihadismo. In chiusura, una riflessione dell'intellettuale turco Mutasta Akyol. Dall'ebook anticipiamo un brano del saggio di Paolo Monti.

da: Avvenire, 20 marzo 2016, p. 26

sabato 30 aprile 2016

Arte a San Bernardino [INCOMPLETO]

La Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Mantova, Cremona e Brescia ha finanziato il restauro di una serie di pregevoli tele

di Giovanni Rodella

Alla chiesa di San Bernardino sono stati da poco riconsegnati vari dipinti, restaurati per iniziativa e con finanziamenti della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Mantova, Cremona e Brescia. In questi ultimi anni si era ritenuto opportuno far convergere una consistente parte dei fondi ministeriali, richiesti per il recupero dei beni artistici non statali della provincia di Cremona, al restauro dello straordinario patrimonio di questa chiesa alla cui piena valorizzazione sono ormai da tempo impegnate tante istituzioni cremasche, pubbliche e private.
Data l'importanza che sotto il profilo pubblico la chiesa di San Bernardino riveste per l'intera città di Crema — si pensi solo al suo frequente utilizzo come auditorium — anche la Soprintendenza competente non poteva sottrarsi a questa generale mobilitazione, offrendo così il proprio concreto contributo per l'ultimazione della campagna di restauri dei dipinti in essa conservati.
Come noto, la chiesa di San Bernardino, insieme alla Cattedrale della quale è sussidiaria, concentra al suo interno un ingentissimo numero di opere d'arte, nella maggior parte eseguite nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII per le quattordici grandi cappelle che si aprono sulla grandiosa navata; e in parte minore provenienti anche da altri edifici religiosi cittadini.
Un po' tutti i maggiori artisti cremaschi, soprattutto del ‘600 e del ‘700, sono rappresentati con opere di grande rilievo. Pensiamo solo ai pittori Gian Giacomo Barbelli (1604-1656) e Giovanni Battista Lucini (1639-1686) dei quali la chiesa conserva importanti cicli di dipinti su tela e ad affresco.
Anche di Mauro Picenardi (1735-1809), forse il più grande pittore cremasco del ‘700, San Bernardino custodisce una splendida tela, raffigurante SAN FRANCESCO IN ADORAZIONE DELLA VERGINE E DI CRISTO IN GLORIA. Il dipinto, eseguito nel 1788 per la cappella del Perdono d'Assisi, sede all'interno della chiesa dell'omonimo consorzio è indubbiamente una delle opere più significative della piena maturità di questo artista, che fu esponente di una pittura particolarmente fluida e vibrante, fatta di tocchi sfrangiati e in luminosissima trasparenza, in linea con le correnti più in voga del rococò europeo. La vasta tela, che versava in condizioni conservative assai mediocri — a causa soprattutto delle deformazioni del supporto e della sporcizia inglobante pure moltissime schizzature di cera — è stata ripristinata nel 1998 dalle
restauratrici Elena Dognini e Annalisa Rebecchi che hanno anche provveduto, sempre con finanziamenti della Soprintendenza, al recupero di due piccoli dipinti raffiguranti angeli recanti un turibolo e una navicella. Le due telette, che dovevano avere funzioni meramente decorative, sono del pittore veronese Giovanni Brunelli (1644-1722), che operò a Crema nel primissimo ‘700, in particolare per la chiesa di San Bernardino, per la quale produsse dei dipinti raffiguranti l'ADORAZIONE DEI PASTORI — datato 1701 — e l'ELEMOSINA DI SANT'ELIGIO, sempre eseguiti con finanziamenti della Soprintendenza (e ad opera della restauratrice cremonese Omelia Bolzani), si è portato a intero compimento il ripristino del consistente gruppo delle opere del Brunelli.
Presente a Crema come altri pittori chiamati da fuori per far fronte ad un certo impoverimento artistico a seguito della prematura scomparsa del grande Giovan Battista Lucini (1686), il Brunelli mostrò di adattarsi alla tradizione pittorica locale, esibendo una facile vena narrativa, abbastanza vicina, per alcuni aspetti, ai modi più accattivanti di alcuni pittori cremaschi del ‘600, in particolare al Barbelli. L' ADORAZIONE DEI PASTORI — che, come reca l'iscrizione, fu eseguita a spese della congregazione di San Giuseppe — nell'impostazione a cerchio e nelle tipologie di alcune figure, in particolare dei pastori, sembra addirittura rievocare la grande pittura cremonese del tardocinquecento, di Antonio Campi e di Gervasio Gatti.
Le altre opere di San Bernardino restaurate sempre per iniziativa e con finanziamenti della Soprintendenza sono tre grandi dipinti, due dei quali del ‘600 sono da ritenersi sicuramente provenienti da altre sedi.
La prima tela, raffigurante MADONNA CON BAMBINO E I SANTI ANTONIO ABATE E ANDREA CON OFFERENTE, è situata nella seconda cappella di destra, dedicata al Perdono di Assisi. Una collocazione un po' impropria, che col tempo si spera di poter modificare, in quanto il dipinto occulta parte delle pregevoli decorazioni monocrome delle pareti. Anche se non si conosce l'autore, il recente restauro dell'opera (realizzato dalla restauratrice cremonese Elisabetta Attorrese) ha rimesso in luce la data d'esecuzione: 1601. All'interno di un tradizionale impianto compositivo piramidale, con il committente inginocchiato di profilo di fronte ai due santi, spiccano in particolare, per l'alta resa stilistico-formale, le immagini della Vergine e del Bambino.
Assai problematico si è rivelato il restauro del dipinto raffigurante SAN DIEGO IN CONTEMPLAZIONE DELLA VERGINE E DEL BAMBINO CON I SANTI FRANCESCO E BERNARDINO, attribuito a Uriele Gatti (figlio del ben più noto Bernardino) che operò, fino al 1602, soprattutto a Soncino e nei vicini territori del cremasco. La tela, da riferirsi con tutta probabilità ad un periodo compreso tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600, fu oggetto in passato di numerose ridipinture e, in varie zone, di totali rifacimenti, interventi che hanno in buona parte del tutto snaturato o completamente occultato le figure e l'impianto originale della composizione. È da presumersi che tali cambiamenti siano stati attuati poco tempo dopo l'esecuzione del dipinto, forse per un suo adattamento alla cappella in cui è attualmente collocato, che venne dedicata a san Diego nel corso del XVII secolo. Come si è riscontrato durante il restauro — eseguito dalle restauratrici Alberta Carena e Alessandra Ragazzoni — al di sotto della figura di san Diego emergevano, in trasparenza, tre sagome di figure oranti, forse i committenti, corrispondenti con tutta probabilità alla concezione originaria dell'opera. La Vergine e il Bambino non dovrebbero aver subito particolari modificazioni, e così il gruppo dei tre angeli cantori, particolare compositivo ripreso direttamente dall' ADORAZIONE DEI PASTORI di Bernardino Gatti, dipinta per la chiesa di San Pietro al Po di Cremona nel 1555.
L'ultimo dipinto restaurato è la splendida DECOLLAZIONE DEL BATTISTA CON l SANTI MARTA, FILIPPO E GIACOMO di Giovanni Battista Lucini (1639-1686). L'opera, proveniente dalla Chiesa cremasca di Santa Marta, è stata riferita agli anni 1674-75. In passato era stata integrata in alto e in basso da inserti di tela e da una cornice sagomata che modificarono la forma, con tutta probabilità ai fini di una nuova collocazione ad un altare di cui si ignora però l'ubicazione. Il dipinto, che si caratterizza per la singolare iconografia del Battista decollato attorniato da tre santi, di fronte ai quali è il piatto con la testa appena mozzata, fu purtroppo gravemente danneggiato in passato da un atto vandalico che comportò il ritaglio e l'asportazione della figura del Battista. ll difficile [pubblicato incompleto]

da: IL Nuovo Torrazzo, sabato 5 febbraio 2000