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mercoledì 14 ottobre 2015

Sironi & C., si può ripulire l’arte dalla storia?

di Luigi Marsiglia

Già all’indomani della marcia su Roma, con l’effettiva presa di potere e il conseguente assestamento in chiave governativa, la realizzazione di nuove opere pubbliche doveva rispecchiare la visione dell’Italia rappresentata dal Fascismo, quel generalizzato ritorno all’ordine insieme alla rivisitazione dei fasti imperiali e a un attivismo non soltanto simbolico, grazie proprio al compito primario incarnato dall’architettura, “regina delle arti” secondo l’opinione dello stesso Mussolini. Opere che comprendevano edifici pubblici e strutture funzionali al regime, Case del fascio, Case del balilla e delle corporazioni, oppure progetti ambiziosi atti a sintetizzare passato e futuro, civiltà italica e slancio avveniristico, come la bonifica dell’agro pontino con la fondazione di intere città concepite in stile razionalista, Littoria – ribattezzata nel 1946 col nome di Latina – e Sabaudia su tutte.
Un’architettura magniloquente la quale, caratteristica comune alle dittature, si riproponeva a mo’ di riflesso celebrativo, tangibile e immediatamente intelligibile delle vittorie, assolute e in divenire, del fascismo. Da una parte l’imponenza di costruzioni contraddistinte da linee severe, dall’altra l’arte figurativa con un ruolo spesso didascalico, rigido e poco autonomo, che subentrava nel programma decorativo per immortalare in modo diretto l’epica del Duce e i destini gloriosi dell’impero risorto sui colli fatali di Roma. Molteplici opere di grandi dimensioni trovano così spazio nei maestosi saloni di rappresentanza dei palazzi disegnati dagli architetti razionalisti. Si tratta di affreschi, pitture murali e mosaici, di sculture e bassorilievi classicheggianti firmati dai più conosciuti - e riconosciuti - esponenti di quell’arte nazionale che annoverava, al proprio interno, personalità con differenti storie e una più o meno provata fede fascista.
Il caso dell’affresco allegorico L’Italia tra le arti e le scienze, realizzato nel 1935 da Mario Sironi (1885-1961) nell’aula magna della nuova cittadella universitaria di Roma, caso sollevato e discusso in questi mesi dalle pagine di “Avvenire”, ha riportato alla ribalta l’operazione di “defascistizzazione” che colpì, in maniera incisiva o lieve, quasi tutti gli interventi marcatamente ideologici eseguiti durante il ventennio: un provvedimento censorio posto in atto dopo la Liberazione. Toccò nel 1947 a Carlo Siviero, pittore agli antipodi del novecentista Sironi, il compito di cancellare dall’opera simboli e riferimenti del Ventennio: il risultato è l’affresco come lo scorgiamo oggi, ben poco “sironiano”. In occasione del restauro che si concluderà nel 2016, si è innescata la querelle se procedere e recuperarlo così com’è, oppure ripristinarne laddove possibile la versione precedente, più aderente alla visione dell’autore. Una questione di valenza storico-estetica, che deve comunque tener conto della diversità degli artisti partecipanti ai cicli decorativi dei palazzi del fascismo e i destini, altrettanto diversi, subiti dalle loro opere dopo il 25 aprile 1945.
Paradigmatico, in tal senso, è il mosaico sempre di Sironi Il lavoro fascista, titolo cambiato successivamente in L’Italia corporativa, eseguito nel 1936 per una sala del Palazzo dell’informazione di Milano, in cui si stampava all’epoca “Il Popolo d’Italia”. Caduto il fascismo, il mosaico fu semplicemente coperto da un telo, lasciando che il tempo ne logorasse tessere e colori. Fu il critico Agnoldomenico Pica a insistere perché L’Italia corporativa venisse di nuovo resa accessibile al pubblico.
Destino meno avverso ma non meno polemico per l’affresco del 1937 di Primo Conti (1900-1988) in un’aula del Palazzo di Giustizia di Milano, dove campeggia la scritta “La legge è uguale per tutti”. L’opera riporta il Cristo in trono attorniato dai potenti della terra, tra cui in prima fila e a figura intera Mussolini. La Giustizia del cielo e della terra, questo il titolo, fu oggetto di aspre critiche già prima dell’inaugurazione, quando qualche gerarca fece notare l’ambiguità della presenza del Duce tra i “giudicabili” al cospetto del trono divino. Difeso da Bottai, Grandi e Piacentini, l’affresco riuscì a scampare alla minaccia di completa scialbatura, mentre a guerra conclusa il ritratto di Mussolini verrà ricoperto da un vistoso strato di vernice, fino al restauro nel 2008. E, col ripristino, tornano le polemiche per la ricomparsa del Duce in tribunale.
Corrado Cagli (1910-1976), sostenitore con Sironi del muralismo, a fine anni Venti completa a Umbertide, in casa Mavarelli-Reggiani, un affresco di 60 metri sulla Battaglia del grano. Nel 1935, l’Opera Nazionale Balilla gli commissiona due pitture murali per la propria sede, l’edificio di Castel de’ Cesari a Roma. Una delle opere rievoca La corsa dei barberi, argomento ritenuto poco adeguato dalle autorità che ne ordinano l’immediata distruzione. Un esempio conclamato, in questo caso, di autocensura fascista. Con le leggi razziali del ’38 Cagli, nipote dello scrittore e saggista Massimo Bontempelli, è costretto a fuggire dall’Italia: si arruola nell’esercito americano e partecipa allo sbarco in Normandia.
Luigi Montanarini (1906-1998) esegue nel 1936 la pittura murale Apoteosi del Fascismo nel Salone d’onore del Coni al Foro italico, proprio alle spalle del tavolo della presidenza; qui, oltre a fasci e simboli vari del ventennio, compare uno statuario Mussolini ad arringare la folla di camicie nere. Invece di essere “defascistizzata”, che voleva dire in effetti la sua totale abrasione, l’opera è stata coperta fino al 1997 da un panno verde con impressi i cerchi olimpici: il suo svelamento ha trascinato con sé un’ondata di polemiche. Una dimostrazione di quanto sia necessario – e arduo – fare i conti con la storia, più che con l’arte.

da: Avvenire, 1 ottobre 2015

«Ecco la scuola che farei»

di Renzo Piano

Se dobbiamo costruire nuove scuole, meglio farle in periferia, e lo stesso vale per gli ospedali o gli auditorium. Questa è la scommessa dei prossimi decenni: trasformare le periferie in pezzi di città felice. Come fare? Disseminandole di luoghi per la gente, punti d’incontro e aggregazione, dove si celebra il rito dell’urbanità. Fecondando con funzioni pubbliche quello che oggi è un deserto affettivo. La città che funziona è quella in cui si dorme, si lavora, ci si diverte e soprattutto si va a scuola. Dico soprattutto perché mentre si può decidere di non visitare un museo, sui banchi di scuola ci devono passare tutti. Occuparsi di edifici scolastici è un rammendo che, ancora prima che edilizio, è sociale. Qui infatti si condividono i valori. Poco più che un anno fa sul Domenicale Franco Lorenzoni, un maestro che incarna l’innovazione della pedagogia, ha lanciato la sfida nell’articolo «Cari architetti, rifateci le scuole!». L’ho chiamato, siamo diventati amici e abbiamo lavorato, assieme a Paolo Crepet, a un nuovo modello di scuola su tre livelli.
Il piano terra è la connessione con la città, il primo quello che ospita gli spazi di studio e il tetto è il luogo della libertà e dell’esplorazione. Dell’emotività recuperata, dopo tanti edifici che assomigliano a caserme o magazzini. Troppo spesso la scuola, come scriveva Maria Montessori, è stata l’esilio in cui l’adulto tiene il bambino fino a quando è capace di vivere nel mondo dei grandi senza dar fastidio.

Il piano terra

Il nostro piano terra sarà permeabile e trasparente. Abbiamo pensato di sollevarlo dal terreno in modo che la città possa entrare, che l’edificio diventi un luogo di scambio e connessione con il quartiere. Al centro c’è un giardino con un grande albero sul quale si affacciano la palestra-auditorium, la sala prove, i laboratori dove i ragazzi si incontrano con associazioni e abitanti. Ci sono tanti pensionati che non aspettano altro che insegnare ai ragazzi a suonare il flauto, a seminare il grano, a recitare o giocare a scacchi. La scuola nasce intorno all’albero che è anche metafora della vita: d’autunno le foglie cambiano colore e cadono lasciando penetrare la luce del sole, ogni primavera si assiste al rito del rinnovamento. Con la chioma di un platano o un ippocastano che rinasce e protegge dai raggi. Poi i suoi rami ospitano gli uccelli che cercano una natura protetta: storni, tortore, pettirossi, rondini durante le migrazioni. Guardare l’albero riserva sorprese, non è mai uguale al giorno prima.
Sempre dal livello terra si alza la torre dei libri, così abbiamo chiamato la biblioteca che sale fino alla terrazza ed è aperta a tutti. Sarà una biblioteca con un’ampia collezione di libri cartacei e tanti sistemi virtuali. Ma è anche il luogo dove si conserva la memoria della scuola: dove si accumulano i disegni, gli scritti e i ricordi degli alunni. Sappiamo tutti quanto è difficile buttare via i lavori dei bambini, primi segni della creatività. In questo edificio le tracce non si buttano, si custodiscono. La scuola deve vivere per molte più ore rispetto a quelle richieste per la didattica. Si possono immaginare spazi in uso agli scolari fino al pomeriggio e poi aperti alla città fino a tarda sera, così come durante i fine settimana. Vale per la palestra, il laboratorio-bottega, la biblioteca, la cucina.
Questo è il piano dove piccoli e grandi formano l’attitudine allo scambio, dove si imparano ad apprezzare le diversità e si sviluppa la solidarietà.

Una scuola sostenibile

Qualche tempo fa mi ha scritto un gruppo di studenti chiedendo una scuola diversa: «Ogni scuola dovrà essere un presidio di sostenibilità…». Ecco questa parola è importante, lo stesso edificio deve trasmettere un messaggio sul piano didattico: si costruisce con leggerezza, si risparmiano risorse e i materiali si scelgono tra quelli che hanno la proprietà di rigenerarsi in natura. Quindi nel nostro edificio abbiamo deciso di usare il legno, che non è solo bello, sicuro, antisismico e profumato: è innanzitutto energia rinnovabile. Basta piantare alberi per garantire la sostenibilità del progetto: nel giro 20 o 30 anni, dipende dall’essenza, si ha di nuovo l’equivalente del legno usato. Per ogni metro cubo di legno impiegato ci vuole una giovane pianta. Il lavoro lo fanno poi la pioggia, il sole e la terra. Si possono creare boschi e spiegare ai ragazzi che il legno usato per la loro scuola, in questo caso 500 metri cubi, è stato sostituito da quella piccola foresta di 500 alberi. In ogni regione nasceranno così nuovi boschi, in base alle essenze del territorio.
Nella nostra scuola abbiamo pensato poi alla geotermia per riscaldarla o rinfrescarla e ai pannelli fotovoltaici per produrre energia elettrica, dovrà comunque consumare pochissimo. Franco Lorenzoni ha avuto l’idea di collocare nell’atrio dei contatori giganti che mostrino ai ragazzi quanta energia si consuma e quanta se ne produce.

Il primo piano

Saliamo al primo piano dove ci sono invece le aule che guardano sul giardino interno e si guardano tra loro. La scuola ospita una classe per ogni fascia d’età dai 3 ai 14 anni, quindi i cicli della materna, delle elementari e delle medie. Pensiamo che la condivisione di alcuni spazi tra grandi e piccoli sia importante per creare un continuo scambio di esperienze. Infatti non abbiamo previsto corridoi di passaggio ma luoghi abitati dove incontrarsi. Nel caso dei bambini più piccoli le aule, luminose, spaziose e con compensati appesi dove attaccare di tutto, si aprono con grandi vetrate su un loro giardino “privato”, un terrapieno che “vola” fino alla quota del primo piano. Un ambiente dove sono liberi di sporcarsi, giocando con la sabbia, terra, erba, foglie, sassi e rametti.

Il tetto

Infine si sale sul tetto che abbiamo pensato come il luogo della libertà, della scoperta, dell’invenzione e del sogno. Della fuga dalla città. Da sempre il tetto esercita un fascino sui bambini, perché ha qualcosa di proibito e avventuroso. Poi dal tetto, anche se non sarà più alto di 12 metri, cambia la prospettiva con cui ci si guarda intorno. Come nell’Attimo fuggente quando Robin Williams fa salire i ragazzi sui banchi perché le cose vanno viste da angolazioni diverse. È proprio in quegli anni che si formano i desideri che ci accompagneranno tutta la vita.
Se il piano terra è il luogo dello scambio con gli altri, il tetto è dove il bambino coltiva il suo immaginario personale. Sul tetto si scopre la luce, c’è l’orto dove crescere le verdure, ci sono gli animali come le galline o la capra. Questo tetto restituisce emotività a un luogo dove stanno i bambini ai quali, come dice Paolo Crepet, oggi manca soprattutto l’affettività.
Immaginiamo il tetto come un grande workshop a cielo aperto, con pergole che ombreggiano laboratori di botanica, di scienze o di astronomia elementare. Qui ci sarà la macchina eliotermica che cattura l’energia solare. Questa terrazza sarà anche un osservatorio meteorologico: si possono studiare le stagioni, annotare i millimetri di pioggia caduta, la temperatura. Con un telescopio i bambini scopriranno i pianeti, la Luna e le galassie. Da qui il loro sguardo può spaziare verso l’infinito, perché i bambini pensano grande.

da: Il Sole 24 Ore. Domenicale, domenica 11 ottobre 2015