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lunedì 9 aprile 2012

Lorenzetti: affreschi per il Palazzo Pubblico

Fra il 1338 e il 1339 Ambrogio Lorenzetti affrescò in una sala del Palazzo Pubblico di Siena, per incarico dei Nove che allora governavano la città, le immagini del Buono e del Mal Governo, gli effetti di questo e di quello: sulla parete più corta della stanza (l’altra è occupata dall'unica grande finestra) è la rappresentazione allegorica del Buon Governo: in alto, Sapientia regge una grande bilancia, sotto l'imponente figura della Giustizia, cogli occhi rivolti a lei, ne tiene in equilibrio i piatti (su questi, due angeli amministrano la giustizia distributiva e comutativa) e fa scendere due corde che la Concordia, subito sotto, stringe ed unisce. La fune è raccolta da ventiquattro personaggi che se la passano l’un l’altro fino ad essere saldamente tenuta nella destra del grande personaggio del Ben Comune, seduto in trono, vestito dei colori di Siena (bianco e nero), col simbolo della città ai piedi (la lupa che allatta i gemelli): lo sovrastano le tre virtù teologali, Fides, Charitas e Spes, mentre gli sono accanto le quattro virtù cardinali, oltre a Pax e Magnanimitas. Ai piedi del Ben Comune, una piccola folla di soldati, fanti e militari a cavallo, quelli a destra più armati e minacciosi, che tengono a bada una fila di prigionieri incatenati, mentre due signori si sottomettono offrendo i loro castelli.
Sulla parete immediatamente adiacente Lorenzetti raffigurò la città di Siena (si riconosce il Duomo, nell’angolo, entrando a sinistra) e, oltre le mura, la vita sicura e felice delle campagne; nella città spicca sul compatto sfondo di palazzi, case e torri, l’attività dei suoi abitanti: mercanti nelle botteghe, contadini venuti a vendere i loro prodotti, artigiani (il sarto, un tessitore, un orefice), un maestro di scuola. E poi ancora sui tetti l’alacre operosità di muratori intenti ad abbellire la città. Alla laboriosità si affianca la gioia: un corteo nuziale, un coro di dieci fanciulle che danzano e cantano, un gruppo di nobili, che a cavallo esce verso la campagna per andare a caccia con il falcone. Qui si vedono i lavori della vigna, del grano, una fila di mercanti e di contadini, campi e boschi. Lontano è il porto di Talamone, la speranza sempre delusa dei senesi, mentre nel cielo vola Securitas. Di fronte, su un’unica parete si vede concentrata la rappresentazione del Mal Governo e dei suoi effetti nella città (che è già la sua dimora) e nella campagna devastata insicura e sterile.
Il Mal Governo, in aspetto diabolico, è attorniato da sei vizi: Crudelitas, Proditio, e Fraus e poi ancora Furor, Divisio e Guerra. Al di sopra, in antitesi alle virtù teologali della parete accanto, sono Avaritia, Superbia, Vanagloria. Ai piedi del Mal Governo la Giustizia a terra, spezzata la sua bilancia, e poi ancora scene di violenza e di uccisione. Nella città deserta di lavoro e di abitanti (solo un fabbro sta approntando le armi) la soldatesca va distruggendo gli edifici e minacciando chi ancora non è riuscito a fuggire. Nella campagna rovine di villaggi, di chiese, di uccisioni, e fughe, mentre nel cielo scuro vola minaccioso Timor.
Sopra e sotto gli affreschi due fregi contenenti medaglioni, fregi che purtroppo hanno subito nel tempo molti guasti e rimaneggiamenti. Cosi, per la parte che comprende l’allegoria del Buon Governo, è rimasta identificabile, nella cornice superiore, sola la figura del Sole, posta proprio sopra al Ben Comune. Nell’inferiore si vedono ancora Grammatica, Dialettica (Retorica è sparita): le arti del Trivio. Sulla parete adiacente (gli effetti del Buon Governo in città e in campagna) vediamo nel fregio inferiore le arti del Quadrivio (Aritmetica, Geometria, Musica e Astrologia e in più Filosofia), in quello superiore i pianeti e le stagioni benefiche: Venere, la Primavera, Mercurio, l’Estate e la Luna; c’è anche uno stemma con le chiavi di san Pietro.
Dalla parte del Mal Governo invece, in alto, i pianeti e le stagioni malefiche: Saturno, Giove e Marte, Autunno e Inverno, e i gigli di Francia. La sequenza dei pianeti, partendo dalla Luna, è quella tradizionale; quella ad esempio, del Paradiso dantesco. Sotto dovevano essere rappresentati i tiranni dell’antichità: unico visibile è Nerone nell’attimo di gettarsi sulla spada. La complessa allegoria è resa più chiara da scritte che commentano l’affresco: Timor e Securitas reggono due grandi cartigli, e ancora un altro è posto sotto i ventiquattro personaggi a privilegiare la parte positiva del Buon Governo: l’affresco è stato commissionato dai Nove a propagandare la loro politica. E poi ancora una lunga scritta corre sotto il bordo inferiore degli affreschi immediatamente prima dei fregi, come spiegazione continua alle immagini che si susseguono.

Nikolaj Rubinstein, che ha dedicato la sua attenzione esclusivamente alla rappresentazione della allegoria del Buon Governo, ha messo in rilievo che i due concetti che maggiormente vollero essere sottolineati in questa parte dell'affresco sono «The Aristotelian theory of justice in its contemporary scholastic and juristic interpretation» e quello ancora aristotelico del Bonum Commune e perciò della subordinazione dell'interesse privato a quello della comunità. A questi concetti fu assicurata la divulgazione dal Domenicano Remigio de’ Girolami, il quale compose fra il 1302 e il 1304 il De bono paci e il De bono communi (e l’incompiuta De iustitia). Il Rubinstein osserva che ovvia rappresentazione di quella teoria nel nostro affresco è la distinzione fra giustizia distributiva e commutativa ma sorvola sulla stranissima rappresentazione, né aiutano a capirla le fonti da lui indicate, Aristotele e Tommaso. In realtà per comprendere le figure poste sotto ai due tituli bisogna invertirli. Cioè bisogna leggere a sinistra dove l’angelo ha spada e corona: comutativa; a destra, dove l’angelo ha monete e armi: distributiva. Con questa inversione che mi è stata suggerita da Gianfranco Fioravanti, diventano finalmente chiari i due soggetti e guida sicura le fonti. Sappiamo che già nel XV secolo alcuni versi dell’affresco non erano più leggibili, e certamente dovute a restauri innovatori sono alcune parole e lettere del dipinto nel suo stato odierno. Poiché le due parole hanno l’ultima parte in comune è abbastanza facile supporre che siano state malamente lette una volta deterioratesi.

Chiara Frugoni, "Una lontana città", Einaudi 1983, pp. 136-138.

domenica 8 aprile 2012

Le prove di Marina

Tra i magneti della Abramovic perdo il tempo e lo spazio

di Francesca Bonazzoli

Ho fatto la performance guidata da Marina Abramovic al Padiglione d'arte contemporanea di Milano, il primo nuovo lavoro dell'artista serba dopo il clamoroso successo di due anni fa con «The artist is present» al MoMa di New York. Ma prima di raccontarvi le mie emozioni è indispensabile una premessa: sono una fan di Marina. Non semplicemente perché stimo il suo lavoro, ma perché sono stata sedotta dal suo magnetismo fin dalla prima volta che l'ho vista, nel 1998. Ero a Berlino per la prima edizione della Biennale; un assistente di Gerhard Richter mi trascinò al Kunstwerke, allora un edificio diroccato nel cuore della ex Berlino comunista, e lì Marina mi apparve come un'icona, illuminata da un grande faro di luce nella penombra di uno stanzone fumoso e spoglio, nuda contro un muro a quattro metri di altezza dal pavimento, appena sostenuta dal sellino di una bicicletta e due pioli sotto i piedi. Sotto di lei un mastello di acqua bollente e tutt'intorno a lei centinaia di persone che entravano e uscivano. Era un caos claustrofobico, ma lei, dall'alto, ci vedeva tutti senza guardarci. Da quella volta la penso sempre come un'aquila imperiale che scruta il mondo da altezze per noi irraggiungibili. Dopo un'ora sono uscita anche io, ma ancora riesco a sentire quella forte sensazione di averla abbandonata in pasto alla curiosità morbosa della folla. Marina era già riuscita ad attrarmi nel suo campo di energia.
Nessuna, fra le super star dell'arte contemporanea, è come lei: l'unica che non finge, che non ha paura di incontrare giornalisti, studenti, fan, il pubblico in generale. È accessibile a tutti e nella vita si espone al pericolo esattamente come nelle performance. Niente può ferirla perché è disponibile a farsi ferire. Nulla può spaventarla perché ha sempre paura prima di affrontare le performance. La sua cifra sono la libertà e l'autenticità. L'ho seguita alla Fondazione Ratti di Como dove ammaliò il pubblico raccontando per due ore la sua vita. Ho pianto per lei a Basilea dove stava sdraiata in una nicchia sepolcrale, abbracciata nuda a uno scheletro, gli occhi lucidi di lacrime. Volevo accarezzarla, dirle di alzarsi e andare via e alla fine non ho retto al dolore che provavo nello stare lì inerte a osservarla come un voyeur, senza poterla aiutare.
A Milano, nella sede della casa editrice Charta, mi sono fatta vestire da lei con gli energy clothes, gli abiti energetici. L'ho vista via via trasformarsi da severa masochista in dolce sciamano. Ma sempre, in lei, mi ha sedotto quella miscela, così travolgente perché autentica, di amore e crudeltà. A Milano, ieri, ha scritto ancora una nuova pagina della performance art, battezzata «the Abramovic method», e ha allargato gli spazi dell'arte fino a confini finora mai esplorati. Per la prima volta, infatti, sono state ribaltate le parti: l'artista spariva, mentre il pubblico diventava il protagonista. Prima abbiamo firmato un impegno a completare fino in fondo le due ore e mezza di performance, poi ci hanno fatto vestire con dei grembiuli bianchi. Marina ci ha guidato negli esercizi di rilassamento e infine ci ha chiesto di indossare una cuffia per isolarci dai rumori esterni e di chiudere gli occhi. Da quel momento lei è scomparsa (io ho sentito un calo di tensione e non ho smesso di sperare che tornasse) mentre i suoi assistenti ci hanno guidato nelle sale del Pac, prima seduti su un'alta seggiola accanto a una seggiolina bassa poggiata sopra cristalli di quarzo, quella per lo spirito. Facevo fatica a rilassarmi, ma ho percepito la differenza fra il mio corpo e il mio spirito tanto che più volte ho sentito la necessità di allungare la mano sulla piccola spalliera, per affetto. Poi siamo stati in piedi sotto un magnete: la sua forza mi faceva barcollare e stancare restituendomi chiara la misura del mio scarso dominio sul corpo. Infine, ci siamo sdraiati su una panca con sotto un grosso quarzo e lì, finalmente, mi sono ricaricata di energia.
Ho riflettuto sul tempo e il silenzio, ho ascoltato il mio corpo e i suoi limiti, ma rispetto alle altre performance di Marina, mi è mancata la sua presenza magnetica e penso sia mancata anche al resto del pubblico che assisteva. Ho capito che non possiamo tutti trasformarci in artisti, tuttavia è la prima volta che ho sperimentato l'arte come assenza di spazio e tempo. Con il metodo Abramovic l'arte diventa assenza, buco nero di assoluto. Cioè quello cui hanno teso tutti gli artisti: l'eternità. Dunque se mi chiedete se questa è arte rispondo sì, e anche nella più classica tradizione occidentale: dai fondi oro bizantini a Joseph Beuys passando per la Sistina di Michelangelo, il Suprematismo di Malevic, «Lo spirituale nell'arte» di Kandinskij, ovvero tutta l'arte che si è proposta di elevare lo spirito umano verso le cose ultime. Ma forse questa espansione radicale è ora talmente senza confini da portarla a collassare verso un vuoto che qualcuno dovrà pur tornare a colmare. Forse Marina stessa.

da: Corriere della Sera, 20 marzo 2012, p. 44

E la vita irruppe nell' opera per qualcosa di irripetibile

Un attacco al mercato e al «feticcio» da vendere

di Vincenzo Trione

Nel corso dei secoli, si è spesso pensato il quadro come una complessa macchina linguistica e simbolica da custodire dentro la cornice, simile a una frontiera capace di marcare una distanza dalle pareti. Poi, è accaduto qualcosa. Si è frantumato un sistema di valori. Innanzitutto, gli spettacoli futuristi, rivolti a suscitare reazioni violente nel pubblico. E, nel secondo dopoguerra, l'Action painting: la danza di Pollock, che si dispone sulla tela, invadendola con sgocciolamenti di colori. In seguito, le provocatorie azioni dadaiste e quelle surrealiste. Infine, ci sono state esperienze estreme come l'happening, fluxus, la land art, la body, il graffitismo, il post-human. Avventure accomunate dalla volontà di ripensare l'idea stessa del fare arte. Non ci si limita più a dipingere o a scolpire. Abbandonato l'atelier, l'artista progetta ambienti in cui allestisce messe in scena (l'happening); dà importanza anche a gesti minimi come i suoni, il respirare, il fumare, il sedersi su una sedia (fluxus); imprime i suoi segni spesso invisibili all'interno del paesaggio naturale (land art); tratta se stesso come materia da usare, aggredire, modellare (body art); invade le facciate di palazzi o di vagoni della metropolitana con scritture impazzite (graffitismo); manipola il suo stesso corpo, con interventi chirurgici di diverso tipo, attuando anamorfosi spesso repellenti (il posthuman).
L'intento è quello di sperimentare ardite costruzioni nelle quali si superi ogni filtro rappresentativo. Ci si porta al di là dei media tradizionali (pittura e scultura), per inventare un genere nuovo: la performance. In essa, si cancella ogni distinzione tra arte e vita: la vita entra nell'arte, e viceversa. L'opera non è più un universo compiuto e chiuso; rinuncia alle sue leggi «classiche». Si offre come territorio sensibile all'irruzione del vissuto, spazio dove i tempi della creazione convergono con i ritmi dell'esistenza.
In polemica con Duchamp - i ready made sono esercizi concettuali che si sottraggono al mito dell'unicità - i protagonisti di happening, fluxus, land art, body, graffitismo e post-human, pur con accenti diversi, concepiscono i loro interventi come qualcosa di irripetibile. I loro «show» non possono essere replicati: esistono solo nel momento in cui vengono eseguiti. Si svolgono in diretta e chiedono di essere completati dal pubblico. Sono sintesi tra teatro, danza, musica. In essi, nulla è finto: tutto, è reale. Determinante è il contesto in cui avvengono: gallerie, musei. Cruciale non è la «cosa» in sé, ma l'accadere, il succedere: lo svolgersi dell'evento, il tempo come flusso. La forma non come «fatto» costituito e risolto, ma come processo, divenire. A queste tensioni rinvia il verbo inglese to perform, che allude al compiere qualcosa: al gusto per una spettacolarizzazione non specializzata nell'ambito della recitazione o dell'esecuzione musicale, ma estesa anche a manifestazioni povere ed elementari.
Non senza eccessi e facili scandalismi, il performer non è un regista, che programma situazioni da contemplare. Ma si colloca sul medesimo piano degli spettatori. Propone un esplicito «attacco» contro le regole del mercato, che cerca sempre la commerciabilità dei prodotti. Non asseconda le consuetudini dei collezionisti, che prediligono quadri, fotografie e sculture da mostrare nelle loro case. Si affida ad atti che hanno una funzione disturbante: disorientare, scuotere, talvolta ferire. Siamo dinanzi a una pratica ambigua. Da un lato, si celebra la centralità assoluta dell'autore: l'opera si dà solo in quanto esibizione della corporeità. Dall'altro lato, si tende verso una profonda smaterializzazione: si mette in discussione l'idea dell'arte come feticcio da vendere.
Ma cosa resta di una performance? Talvolta, alcune reliquie. Spesso, «resoconti» filmici o fotografici: grazie alla video-recording, fondata su riprese, zoomate e primi piani, è possibile conservare memorie di rappresentazioni effimere. Questa necessità di «conservazione» rivela le contraddizioni sottese alle opzioni dei performer. Per un verso, l'urgenza di spingersi verso territori inesplorati. Per un altro verso, il legame con un bisogno che, da secoli, accompagna gli artisti: restare nel futuro, continuare a vivere, lasciare impronte di sé. Del resto, l'artista autentico - anche il più nichilista - come ha scritto Javier Marías, è sempre animato da una speranza: «Lasciare una qualche traccia del suo passaggio sulla Terra».

da: Corriere della Sera, 20 marzo 2012, p. 45