Fra il 1338 e il 1339 Ambrogio Lorenzetti affrescò in una sala del Palazzo Pubblico di Siena, per incarico dei Nove che allora governavano la città, le immagini del Buono e del Mal Governo, gli effetti di questo e di quello: sulla parete più corta della stanza (l’altra è occupata dall'unica grande finestra) è la rappresentazione allegorica del Buon Governo: in alto, Sapientia regge una grande bilancia, sotto l'imponente figura della Giustizia, cogli occhi rivolti a lei, ne tiene in equilibrio i piatti (su questi, due angeli amministrano la giustizia distributiva e comutativa) e fa scendere due corde che la Concordia, subito sotto, stringe ed unisce. La fune è raccolta da ventiquattro personaggi che se la passano l’un l’altro fino ad essere saldamente tenuta nella destra del grande personaggio del Ben Comune, seduto in trono, vestito dei colori di Siena (bianco e nero), col simbolo della città ai piedi (la lupa che allatta i gemelli): lo sovrastano le tre virtù teologali, Fides, Charitas e Spes, mentre gli sono accanto le quattro virtù cardinali, oltre a Pax e Magnanimitas. Ai piedi del Ben Comune, una piccola folla di soldati, fanti e militari a cavallo, quelli a destra più armati e minacciosi, che tengono a bada una fila di prigionieri incatenati, mentre due signori si sottomettono offrendo i loro castelli.
Sulla parete immediatamente adiacente Lorenzetti raffigurò la città di Siena (si riconosce il Duomo, nell’angolo, entrando a sinistra) e, oltre le mura, la vita sicura e felice delle campagne; nella città spicca sul compatto sfondo di palazzi, case e torri, l’attività dei suoi abitanti: mercanti nelle botteghe, contadini venuti a vendere i loro prodotti, artigiani (il sarto, un tessitore, un orefice), un maestro di scuola. E poi ancora sui tetti l’alacre operosità di muratori intenti ad abbellire la città. Alla laboriosità si affianca la gioia: un corteo nuziale, un coro di dieci fanciulle che danzano e cantano, un gruppo di nobili, che a cavallo esce verso la campagna per andare a caccia con il falcone. Qui si vedono i lavori della vigna, del grano, una fila di mercanti e di contadini, campi e boschi. Lontano è il porto di Talamone, la speranza sempre delusa dei senesi, mentre nel cielo vola Securitas. Di fronte, su un’unica parete si vede concentrata la rappresentazione del Mal Governo e dei suoi effetti nella città (che è già la sua dimora) e nella campagna devastata insicura e sterile.
Il Mal Governo, in aspetto diabolico, è attorniato da sei vizi: Crudelitas, Proditio, e Fraus e poi ancora Furor, Divisio e Guerra. Al di sopra, in antitesi alle virtù teologali della parete accanto, sono Avaritia, Superbia, Vanagloria. Ai piedi del Mal Governo la Giustizia a terra, spezzata la sua bilancia, e poi ancora scene di violenza e di uccisione. Nella città deserta di lavoro e di abitanti (solo un fabbro sta approntando le armi) la soldatesca va distruggendo gli edifici e minacciando chi ancora non è riuscito a fuggire. Nella campagna rovine di villaggi, di chiese, di uccisioni, e fughe, mentre nel cielo scuro vola minaccioso Timor.
Sopra e sotto gli affreschi due fregi contenenti medaglioni, fregi che purtroppo hanno subito nel tempo molti guasti e rimaneggiamenti. Cosi, per la parte che comprende l’allegoria del Buon Governo, è rimasta identificabile, nella cornice superiore, sola la figura del Sole, posta proprio sopra al Ben Comune. Nell’inferiore si vedono ancora Grammatica, Dialettica (Retorica è sparita): le arti del Trivio. Sulla parete adiacente (gli effetti del Buon Governo in città e in campagna) vediamo nel fregio inferiore le arti del Quadrivio (Aritmetica, Geometria, Musica e Astrologia e in più Filosofia), in quello superiore i pianeti e le stagioni benefiche: Venere, la Primavera, Mercurio, l’Estate e la Luna; c’è anche uno stemma con le chiavi di san Pietro.
Dalla parte del Mal Governo invece, in alto, i pianeti e le stagioni malefiche: Saturno, Giove e Marte, Autunno e Inverno, e i gigli di Francia. La sequenza dei pianeti, partendo dalla Luna, è quella tradizionale; quella ad esempio, del Paradiso dantesco. Sotto dovevano essere rappresentati i tiranni dell’antichità: unico visibile è Nerone nell’attimo di gettarsi sulla spada. La complessa allegoria è resa più chiara da scritte che commentano l’affresco: Timor e Securitas reggono due grandi cartigli, e ancora un altro è posto sotto i ventiquattro personaggi a privilegiare la parte positiva del Buon Governo: l’affresco è stato commissionato dai Nove a propagandare la loro politica. E poi ancora una lunga scritta corre sotto il bordo inferiore degli affreschi immediatamente prima dei fregi, come spiegazione continua alle immagini che si susseguono.
Nikolaj Rubinstein, che ha dedicato la sua attenzione esclusivamente alla rappresentazione della allegoria del Buon Governo, ha messo in rilievo che i due concetti che maggiormente vollero essere sottolineati in questa parte dell'affresco sono «The Aristotelian theory of justice in its contemporary scholastic and juristic interpretation» e quello ancora aristotelico del Bonum Commune e perciò della subordinazione dell'interesse privato a quello della comunità. A questi concetti fu assicurata la divulgazione dal Domenicano Remigio de’ Girolami, il quale compose fra il 1302 e il 1304 il De bono paci e il De bono communi (e l’incompiuta De iustitia). Il Rubinstein osserva che ovvia rappresentazione di quella teoria nel nostro affresco è la distinzione fra giustizia distributiva e commutativa ma sorvola sulla stranissima rappresentazione, né aiutano a capirla le fonti da lui indicate, Aristotele e Tommaso. In realtà per comprendere le figure poste sotto ai due tituli bisogna invertirli. Cioè bisogna leggere a sinistra dove l’angelo ha spada e corona: comutativa; a destra, dove l’angelo ha monete e armi: distributiva. Con questa inversione che mi è stata suggerita da Gianfranco Fioravanti, diventano finalmente chiari i due soggetti e guida sicura le fonti. Sappiamo che già nel XV secolo alcuni versi dell’affresco non erano più leggibili, e certamente dovute a restauri innovatori sono alcune parole e lettere del dipinto nel suo stato odierno. Poiché le due parole hanno l’ultima parte in comune è abbastanza facile supporre che siano state malamente lette una volta deterioratesi.
Chiara Frugoni, "Una lontana città", Einaudi 1983, pp. 136-138.