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giovedì 15 giugno 2017

Città ideali, sogno o incubo?

di Alessandro Beltrami

I turisti che solcano la Toscana in lungo e in largo non possono fare a meno di sostare a Pienza, la città ideale che papa Pio II Piccolomini ricavò dal natio borgo di Corsignano. Così come chi visita Mantova spesso allunga il suo giro per toccare Sabbioneta, la piccola Roma eretta da Vespasiano Gonzaga nel secondo Cinquecento. Ma in Italia i centri che hanno tradotto in realtà l’utopia sono molti. Fabio Isman ne passa in rassegna una selezione e diversi altri ne segnala in Andare per le città ideali (Il Mulino, pagine 144, euro 12,00), bel libro che sta tra il racconto di viaggio, la guida d’autore, il saggio (documentatissimo) di storia dell’arte, ma che si legge come un romanzo. Isman prima di tracciare un itinerario tra vie e piazze, esplora l’elemento teorico. La città perfetta – in virtù della sua natura intellettuale – nasce infatti a due dimensioni. La possiamo osservare in tavole, affreschi e disegni, come in numerosi trattati, che in Vitruvio fondano le proprie radici: dall’Alberti al Filarete e Francesco di Giorgio Martini fino agli schizzi di Leonardo. Il concetto di “città ideale” è antico. Lo espone Platone e lo richiama Aristotele. Il mondo rinascimentale, nella sua ricerca dell’armonia del cosmo, è affascinato dalla possibilità di un ambiente urbano la cui forma rispecchi, nella disposizione, nelle proporzioni e nella gerarchia, quella di una società armonica perché perfettamente regolata. Nasce da qui la tradizione letteraria inaugurata dall’ Utopia di Tommaso Moro. Un tracciato a scacchiera o stellare di vie ampie e regolari in cui si aprono piazze, edifici uniformi per altezza e stile è il comune denominatore. Isman prende le mosse addirittura da Aquileia romana per poi muoversi tra i centri sorti durante il Rinascimento (Pienza e Sabbioneta, ma anche Acaya nel leccese, Palmanova in Friuli, Terra del Sole in Romagna) e nel Seicento (San Martino al Cimino, nei pressi di Viterbo, in cui Francesco Borromini – su commissione di donna Olimpia Maidalchini – “inventa” le case a schiera). Isman fa poi un salto temporale e sociale, con i villaggi industriali – la settecentesca filanda borbonica di San Leucio a Caserta e i più recenti Crespi d’Adda in Lombardia e Rosignano Solvay, company-town nel livornese – per arrivare alle città fondate dal regime fascista, da Latina e Sabaudia, nel Lazio, a Arborea e Fertilia in Sardegna. È un tour appassionante e allo stesso tempo inquietante. Le città ideali dei dipinti rinascimentali sono prive di presenze umane, nonostante le proporzioni siano a misura d’uomo. Sono costruzioni di natura filosofica, la loro purezza cristallina, e quindi “minerale”, non sembra adatta alla vita “organica”. Già nella sua elaborazione teorica e poi con decisione nel salto nella realtà, la città ideale diventa tema dell’architettura militare. Uniformità degli spazi e una griglia predeterminata di ruoli e gerarchie sono pregi apprezzati dal sistema di vita militare, in cui personalità e identità passano in secondo piano. La città stellata diventa il modello per piazzeforti in tutta Europa. Palmanova, costruita dalla Serenissima nel 1593, è la capostipite ma la Sforzinda filaretiana ne è il modello. Una città fortezza è anche Terra del Sole fondata in Romagna nel 1564 da Cosimo I de’ Medici ai confini del suo Granducato. Visivamente è una delle migliori incarnazioni dei principi della città ideale. Ma, come ben descrive Isman, era una formidabile prigione che ancora reca tracce – graffite sui muri delle celle e registrate nei ricchi archivi – delle torture e dei supplizi. «Terra del Sole – scrive – non è soltanto un piacere assoluto per gli occhi, ma anche un’angoscia per la mente e il cuore». Il sogno dell’umanesimo si riversa nell’antiumano. Il vero tema delle città ideali (antiche e contemporanee) è l’esercizio del potere. Il fascino ipnotico che promanano è lo stesso del giardino di Armida – che è poi quello di ogni totalitarismo: la chimera dell’irrealtà, il mondo perfetto ma contro natura (e quindi diabolico), che cela inganno e dominio. Se l’avesse conosciuta, forse Seebald avrebbe incorporato Terra del Sole in Austerlitz. Il protagonista che dà nome al romanzo studia le strutture costruite secondo i canoni geometrici delle città ideali e la loro natura di fortezze e prigioni, luoghi cioè di violenza e sopraffazione. È una critica drammatica alla ragione cartesiana, il cui destino sembra essere il rovesciamento nella follia. Austerlitz descrive la settecentesca città fortificata e prigione politica di Theresienstadt, in Boemia (oggi Terezin), come «costruita secondo un rigoroso schema geometrico come l’ideale Città del sole di Campanella». Il nazismo ne fece un campo di concentramento ideale e beffardo, «modello – scrive Seebald – di un mondo dischiuso dalla razionalità e regolamentato fin nei minimi dettagli». La perfetta organizzazione urbana facilita il controllo oppressivo e la distruzione dell’uomo come individuo, prima che come corpo. L’astrazione dei principi geometrici della città ideale strumentalmente si traduce in spazi perfetti per sopprimere il libero arbitrio. Non si può dimenticare che una “città ideale” è il Panopticon: il carcere inventato dall’Età dei Lumi, omogeneo, razionalmente organizzato, centralizzato, totalmente controllabile. Portando il paragone all’estremo, si potrebbe dire che il processo di alienazione non è dissimile da quello innescato dalle architetture concentrazionarie delle periferie urbane, a loro modo “architetture ideali” sgorgate dalle ambizioni utopiche della modernità. Fabio Isman osserva che le città ideali sono «il frutto di visioni laiche e quasi mai religiose». C’è da chiedersi se questa trasformazione del trionfo della ragione in barbarie non sia contro la sua natura ma ne dipenda direttamente, così come l’inevitabile riversarsi in regime dittatoriale caratterizza tutte le utopie politiche, dalla Rivoluzione francese al Socialismo reale, che hanno fatto della ragione un fondamentalismo. Non è il sonno ma il sogno della ragione (e in originale l’incisione goyesca, con il termine sueño, è di una tragica ambiguità) a generare mostri.


da: Avvenire, 19 febbraio 2016

mercoledì 8 giugno 2016

Monza, il flop del museo civico Spesi 300 mila euro, incassati 18 mila

di Riccardo Rosa

Dovrebbe diventare il «gioiellino» della cultura monzese, ma per ora il Museo civico di via Teodolinda sta costando alle casse comunali come un diamante. Inaugurato il 28 giugno del 2014, dopo circa dieci anni di lavori e un costo complessivo di oltre cinque milioni di euro, lo spazio espositivo ha chiuso il 2015 con un bilancio da profondo rosso. Il consuntivo parla di 306 mila euro di costi di gestione, a fronte di soli 18 mila euro di ricavi. Vale a dire un gap di 288 mila euro che negli ambienti culturali e politici monzesi sta provocando più di una riflessione sulla reale possibilità dell’amministrazione comunale di generare reddito attraverso la cultura. Così, mentre Villa Reale decolla grazie a mostre ed eventi di richiamo internazionale e il museo del Duomo cresce grazie ai suoi tesori, il Museo civico ricavato nella quattrocentesca Casa degli Umiliati per riportare alla luce la Pinacoteca civica dopo 40 anni, arranca. In realtà, il 2015 è stato avaro solo sotto il profilo economico perché i visitatori non sono mancati. Solo che le partecipazioni di massa si sono verificate in corrispondenza di aperture gratuite, magari collegate a eventi collaterali come i laboratori per bambini organizzati durante i fine settimana. «Teniamo presente che non stiamo parlando di Brera o di un’esposizione dove la gente torna magari più di una volta — commenta Raffaella Fossati, presidente dell’associazione Amici dei Musei —. Forse servirebbe un po’ più di coraggio. La struttura ha delle bellissime sale laterali vuote che potrebbero essere sfruttate meglio. Un esempio? La mostra di Caravaggio a Villa Reale avrebbe potuto essere ospitata nei Musei civici».
In questa direzione vanno le numerose iniziative adottate dall’associazione, come le visite guidate gratuite. L’assessore alla Cultura, Francesca Dell’Aquila, spiega che i costi di gestione sono incomprimibili. «Stiamo cercando di limarli — sottolinea —, ma più di tanto non si può fare. Per ora siamo in una fase di rodaggio, ma sono sicura che le iniziative che abbiamo in cantiere porteranno frutti». In particolare, sul tavolo dell’assessore ci sono due progetti: l’organizzazione di visite guidate per non vedenti e non udenti e la possibilità di acquistare un biglietto abbinato al museo del Duomo. Il dettaglio dei conti del Museo dice che circa la metà dei 306 mila euro dei costi di gestione è data dal personale (99 mila euro per 4 persone già dipendenti del Comune) e da iniziative culturali esterne al museo che incidono per 60 mila euro, mentre il resto della cifra è composto dai costi per la sicurezza (93 mila euro), da attività varie (24 mila euro) e dalle utenze (24 mila euro). Secondo Paolo Piffer, capogruppo in Consiglio comunale della lista civica PrimaVera Monza, la chiave per svoltare potrebbe essere un migliore impiego del personale. «Il Museo ha solo un sito Internet — commenta Piffer —, ma è senza profilo Twitter e la pagina Facebook potrebbe essere aggiornata con più frequenza. Facendo un po’ di formazione a uno o due dei quattro dipendenti si potrebbe sfruttare meglio il mondo del web e diffondere online con maggior efficacia attività e contenuti. Non mi piace l’atteggiamento rinunciatario che la giunta ha adottato. Sono certo che con iniziative di maggior respiro, il museo potrebbe realmente diventare il gioiellino che tutti si aspettano».

da: Corriere della Sera Milano, 17 maggio 2016

domenica 1 maggio 2016

Islam e Occidente, perché tutto passa per le immagini?

di Paolo Monti

In anni recenti, numerose occasioni di dibattito, e talvolta di conflitto, fra Occidente e mondo islamico, sono nate proprio intorno alla questione della visibilità, cioè di che cosa si debba vedere e di che cosa non si debba vedere: il velo e i simboli religiosi nello spazio pubblico, le vignette e i film satirici contro l'islam, le immagini di guerra e tortura in Iraq, la distruzione di opere d'arte antica in Siria e Iraq, i filmati di esecuzioni e decapitazioni da parte di Daesh, le proteste di massa durante le “primavere arabe” e in Turchia, e molti altri. Perché tanta tensione intorno a dove vanno e a dove non vanno gli sguardi? Perché tali scontri riguardo a che cosa è rappresentato e a che cosa non deve esserlo?
Le singole questioni sono fra loro, naturalmente, eterogenee e ciascuna di esse per essere compresa appieno merita una riflessione distinta. Tuttavia, il ricorrere trasversale della questione della visibilità indirizza verso una differenza culturale che si rende registrabile attraverso tutte quelle circostanze. Aggiungendo a tale divario la situazione di visibilità pervasiva tipica della scena multiculturale e mediatica contemporanea, ecco che si comprende come le tradizioni visive di Oriente e Occidente si trovino non solo messe alla prova ciascuna al proprio interno, ma anche poste in immediato reciproco contrasto. [...]
Mai come nel nostro tempo il flusso di immagini è stato intenso e pervasivo. Tale condizione è stata spesso ottimisticamente abbracciata come il frutto buono di amplificate possibilità tecniche, ove al moltiplicarsi delle immagini disponibili corrisponderebbe un diretto proporzionale arricchimento delle esperienze individuali e sociali e un conseguente aumento della conoscenza e del rispetto per la diversità. L'emergere di contrapposizioni e talvolta di aperti conflitti intorno alla questione della visibilità e del nascondimento suggerisce tuttavia in modo sempre più evidente quanto quel tipo d'interpretazione delle implicazioni etiche e politiche dell'attuale sovraesposizione iconica fosse purtroppo ingenuo. La questione delle immagini, infatti, non riguarda mai semplicemente la visione di questa o quella immagine, quanto piuttosto quelli che possono essere chiamati i “regimi di visibilità” entro cui le immagini si mostrano allo sguardo condiviso. Il problema è costituito dai diversi spazi di visibilità e di nascondimento che sorgono da risposte divergenti a domande come: che cosa vediamo? Che cosa amiamo vedere e che cosa odiamo vedere? Chi deve far vedere? Chi ci dice che cosa c'è da vedere? Che cosa significa guardare insieme questa immagine? [...] In particolar modo, la sovraesposizione mediatica contemporanea pone domande importanti rispetto alla condizione di “spettatori” che riguarda la maggior parte dei cittadini, sia in Occidente sia nel mondo islamico, i quali sono chiamati dalle circostanze a diventare a propria volta più riflessivi, attivi, consapevoli. La visione, soprattutto la visione di ciò che non si vorrebbe vedere, assume spesso un carattere passivo, confina l'individuo nella sua funzione meramente “ricettiva” rispetto agli eventi, enfatizzando le reazioni emotive a breve termine ma lasciando tra parentesi la dimensione del Volere e dell'agire, e dunque in ultima istanza la fondamentale dimensione etica del proprio essere posti davanti alle immagini. Affrontare una situazione in continuo e repentino mutamento esige una capacità di giudizio che non parta innanzi tutto dalle immagini proposte, ma dalla costruzione per esse di uno spazio di comprensione adeguato. Per mettere a fuoco questa esigenza, ci viene in aiuto un'osservazione di Marie-Iosé Mondzain: «Siamo sballottati nella tempesta degli spettacoli del mondo, una Bildersturm che non ci lascia più il tempo di capire in che direzione vanno le nostre scelte e quali sono le ragioni del nostro gusto. Eppure occorre che rispetto all'immagine costruiamo scelte e prendiamo decisioni. Quali immagini scegliamo di vedere insieme? Non vedremo mai tutti la stessa cosa, ma possiamo decidere insieme di amare od odiare regimi di visibilità in cui si gioca la questione fondatrice di ogni condivisione. Non si condivide qualcosa di visibile senza costruire quel luogo invisibile che rende possibile la condivisione stessa. Alcune “iconicità” distruggono ogni tipo di condivisione nella comunicazione di un programma».
Quando l'immagine diventa “programmatica” in senso ideologico, quando diventa distruttiva perché fonte d'irriducibile conflitto, l'alternativa non può essere solo quella di assommare altre immagini di segno contrario o quella di “distrarre” l'attenzione degli spettatori verso qualcos'altro. Piuttosto può essere necessario riportarsi alla costruzione di uno spazio non prepotentemente iconico, fatto di riesame autocritico del proprio patrimonio di immagini e di cooperazione civile intorno ai bisogni emergenti, ma talvolta anche di una misurata e consapevole «sospensione della percezione», nell'espressione di Jonathan Crary, per restituire alla percezione stessa una forma di attenzione meno compulsiva e più riflessiva. Accettare la compatibilità di più simboli all'interno della sfera pubblica, evitare di rappresentare criticamente qualcosa non per un divieto ma per coltivarne una diversa comprensione, affiancare alla logica della visione da spettatori quella dell'incontro personale e dialogico, riscoprire i molti esempi di “meticciato” del linguaggio visivo che hanno caratterizzato i rapporti fra Europa e mondo islamico in architettura e nelle arti: sono molti gli esempi possibili di una relazione con le immagini che interpreti una diversa relazione fra i cittadini e le loro tradizioni religiose e secolari.
I mutamenti in atto sono occasione per favorire lo sviluppo di immaginari alternativi. nati magari dalle situazioni di conflitto, ma riflessivamente plasmati dalla consapevolezza della propria strutturale implicazione con altri. Possiamo intendere in questo senso gli immaginari come “schemi di dimenticanza e di attenzione” che indirizzano la domanda etica del soggetto circa il valore di ciò che vede e ciò che questo implica per il proprio agire personale. Indirizzando l'attenzione del soggetto potremmo dire il suo percepire e il suo trascurare gli immaginari veicolano un certo senso di corrispondenza fra le esperienze particolari dell'individuo e i significati di valenza universale, o almeno generale, propri del mondo condiviso con gli altri. Intesi in questo senso, i confini del visibile non richiamano più solo un limite che deve essere abbattuto, ma anche una soglia ove è possibile incontrare lo sguardo d'altri, uno sguardo che sfiora le medesime immagini - o forse anche immagini diverse - ma condivide rispetto a esse una domanda di senso e un bisogno di abitabilità di quello spazio che accomuna almeno tanto quanto distingue.
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Si apre con un contributo di Gilles Kepel, il celebre studioso francese autore di libri come Dio è tornato e Oltre il terrore e il martirio, il terzo ebook del progetto “Conoscere il meticciato, governare il cambiamento", realizzato dalla Fondazione Oasis per Marsilio con il contributo della Fondazione Cariplo. In Il tablet e la mezzaluna (a cura di Alessandro Zaccuri, euro 4, 99) l'attenzione si concentra sul ruolo attualmente svolto dai media nel confronto, sempre più serrato e a tratti drammatico, tra islam e mondo occidentale. Sullo sfondo degli attentati parigini alla redazione di “Chariie Hebdo” e al teatro Bataclan scorrono, tra gli altri, gli interventi di Stella Coglievina sulla normativa europea in materia di libertà di espressione, di Laura Silvia Battaglia sullo stile comunicativo di Daesh, di Viviana Premazzi sull'uso politico del rap e di Eugenio Dacrema sull'evoluzione mediatica del jihadismo. In chiusura, una riflessione dell'intellettuale turco Mutasta Akyol. Dall'ebook anticipiamo un brano del saggio di Paolo Monti.

da: Avvenire, 20 marzo 2016, p. 26

sabato 30 aprile 2016

Arte a San Bernardino [INCOMPLETO]

La Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Mantova, Cremona e Brescia ha finanziato il restauro di una serie di pregevoli tele

di Giovanni Rodella

Alla chiesa di San Bernardino sono stati da poco riconsegnati vari dipinti, restaurati per iniziativa e con finanziamenti della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Mantova, Cremona e Brescia. In questi ultimi anni si era ritenuto opportuno far convergere una consistente parte dei fondi ministeriali, richiesti per il recupero dei beni artistici non statali della provincia di Cremona, al restauro dello straordinario patrimonio di questa chiesa alla cui piena valorizzazione sono ormai da tempo impegnate tante istituzioni cremasche, pubbliche e private.
Data l'importanza che sotto il profilo pubblico la chiesa di San Bernardino riveste per l'intera città di Crema — si pensi solo al suo frequente utilizzo come auditorium — anche la Soprintendenza competente non poteva sottrarsi a questa generale mobilitazione, offrendo così il proprio concreto contributo per l'ultimazione della campagna di restauri dei dipinti in essa conservati.
Come noto, la chiesa di San Bernardino, insieme alla Cattedrale della quale è sussidiaria, concentra al suo interno un ingentissimo numero di opere d'arte, nella maggior parte eseguite nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII per le quattordici grandi cappelle che si aprono sulla grandiosa navata; e in parte minore provenienti anche da altri edifici religiosi cittadini.
Un po' tutti i maggiori artisti cremaschi, soprattutto del ‘600 e del ‘700, sono rappresentati con opere di grande rilievo. Pensiamo solo ai pittori Gian Giacomo Barbelli (1604-1656) e Giovanni Battista Lucini (1639-1686) dei quali la chiesa conserva importanti cicli di dipinti su tela e ad affresco.
Anche di Mauro Picenardi (1735-1809), forse il più grande pittore cremasco del ‘700, San Bernardino custodisce una splendida tela, raffigurante SAN FRANCESCO IN ADORAZIONE DELLA VERGINE E DI CRISTO IN GLORIA. Il dipinto, eseguito nel 1788 per la cappella del Perdono d'Assisi, sede all'interno della chiesa dell'omonimo consorzio è indubbiamente una delle opere più significative della piena maturità di questo artista, che fu esponente di una pittura particolarmente fluida e vibrante, fatta di tocchi sfrangiati e in luminosissima trasparenza, in linea con le correnti più in voga del rococò europeo. La vasta tela, che versava in condizioni conservative assai mediocri — a causa soprattutto delle deformazioni del supporto e della sporcizia inglobante pure moltissime schizzature di cera — è stata ripristinata nel 1998 dalle
restauratrici Elena Dognini e Annalisa Rebecchi che hanno anche provveduto, sempre con finanziamenti della Soprintendenza, al recupero di due piccoli dipinti raffiguranti angeli recanti un turibolo e una navicella. Le due telette, che dovevano avere funzioni meramente decorative, sono del pittore veronese Giovanni Brunelli (1644-1722), che operò a Crema nel primissimo ‘700, in particolare per la chiesa di San Bernardino, per la quale produsse dei dipinti raffiguranti l'ADORAZIONE DEI PASTORI — datato 1701 — e l'ELEMOSINA DI SANT'ELIGIO, sempre eseguiti con finanziamenti della Soprintendenza (e ad opera della restauratrice cremonese Omelia Bolzani), si è portato a intero compimento il ripristino del consistente gruppo delle opere del Brunelli.
Presente a Crema come altri pittori chiamati da fuori per far fronte ad un certo impoverimento artistico a seguito della prematura scomparsa del grande Giovan Battista Lucini (1686), il Brunelli mostrò di adattarsi alla tradizione pittorica locale, esibendo una facile vena narrativa, abbastanza vicina, per alcuni aspetti, ai modi più accattivanti di alcuni pittori cremaschi del ‘600, in particolare al Barbelli. L' ADORAZIONE DEI PASTORI — che, come reca l'iscrizione, fu eseguita a spese della congregazione di San Giuseppe — nell'impostazione a cerchio e nelle tipologie di alcune figure, in particolare dei pastori, sembra addirittura rievocare la grande pittura cremonese del tardocinquecento, di Antonio Campi e di Gervasio Gatti.
Le altre opere di San Bernardino restaurate sempre per iniziativa e con finanziamenti della Soprintendenza sono tre grandi dipinti, due dei quali del ‘600 sono da ritenersi sicuramente provenienti da altre sedi.
La prima tela, raffigurante MADONNA CON BAMBINO E I SANTI ANTONIO ABATE E ANDREA CON OFFERENTE, è situata nella seconda cappella di destra, dedicata al Perdono di Assisi. Una collocazione un po' impropria, che col tempo si spera di poter modificare, in quanto il dipinto occulta parte delle pregevoli decorazioni monocrome delle pareti. Anche se non si conosce l'autore, il recente restauro dell'opera (realizzato dalla restauratrice cremonese Elisabetta Attorrese) ha rimesso in luce la data d'esecuzione: 1601. All'interno di un tradizionale impianto compositivo piramidale, con il committente inginocchiato di profilo di fronte ai due santi, spiccano in particolare, per l'alta resa stilistico-formale, le immagini della Vergine e del Bambino.
Assai problematico si è rivelato il restauro del dipinto raffigurante SAN DIEGO IN CONTEMPLAZIONE DELLA VERGINE E DEL BAMBINO CON I SANTI FRANCESCO E BERNARDINO, attribuito a Uriele Gatti (figlio del ben più noto Bernardino) che operò, fino al 1602, soprattutto a Soncino e nei vicini territori del cremasco. La tela, da riferirsi con tutta probabilità ad un periodo compreso tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600, fu oggetto in passato di numerose ridipinture e, in varie zone, di totali rifacimenti, interventi che hanno in buona parte del tutto snaturato o completamente occultato le figure e l'impianto originale della composizione. È da presumersi che tali cambiamenti siano stati attuati poco tempo dopo l'esecuzione del dipinto, forse per un suo adattamento alla cappella in cui è attualmente collocato, che venne dedicata a san Diego nel corso del XVII secolo. Come si è riscontrato durante il restauro — eseguito dalle restauratrici Alberta Carena e Alessandra Ragazzoni — al di sotto della figura di san Diego emergevano, in trasparenza, tre sagome di figure oranti, forse i committenti, corrispondenti con tutta probabilità alla concezione originaria dell'opera. La Vergine e il Bambino non dovrebbero aver subito particolari modificazioni, e così il gruppo dei tre angeli cantori, particolare compositivo ripreso direttamente dall' ADORAZIONE DEI PASTORI di Bernardino Gatti, dipinta per la chiesa di San Pietro al Po di Cremona nel 1555.
L'ultimo dipinto restaurato è la splendida DECOLLAZIONE DEL BATTISTA CON l SANTI MARTA, FILIPPO E GIACOMO di Giovanni Battista Lucini (1639-1686). L'opera, proveniente dalla Chiesa cremasca di Santa Marta, è stata riferita agli anni 1674-75. In passato era stata integrata in alto e in basso da inserti di tela e da una cornice sagomata che modificarono la forma, con tutta probabilità ai fini di una nuova collocazione ad un altare di cui si ignora però l'ubicazione. Il dipinto, che si caratterizza per la singolare iconografia del Battista decollato attorniato da tre santi, di fronte ai quali è il piatto con la testa appena mozzata, fu purtroppo gravemente danneggiato in passato da un atto vandalico che comportò il ritaglio e l'asportazione della figura del Battista. ll difficile [pubblicato incompleto]

da: IL Nuovo Torrazzo, sabato 5 febbraio 2000

mercoledì 14 ottobre 2015

Sironi & C., si può ripulire l’arte dalla storia?

di Luigi Marsiglia

Già all’indomani della marcia su Roma, con l’effettiva presa di potere e il conseguente assestamento in chiave governativa, la realizzazione di nuove opere pubbliche doveva rispecchiare la visione dell’Italia rappresentata dal Fascismo, quel generalizzato ritorno all’ordine insieme alla rivisitazione dei fasti imperiali e a un attivismo non soltanto simbolico, grazie proprio al compito primario incarnato dall’architettura, “regina delle arti” secondo l’opinione dello stesso Mussolini. Opere che comprendevano edifici pubblici e strutture funzionali al regime, Case del fascio, Case del balilla e delle corporazioni, oppure progetti ambiziosi atti a sintetizzare passato e futuro, civiltà italica e slancio avveniristico, come la bonifica dell’agro pontino con la fondazione di intere città concepite in stile razionalista, Littoria – ribattezzata nel 1946 col nome di Latina – e Sabaudia su tutte.
Un’architettura magniloquente la quale, caratteristica comune alle dittature, si riproponeva a mo’ di riflesso celebrativo, tangibile e immediatamente intelligibile delle vittorie, assolute e in divenire, del fascismo. Da una parte l’imponenza di costruzioni contraddistinte da linee severe, dall’altra l’arte figurativa con un ruolo spesso didascalico, rigido e poco autonomo, che subentrava nel programma decorativo per immortalare in modo diretto l’epica del Duce e i destini gloriosi dell’impero risorto sui colli fatali di Roma. Molteplici opere di grandi dimensioni trovano così spazio nei maestosi saloni di rappresentanza dei palazzi disegnati dagli architetti razionalisti. Si tratta di affreschi, pitture murali e mosaici, di sculture e bassorilievi classicheggianti firmati dai più conosciuti - e riconosciuti - esponenti di quell’arte nazionale che annoverava, al proprio interno, personalità con differenti storie e una più o meno provata fede fascista.
Il caso dell’affresco allegorico L’Italia tra le arti e le scienze, realizzato nel 1935 da Mario Sironi (1885-1961) nell’aula magna della nuova cittadella universitaria di Roma, caso sollevato e discusso in questi mesi dalle pagine di “Avvenire”, ha riportato alla ribalta l’operazione di “defascistizzazione” che colpì, in maniera incisiva o lieve, quasi tutti gli interventi marcatamente ideologici eseguiti durante il ventennio: un provvedimento censorio posto in atto dopo la Liberazione. Toccò nel 1947 a Carlo Siviero, pittore agli antipodi del novecentista Sironi, il compito di cancellare dall’opera simboli e riferimenti del Ventennio: il risultato è l’affresco come lo scorgiamo oggi, ben poco “sironiano”. In occasione del restauro che si concluderà nel 2016, si è innescata la querelle se procedere e recuperarlo così com’è, oppure ripristinarne laddove possibile la versione precedente, più aderente alla visione dell’autore. Una questione di valenza storico-estetica, che deve comunque tener conto della diversità degli artisti partecipanti ai cicli decorativi dei palazzi del fascismo e i destini, altrettanto diversi, subiti dalle loro opere dopo il 25 aprile 1945.
Paradigmatico, in tal senso, è il mosaico sempre di Sironi Il lavoro fascista, titolo cambiato successivamente in L’Italia corporativa, eseguito nel 1936 per una sala del Palazzo dell’informazione di Milano, in cui si stampava all’epoca “Il Popolo d’Italia”. Caduto il fascismo, il mosaico fu semplicemente coperto da un telo, lasciando che il tempo ne logorasse tessere e colori. Fu il critico Agnoldomenico Pica a insistere perché L’Italia corporativa venisse di nuovo resa accessibile al pubblico.
Destino meno avverso ma non meno polemico per l’affresco del 1937 di Primo Conti (1900-1988) in un’aula del Palazzo di Giustizia di Milano, dove campeggia la scritta “La legge è uguale per tutti”. L’opera riporta il Cristo in trono attorniato dai potenti della terra, tra cui in prima fila e a figura intera Mussolini. La Giustizia del cielo e della terra, questo il titolo, fu oggetto di aspre critiche già prima dell’inaugurazione, quando qualche gerarca fece notare l’ambiguità della presenza del Duce tra i “giudicabili” al cospetto del trono divino. Difeso da Bottai, Grandi e Piacentini, l’affresco riuscì a scampare alla minaccia di completa scialbatura, mentre a guerra conclusa il ritratto di Mussolini verrà ricoperto da un vistoso strato di vernice, fino al restauro nel 2008. E, col ripristino, tornano le polemiche per la ricomparsa del Duce in tribunale.
Corrado Cagli (1910-1976), sostenitore con Sironi del muralismo, a fine anni Venti completa a Umbertide, in casa Mavarelli-Reggiani, un affresco di 60 metri sulla Battaglia del grano. Nel 1935, l’Opera Nazionale Balilla gli commissiona due pitture murali per la propria sede, l’edificio di Castel de’ Cesari a Roma. Una delle opere rievoca La corsa dei barberi, argomento ritenuto poco adeguato dalle autorità che ne ordinano l’immediata distruzione. Un esempio conclamato, in questo caso, di autocensura fascista. Con le leggi razziali del ’38 Cagli, nipote dello scrittore e saggista Massimo Bontempelli, è costretto a fuggire dall’Italia: si arruola nell’esercito americano e partecipa allo sbarco in Normandia.
Luigi Montanarini (1906-1998) esegue nel 1936 la pittura murale Apoteosi del Fascismo nel Salone d’onore del Coni al Foro italico, proprio alle spalle del tavolo della presidenza; qui, oltre a fasci e simboli vari del ventennio, compare uno statuario Mussolini ad arringare la folla di camicie nere. Invece di essere “defascistizzata”, che voleva dire in effetti la sua totale abrasione, l’opera è stata coperta fino al 1997 da un panno verde con impressi i cerchi olimpici: il suo svelamento ha trascinato con sé un’ondata di polemiche. Una dimostrazione di quanto sia necessario – e arduo – fare i conti con la storia, più che con l’arte.

da: Avvenire, 1 ottobre 2015

«Ecco la scuola che farei»

di Renzo Piano

Se dobbiamo costruire nuove scuole, meglio farle in periferia, e lo stesso vale per gli ospedali o gli auditorium. Questa è la scommessa dei prossimi decenni: trasformare le periferie in pezzi di città felice. Come fare? Disseminandole di luoghi per la gente, punti d’incontro e aggregazione, dove si celebra il rito dell’urbanità. Fecondando con funzioni pubbliche quello che oggi è un deserto affettivo. La città che funziona è quella in cui si dorme, si lavora, ci si diverte e soprattutto si va a scuola. Dico soprattutto perché mentre si può decidere di non visitare un museo, sui banchi di scuola ci devono passare tutti. Occuparsi di edifici scolastici è un rammendo che, ancora prima che edilizio, è sociale. Qui infatti si condividono i valori. Poco più che un anno fa sul Domenicale Franco Lorenzoni, un maestro che incarna l’innovazione della pedagogia, ha lanciato la sfida nell’articolo «Cari architetti, rifateci le scuole!». L’ho chiamato, siamo diventati amici e abbiamo lavorato, assieme a Paolo Crepet, a un nuovo modello di scuola su tre livelli.
Il piano terra è la connessione con la città, il primo quello che ospita gli spazi di studio e il tetto è il luogo della libertà e dell’esplorazione. Dell’emotività recuperata, dopo tanti edifici che assomigliano a caserme o magazzini. Troppo spesso la scuola, come scriveva Maria Montessori, è stata l’esilio in cui l’adulto tiene il bambino fino a quando è capace di vivere nel mondo dei grandi senza dar fastidio.

Il piano terra

Il nostro piano terra sarà permeabile e trasparente. Abbiamo pensato di sollevarlo dal terreno in modo che la città possa entrare, che l’edificio diventi un luogo di scambio e connessione con il quartiere. Al centro c’è un giardino con un grande albero sul quale si affacciano la palestra-auditorium, la sala prove, i laboratori dove i ragazzi si incontrano con associazioni e abitanti. Ci sono tanti pensionati che non aspettano altro che insegnare ai ragazzi a suonare il flauto, a seminare il grano, a recitare o giocare a scacchi. La scuola nasce intorno all’albero che è anche metafora della vita: d’autunno le foglie cambiano colore e cadono lasciando penetrare la luce del sole, ogni primavera si assiste al rito del rinnovamento. Con la chioma di un platano o un ippocastano che rinasce e protegge dai raggi. Poi i suoi rami ospitano gli uccelli che cercano una natura protetta: storni, tortore, pettirossi, rondini durante le migrazioni. Guardare l’albero riserva sorprese, non è mai uguale al giorno prima.
Sempre dal livello terra si alza la torre dei libri, così abbiamo chiamato la biblioteca che sale fino alla terrazza ed è aperta a tutti. Sarà una biblioteca con un’ampia collezione di libri cartacei e tanti sistemi virtuali. Ma è anche il luogo dove si conserva la memoria della scuola: dove si accumulano i disegni, gli scritti e i ricordi degli alunni. Sappiamo tutti quanto è difficile buttare via i lavori dei bambini, primi segni della creatività. In questo edificio le tracce non si buttano, si custodiscono. La scuola deve vivere per molte più ore rispetto a quelle richieste per la didattica. Si possono immaginare spazi in uso agli scolari fino al pomeriggio e poi aperti alla città fino a tarda sera, così come durante i fine settimana. Vale per la palestra, il laboratorio-bottega, la biblioteca, la cucina.
Questo è il piano dove piccoli e grandi formano l’attitudine allo scambio, dove si imparano ad apprezzare le diversità e si sviluppa la solidarietà.

Una scuola sostenibile

Qualche tempo fa mi ha scritto un gruppo di studenti chiedendo una scuola diversa: «Ogni scuola dovrà essere un presidio di sostenibilità…». Ecco questa parola è importante, lo stesso edificio deve trasmettere un messaggio sul piano didattico: si costruisce con leggerezza, si risparmiano risorse e i materiali si scelgono tra quelli che hanno la proprietà di rigenerarsi in natura. Quindi nel nostro edificio abbiamo deciso di usare il legno, che non è solo bello, sicuro, antisismico e profumato: è innanzitutto energia rinnovabile. Basta piantare alberi per garantire la sostenibilità del progetto: nel giro 20 o 30 anni, dipende dall’essenza, si ha di nuovo l’equivalente del legno usato. Per ogni metro cubo di legno impiegato ci vuole una giovane pianta. Il lavoro lo fanno poi la pioggia, il sole e la terra. Si possono creare boschi e spiegare ai ragazzi che il legno usato per la loro scuola, in questo caso 500 metri cubi, è stato sostituito da quella piccola foresta di 500 alberi. In ogni regione nasceranno così nuovi boschi, in base alle essenze del territorio.
Nella nostra scuola abbiamo pensato poi alla geotermia per riscaldarla o rinfrescarla e ai pannelli fotovoltaici per produrre energia elettrica, dovrà comunque consumare pochissimo. Franco Lorenzoni ha avuto l’idea di collocare nell’atrio dei contatori giganti che mostrino ai ragazzi quanta energia si consuma e quanta se ne produce.

Il primo piano

Saliamo al primo piano dove ci sono invece le aule che guardano sul giardino interno e si guardano tra loro. La scuola ospita una classe per ogni fascia d’età dai 3 ai 14 anni, quindi i cicli della materna, delle elementari e delle medie. Pensiamo che la condivisione di alcuni spazi tra grandi e piccoli sia importante per creare un continuo scambio di esperienze. Infatti non abbiamo previsto corridoi di passaggio ma luoghi abitati dove incontrarsi. Nel caso dei bambini più piccoli le aule, luminose, spaziose e con compensati appesi dove attaccare di tutto, si aprono con grandi vetrate su un loro giardino “privato”, un terrapieno che “vola” fino alla quota del primo piano. Un ambiente dove sono liberi di sporcarsi, giocando con la sabbia, terra, erba, foglie, sassi e rametti.

Il tetto

Infine si sale sul tetto che abbiamo pensato come il luogo della libertà, della scoperta, dell’invenzione e del sogno. Della fuga dalla città. Da sempre il tetto esercita un fascino sui bambini, perché ha qualcosa di proibito e avventuroso. Poi dal tetto, anche se non sarà più alto di 12 metri, cambia la prospettiva con cui ci si guarda intorno. Come nell’Attimo fuggente quando Robin Williams fa salire i ragazzi sui banchi perché le cose vanno viste da angolazioni diverse. È proprio in quegli anni che si formano i desideri che ci accompagneranno tutta la vita.
Se il piano terra è il luogo dello scambio con gli altri, il tetto è dove il bambino coltiva il suo immaginario personale. Sul tetto si scopre la luce, c’è l’orto dove crescere le verdure, ci sono gli animali come le galline o la capra. Questo tetto restituisce emotività a un luogo dove stanno i bambini ai quali, come dice Paolo Crepet, oggi manca soprattutto l’affettività.
Immaginiamo il tetto come un grande workshop a cielo aperto, con pergole che ombreggiano laboratori di botanica, di scienze o di astronomia elementare. Qui ci sarà la macchina eliotermica che cattura l’energia solare. Questa terrazza sarà anche un osservatorio meteorologico: si possono studiare le stagioni, annotare i millimetri di pioggia caduta, la temperatura. Con un telescopio i bambini scopriranno i pianeti, la Luna e le galassie. Da qui il loro sguardo può spaziare verso l’infinito, perché i bambini pensano grande.

da: Il Sole 24 Ore. Domenicale, domenica 11 ottobre 2015

mercoledì 15 luglio 2015

Bergamo ritrova l'Accademia Carrara e cerca spazio per la GAMeC

di Marco Adriano Perletti


Il ritorno dell’Accademia Carrara
Il 23 aprile scorso è stata riaperta la pinacoteca di Bergamo, l’Accademia Carrara, e dopo sette lunghi anni di chiusura la città ha potuto rivedere con grande gioia uno dei suoi spazi museali più amati. In un paese come l’Italia che, seppur dotato di un ricco patrimonio, è spesso portato alle cronache per episodi d'incuria, degrado o sottoutilizzo dei propri tesori artistici e culturali, la notizia della riapertura di uno storico museo depositario di autentici capolavori dell’arte è degno certamente della migliore attenzione. Una folla da grandi occasioni ha accompagnato la cerimonia d'apertura, alla presenza delle autorità cittadine e salutata dai messaggi augurali del presidente della Repubblica e del ministro ai Beni culturali. Le celebrazioni sono proseguite per tre giorni, con l'apertura gratuita del museo e un caleidoscopio di manifestazioni e iniziative collaterali che hanno ravvivato l'intero borgo di San Tomaso. A completare l'evento, sull'altro lato di piazza Carrara, la mostra dedicata a Palma il Vecchio negli spazi della GAMeC ha offerto l'occasione di approfondire la conoscenza di uno degli artisti più celebrati nella Venezia rinascimentale, attraverso capolavori provenienti da grandi musei europei.
La riapertura del museo bergamasco è il lieto epilogo che conclude un lungo percorso progettuale, avviato agli inizi degli anni 2000 e proseguito con le varie fasi di cantiere. Ripercorriamo le tappe più significative, partendo dalle origini di quella che nel corso del Novecento è diventata una delle istituzioni più importanti della città.

Dagli inizi al terzo millennio
Se oggi Bergamo può annoverare fra il suo patrimonio culturale una prestigiosa pinacoteca, lo si deve principalmente all’illuminato conte Giacomo Carrara (Bergamo 1714-1796), il generoso intenditore e mecenate che offrì alla città la sua preziosa collezione, fondò l’Accademia di belle arti ancor oggi attiva a fianco del museo, diede a queste istituzioni una giusta dimora architettonica. All’iniziale sede settecentesca seguì il progetto d'inizio Ottocento di Simone Elia, al quale si deve il caratteristico e distintivo fronte neoclassico, ancor oggi autentico emblema dell’Accademia Carrara che fronteggia l’omonima piazza e che raggruppa dietro al suo rigoroso ordine architettonico un insieme composito di corpi edilizi.
Nel tempo il corpus originario della collezione Carrara si è arricchito dei contributi di oltre 240 donatori – tra i quali meritano d’essere ricordati per il loro notevole lascito Guglielmo Lochis, Giovanni Morelli e Federico Zeri – arrivando oggi a contare quasi 1.800 dipinti, 3.000 disegni, 130 sculture, 1.300 libri antichi, oltre a un numero rilevante di oggetti d’arte vari e fondi grafici. Fra le opere custodite dal museo bergamasco ci sono capolavori che hanno segnato la storia dell’arte italiana di autori quali Baschenis, Giovanni Bellini, Bergognone, Botticelli, Canaletto, Carpaccio, Cima da Conegliano, Donatello, Fra’ Galgario, Lorenzo Lotto, Andrea Mantegna, Giovan Battista Moroni, Raffaello, Piccio, Pisanello, Pellizza da Volpedo, Tiepolo, Tiziano. Dopo un primo periodo di amministrazione privata successivo la morte del conte, nel 1958 la collezione dell’Accademia Carrara è passata sotto la gestione pubblica del Comune di Bergamo divenendo, a tutti gli effetti, una rinomata istituzione civica collegata alla scuola d’arte.
Nel corso del Novecento si sono susseguiti interventi di ammodernamento dei corpi edilizi originari: ma, per la continua crescita del proprio patrimonio artistico e per adeguare gli spazi museali alle evidenti mutate esigenze espositive, all’inizio del terzo millennio l’amministrazione comunale ha avviato un complesso progetto di restauro e adeguamento funzionale dell’intero edificio, che ha portato al protrarsi della chiusura al pubblico fino allo scorso 23 aprile.

Un progetto ambizioso
L'intervento di restauro e adeguamento dell'Accademia Carrara è stato sviluppato da un team coordinato da Aimaro Isola e Luca Moretto: dal 2002 sono state valutate tre soluzioni progettuali, l'ultima delle quali è giunta alla fase esecutiva di cantiere nell’autunno 2008. La soluzione prescelta adegua l'antico edificio dal punto di vista funzionale e strutturale, operando consistenti consolidamenti statici, il restauro delle facciate e degli interni e, senza stravolgere l'antica fabbrica, integrando un'anima tecnologica complessa necessaria per rendere gli spazi della pinacoteca rispondenti agli standard di qualità impiantistica ormai imprescindibili.
L'intervento più radicale ha interessato la «barchessa» occidentale (uno dei due corpi di fabbrica che si protendono verso la piazza), letteralmente svuotata dalle preesistenti strutture, e la cosiddetta «manica lunga», il corpo che collega il museo alla scuola d'arte in cui è stato attuato un sofisticato consolidamento delle fondazioni mediante micropali, il consolidamento delle murature perimetrali e il rifacimento della copertura, con l'eliminazione dei precedenti lucernari.
Se a sud sono state rigorosamente conservate le facciate verso la piazza, sul lato nord è stato aggiunto all'organismo architettonico un nuovo fronte, rivolto verso il giardino interno che confina con la scuola d'arte: una sorta di quinta tecnologica che cela un'intercapedine di distribuzione degli impianti. L'addizione del nuovo prospetto costituisce la parte dell'intervento più integrale e rinnova completamente l'affaccio nord del corpo centrale, mai del tutto compiuto e interessato da superfetazioni accumulatesi nel tempo. La nuova quinta si presenta come un fronte muto in mattoni, il cui disegno riprende un partito architettonico classico che riecheggia le proporzioni dell'Elia, dietro al quale scorrono silenziose e invisibili le articolate condutture impiantistiche che dalle centrali al piano tecnologico interrato servono tutto l'edificio. Evitando ingombri e impatti visivi all'interno del museo, la nuova facciata si mostra oggi palesemente con la sua trama di corsi in laterizio, anche se nelle intenzioni dei progettisti dovrebbe essere ricoperta da vegetazione rampicante, mimetizzando l'artificio architettonico a favore di una natura dialogante con il giardino. Soprassedendo sulle volontà mimetiche dei progettisti, ora la grande parete di laterizio si mostra senza timore reverenziale, e senza foglie d'edera, con omogenea matericità. I 40 metri di lunghezza della superficie di laterizio sono interrotti sull'asse centrale dal portale ad arco del piano terra e dal contrappunto procurato dalla trasparente leggerezza di un «cubo» di vetro che, fuoriuscendo dalla galleria espositiva del piano superiore, ne perfora la continuità. Quest'artificio permette di guardare dall'alto il giardino e il fronte dell'Accademia di Belle arti e consente, come mai in precedenza, un dialogo fisico e concettuale fra il museo e la scuola – le due facce della medesima medaglia voluta da Giacomo Carrara –, generando un riuscito gioco di reciproche prospettive. Molto meno convincente appare invece la soluzione riservata al rivestimento del vano che racchiude scale e ascensori, sempre sul lato nord dell'edificio, formato da una pelle metallica in pannelli di lamiera stirata di alluminio, (volutamente) avulsa rispetto sia all'edificio storico sia alla nuova quinta tecnologica.
Non senza imprevisti di percorso, il cantiere si è protratto fino al 2013 e ha permesso di riconsegnare alla città un organismo edilizio restaurato e consolidato in tutte le sue parti, mancante solamente della sua nuova anima interna, ovvero di un allestimento museografico in grado di accogliere degnamente il ritorno dei preziosi tesori d'arte della pinacoteca.

Il nuovo allestimento
Mentre il restauro volgeva al termine, nel 2012 è stato avviato il progetto del nuovo allestimento degli spazi espositivi, curato da Attilio Gobbi in collaborazione con Gabriella Mastroleo e Tullio Imi con la consulenza di Pietro Palladino per gli aspetti illuminotecnici e Sandro Mascheroni per gli impianti tecnologici. Il progetto d'interni ha potuto beneficiare del finanziamento della Fondazione Credito Bergamasco ed è stato sviluppato a stretto contatto con l’amministrazione e le commissioni museografica e interassessorile del Comune, le Soprintendenze e la stessa Fondazione finanziatrice.
Il nuovo concept museale ha attuato alcune soluzioni inedite, come la riuscita scelta di destinare l'intero piano terra a funzioni di servizio e complementari - quali l'ingresso/biglietteria, il guardaroba, il bookshop, i locali per la didattica e i supporti audiovisivi –, dedicando i soli piani superiori agli spazi espositivi. Questi sono stati sensibilmente ampliati e consentono ora di poter esporre più di 600 opere, comprese sculture e bassorilievi, ossia il 30% in più rispetto al precedente allestimento. Le opere sono disposte in 28 sale organizzate su due piani secondo un percorso che segue una linea cronologica e tematica che abbraccia secoli di storia dell'arte, dal Quattrocento all’Ottocento, e che considera le principali scuole pittoriche italiane senza dimenticare alcune testimonianze provenienti dall'Europa.
L'allestimento ha un carattere «architettonico» che lo contraddistingue tuttavia senza entrare in contrasto con la natura storica dell'involucro: accurato controllo degli elementi formali, cromatici, materici e puntuale studio dei fondamentali aspetti illuminotecnici. Gli spazi si sviluppano in sequenza, alternando stanze differenziate secondo un repertorio di quattro diverse soluzioni, ognuna pensata per stimolare un diverso livello di attenzione e di stato d'animo del visitatore. Molto riuscite le scelte cromatiche per le pareti delle sale, con tinte non sature di varie tonalità di grigio che permettono di apprezzare maggiormente la percezione dei dipinti, come anche il sofisticato sistema di illuminazione a LED ad alta resa cromatica, privo di raggi UV e infrarossi, che illumina uniformemente le pareti delle sale o, in altri casi, direttamente le opere esposte.
La non facile sfida della nuova Carrara ha permesso di dar forma a uno spazio museale che contempera esigenze di attualizzazione e capacità di costruire una stimolante narrazione in grado di restituire, attraverso i capolavori artistici selezionati, cinque secoli della nostra storia. E il successo di pubblico senza precedenti in occasione della riapertura del museo non può che essere la testimonianza della passione e dell'affetto che il ritorno dell'Accademia Carrara ha saputo suscitare nell'animo dei bergamaschi.

Quale sarà il destino della GAMeC
Il sistema dei musei d'arte del Comune è essenzialmente costituito dall'Accademia Carrara e dalla Galleria d'arte moderna e contemporanea (GAMeC), che si completano vicendevolmente. La seconda, dedicata all'arte dal Novecento in qua, è nata nel 1991 ed è attualmente ospitata in via San Tomaso, proprio di fronte all'Accademia, nell'edificio di origine quattrocentesca – già monastero delle Dimesse e delle Servite poi traformato nella caserma Camozzi – che è stato restaurato e rifunzionalizzato su progetto di Gregotti Associati. Nei suoi 1.500 mq di spazi espositivi, dall'apertura a oggi Gamec ha ospitato numerose mostre di arte antica, moderna e contemporanea, oltre a essere la sede di un'importante collezione permanente, principalmente formata dalle raccolte Spajani e Stucchi e dalla collezione Manzù.

Ristrettezze spaziali
Da tempo GAMeC fa parlare di sé non solo per gli eventi artistici che ospita ma anche per il dibattito scaturito attorno alle ipotesi di spostamento della sua sede. Che gli spazi di via San Tomaso siano ristretti e non siano adatti per allestimenti di arte contemporanea, che notoriamente abbisognano di strutture più generose e diversamente articolate, è un fatto noto.
Ma, a parte i limiti dello spazio fisico, il ruolo e l'importanza che un'istituzione come Gamec ricopre ormai stabilmente nella città richiedono un potenziamento, come ricordato in varie occasioni dal presidente Alberto Barcella. La carenza attuale, già manifesta negli ultimi anni, lo sarà ancora di più nel futuro, sia per gli allestimenti temporanei sia per la Collezione Permanente. Quest'ultima è oggi esposta in uno spazio angusto che limita anche la possibilità di acquisire nuove donazioni,, che è sottodimensionato al pari degli spazi per la conservazione delle opere, non adeguati alla caratura del museo. A queste carenze 'strutturali', si devono aggiungere anche le limitazioni temporali: l'edificio di via San Tomaso infatti è proprietà del Comune di Bergamo e l’uso da parte di GAMeC è regolato da una convenzione che stabilisce, tra l'altro, che ogni anno gli spazi espositivi devono essere messi a disposizione dell’Accademia Carrara per l'allestimento di mostre temporanee, come nel caso dell'evento attualmente in corso e dedicato all'opera di Palma il Vecchio.
Un altro aspetto critico da considerare, e che forse ai più sfugge, riguarda il fatto che un'istituzione come GAMeC ha una propria 'mission' culturale a cui rispondere e che le impone di promuovere l’arte contemporanea, in tutte le sue forme, con un coinvolgimento e un’apertura verso la città che richiede e invoca contaminazioni con le altre espressioni artistiche, come ad esempio il cinema, il teatro, la musica. E questo aspetto, di conseguenza, invoca la disponibilità di spazi multifunzionali che attualmente non ci sono. La funzione di un museo che si vuole calare nella contemporaneità, sia dal punto di vista del tempo in cui si colloca sia delle forme artistiche a cui si rivolge, non può limitarsi a essere mero luogo d'esposizione ma dev'essere evidentemente un luogo d’incontro aperto alla collettività, funzione che evidentemente implica disponibilità di spazi che attualmente hanno limiti condizionanti.

Molte ipotesi, nessuna certezza
Attorno alla ricollocazione di GAMeC negli ultimi sette anni si sono susseguite varie ipotesi, tutte peraltro pertinenti e stimolanti, alle quali nella storia recente se ne sono aggiunte altre. Vediamole nel dettaglio.
1) La previsione del PGT. Lo strumento di pianificazione locale, approvato nel 2009 e ancora vigente, definiva un ampio «ambito strategico», denominato AS_1 (polo dell'arte, della cultura e del tempo libero), nel quale si prevede, tra i vari indirizzi di piano, il potenziamento del sistema museale cittadino con la conferma e l'ampliamento degli spazi dell'Accademia e della GAMeC. A oggi l'AS e i relativi ambiti di trasformazione previsti al suo interno, non hanno visto attuazione e rimangono comunque un possibile sfondo di coerenza pianificatoria per alcune delle ipotesi di progetto che, come vedremo, interessano proprio quest'ambito.
2) Il riuso della caserma Montelungo/Colleoni. La rifunzionalizzazione dell'ex presidio militare limitrofo al parco Suardi e ricadente nel citato AS_1 ha costituito, ancor prima dell'approvazione del PGT, un'accreditata ipotesi per il potenziamento del sistema Carrara/GAMeC. Da anni ridotta in stato di penoso abbandono, il riuso dell'ex caserma a scopo culturale era al centro di una proposta presentata nel 2008 su iniziativa di un gruppo di architetti bergamaschi (Walter Barbero, Giuseppe Gambirasio, Giorgio Zenoni) che con un intraprendente progetto avevano sviluppato l'idea di realizzare un «Parco della cultura» multifunzionale, relazionato con il contesto urbano e museale esistente. Lo studio proponeva una soluzione architettonica e funzionale per la conversione dell'intero isolato dismesso: come una sorta di «Politecnico delle arti», l'organismo rifunzionalizzato avrebbe dovuto comprendere anche spazi per la musica, la danza, il teatro, la letteratura, abbracciando le istituzioni museali già presenti nei vicini borghi storici di San Tomaso e Pignolo (vale a dire l'Accademia Carrara, la GAMeC e il Museo Bernareggi), operando una strategia riqualificativa sinergicamente estesa alle parti urbane limitrofe. Tuttavia, dopo l'accordo stretto qualche mese fa dal Comune con l'Università di Bergamo per convertire le ex strutture militari in residenza studentesca e servizi complementari (e oggetto di un bando di concorso lanciato lo scorso 11 maggio da Cassa depositi e prestiti, Comune e Università), l'ipotesi culturale pare abbia perso terreno, anche se per alcuni strenui sostenitori rimane la soluzione migliore per il futuro di GAMeC.
3) Il riuso degli ex Magazzini generali. La rigenerazione dell'area di prima periferia occupata dai dismessi Magazzini generali è l'ipotesi più concreta fra quelle oggi note, in quanto permetterebbe di ricavare gli spazi espositivi della GAMeC con un'operazione finanziata interamente dalla Fondazione UBI Banca per il consistente importo di 4,5 milioni. Il progetto porta la firma dello studio Traversi + Traversi e configura il recupero di un edificio produttivo con rifunzionalizzazione completa di un'area che è già di proprietà dell'istituto bancario. Al suo interno, a fianco della conversione dell'edificio da destinare a museo, verrebbero realizzati anche altri spazi per attività di formazione dello stesso istituto di credito, oltre a un auditorium e funzioni complementari. Il progetto era stato caldeggiato dalla precedente amministrazione Tentorio, mentre l'attuale amministrazione Gori ha avanzato delle riserve, in particolare riguardanti la viabilità e relativi problemi di compatibilità delle nuove funzioni, anche se a oggi il Comune non ha espresso una posizione ufficiale definitiva, lasciando aperta la possibilità di perseguire questa soluzione. Dal punto di vista tecnico, il progetto soddisfa le necessità espositive di GAMeC, come confermato dal presidente Barcella, e dal punto di vista economico verrebbe realizzato senza l'impegno di risorse pubbliche. Per contro, la posizione periferica dell'area non sembra di certo delle migliori in quanto è situata in un contesto a cui sono connesse anche le aree del decaduto piano di Porta Sud (leggi l'approfondimento all'interno del focus dedicato a Bergamo), che presenta diversi settori da riqualificare ed è - a oggi - mancante di una strategia di fondo.
4) Il riuso del palazzetto dello sport. Anche questa è un'ipotesi che coinvolge un edificio esistente ricadente nell’ambito strategico del polo dell'arte e della cultura/AS_1 ed è stata ventilata dall'attuale amministrazione comunale negli ultimi mesi. Il palazzetto dello sport è una struttura sportivo-polifunzionale localizzata a poca distanza dall'attuale GAMeC, di lato al parco Suardi e all'ex caserma Montelungo/Locatelli. L'edificio ormai datato abbisogna d'interventi di sistemazione e ammodernamento anche se venisse mantenuta l'attuale destinazione funzionale, ma offre una superficie in grado di soddisfare le esigenze di spazio di un museo d'arte contemporanea. Inoltre, la sua posizione garantirebbe le positive sinergie con le altre presenze museali della zona. A differenza del progetto per gli ex Magazzini generali, il lato debole sta nell'aspetto economico dell'operazione che, oltre a non godere di risorse private, implicherebbe la realizzazione un nuovo palazzetto in un'altra area della città. I due aspetti, non proprio positivi, lasciano intendere che questa soluzione potrebbe incontrare non poche difficoltà, anche se per ora rimane una delle possibili alternative.
5) Il riuso della Casa della libertà. L'edificio littorio progettato da Alziro Bergonzo alla fine degli anni 30 gode di un'invidiabile posizione centrale, nell'area del centro piacentiniano, ed è prospiciente Piazza della libertà al di sotto della quale è ricavato uno dei parcheggi pubblici più capienti di Bergamo. Attualmente è solo parzialmente utilizzato come sede di uffici pubblici e, al piano terra, come auditorium. Lo caratterizzano ampi spazi monumentali ove potrebbero prender posto, a fianco di GAMeC, anche eventuali attività complementari. La proprietà attuale non è comunale ma demaniale, e questo potrebbe determinare qualche problema, a cui si deve aggiungere che vi è già l'ipotesi d'insediarvi la Prefettura, trasferendola dall'attuale sede di via Tasso.
Come si può notare, le ipotesi sul tavolo sono molte, forse troppe. E, nell'incertezza del momento attuale, in attesa che il Comune sciolga le sue riserve non resta che auspicare che il futuro della Gamec si possa presto palesare. In ogni caso, qualsiasi soluzione venisse infine attuata, dallo spostamento della GAMeC dall'attuale sede beneficerebbe anche l'Accademia Carrara (che potrebbe finalmente utilizzare a tempo pieno gli spazi dell'ex convento aumentando le proprie potenzialità), e quindi l'intero sistema dell'arte di Bergamo.

da: Il Giornale dell'architettura, edizione on line, 19 maggio 2015