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giovedì 24 febbraio 2011

Se la chiesa è come un palasport

Una mostra di «Casabella» sugli spazi liturgici contemporanei riapre la polemica

di Paolo Valentino

Se diciamo chiesa, il pensiero corre ai grandi templi cristiani del passato, luoghi deputati della nostra memoria. Ma chi ha modellato le maestose cattedrali del ricordo? Potremmo citarne una, da San Pietro a Notre-Dame, pensata, eseguita e portata a termine da un solo architetto? «No - dice Francesco Dal Co, direttore di "Casabella" - a modellarle è stato il tempo. E noi, oggi, non possiamo più permetterci di avere il tempo come modello».
Forse sta tutto in questa semplice verità la chiave del rebus, che da anni lacera il colto e l'inclita, la comunità religiosa e quella degli architetti: cos'è o come dev'essere oggi una chiesa? È solo un luogo di culto, ovvero, per usare le parole di padre Enzo Bianchi, priore di Bose, la «trasformazione in realtà dell'idea che ogni chiesa è metafora della presenza della Chiesa di Dio nella città degli uomini»? E quali sono i canoni estetici e funzionali, attraverso cui le nuove chiese possono arricchire la polis, dandole un contributo di solidarietà, aiutandola a integrare il nuovo e il diverso?
Curata da Carlotta Tonon e Massimo Ferrari, aperta dal 21 marzo al 3 aprile al Casabella Laboratorio di Milano (via Marco Polo 13), la mostra «Quattro chiese italiane» cade nel mezzo di un dibattito che negli ultimi mesi ha avuto impennate polemiche e curiose torsioni dialettiche. I progetti scelti per l'allestimento sono la chiesa di San Giovanni a Ponte d'Oddi, Perugia, di Paolo Zermani; il complesso parrocchiale di San Pio da Pietrelcina a Malafede, nella periferia sud di Roma, dello studio Anselmi & Associati; la chiesa di San Carlo Borromeo a Tor Pagnotta, altra marca romana, firmata da Monestiroli Associati e la chiesa di Gesù Redentore a Modena, realizzata da Mauro Galantino.
È stata proprio quest'ultima a innescare la più recente fiammata della controversia sull'architettura religiosa: a tre anni di distanza dall'inaugurazione, ancorché accolto dall'apprezzamento dei fedeli, il tempio emiliano è stato oggetto di forte critica nientemeno che da Paolo Portoghesi, uno dei padri del movimento post-moderno, per di più ospitato sulle pagine dell'«Osservatore Romano»: quella di Modena, sarebbe «la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell'architettura non basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a sentirsi pietre viventi».
L'attacco mirato di Portoghesi ha spalle poderose, all'interno della gerarchia ecclesiastica, su cui poggiare. Pochi giorni prima, infatti, era stato il cardinale Gianfranco Ravasi, in una lectio magistralis alla facoltà di Architettura di Roma, a lanciare l'allarme, stigmatizzando «l'inospitalità, la dispersione, l'opacità di tante chiese... dove ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare».
Chiamato in causa, Galantino rimanda alle riflessioni maturate intorno al concorso, indetto nel 1989 dall'allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, e da lui vinto con il progetto della chiesa di Sant'Ireneo a Cesano Boscone: «Non ci s'inventa una chiesa ogni cinque anni. Il principio dello spazio liturgico nasce dalla ricerca sulle indicazioni del Concilio Vaticano II che sancivano l'indissolubilità tra celebrante e assemblea, cambiando una tradizione secolare». A Portoghesi, che pur lodando la qualità dell'opera, lo accusa di mettere in crisi la «tradizionale unità della comunità orante» e si domanda «perché ci si guarda in faccia?», l'architetto milanese risponde che nel «recinto sacro della chiesa di Modena, declinato come spazio esterno, terra-acqua-luce-sole che attorniano l'assemblea, i fedeli si dispongono, su specifica richiesta della comunità parrocchiale, come intorno al tavolo, ricostruendo idealmente l'ultima cena».
È però dall'interno stesso di Santa Romana Chiesa, che salgono voci e opinioni dissonanti da Ravasi, a difesa appassionata del vasto programma di costruzione dei nuovi edifici sacri lanciato dalla Cei e rivelatosi una straordinaria opportunità urbanistica, non ultimo per la puntigliosa assegnazione degli incarichi attraverso concorsi d'architettura tutti andati a buon fine, autentica anomalia positiva nel panorama italiano.
«Probabilmente, se guardiamo al passato, troviamo esempi d'interventi non riusciti, che danno ragione al cardinale Ravasi - ammette monsignor Ernesto Mandara, vescovo ausiliario responsabile dell'edilizia di culto nella diocesi di Roma - ma dei risultati degli ultimi anni io sono profondamente soddisfatto. Le chiese realizzate esprimono molto bene sia il senso del sacro sia quello dell'accoglienza». Mandara rivendica il rigore dei criteri con cui seleziona gli architetti, soprattutto «il rispetto del legame tra liturgia e edificio» che si aspetta da ogni progetto, anche se è poi «l'architetto, in piena autonomia e secondo la sua sensibilità, a doverlo leggere nel modo più appropriato». E quanto all'obiezione, sollevata da alcuni, secondo cui le chiese dovrebbero farle i progettisti credenti, il monsignore sorride: «Resto perplesso, mi sembra un visione talebana della fede».
Dal Co prende spunto dal concetto dell'accoglienza: «Si guarda solo all'oggetto, ma nessuno si preoccupa di ricordare se ciò che sta intorno sia bello o brutto». È un fatto che i nuovi edifici di culto sorgano tutti dove ce n'è più bisogno, cioè in luoghi sperduti, nelle aree disagiate, degradate o abbandonate dei centri urbani: «Così come le chiese anticamente erano non solo i luoghi del culto, ma anche il posto dove le persone s'incontravano, cercavano rifugio e protezione, così oggi le nuove chiese nelle periferie emarginate affrontano anche il problema della comunità, rispondono cioè al bisogno d'integrazione delle nuove moltitudini, sono luoghi d'incontro che si esprimono nelle forme e nei linguaggi del nostro tempo».
Che non sono poi forme e linguaggi così esecrabili. In fondo, ricorda Dal Co, se c'è stato un secolo attraversato dall'architettura religiosa, questo è stato il Novecento. «Il secolo nato all'insegna della morte di Dio, proclamata da Nietzsche, è quello che ne ha visto una straordinaria fioritura, dalla Sagrada Família a Ronchamp, visitate ogni anno da milioni di persone. La cattedrale gotica era il frutto della Scolastica. Ma di fronte a un pensiero che escludeva la presenza di Dio, mentre rimaneva forte il bisogno del sacro, l'architettura moderna ha saputo mobilitare muscoli e tendini in cerca di una risposta».

da: Corriere della Sera, 8 febbraio 2011, p. 41

domenica 13 febbraio 2011

Quei tesori d'Egitto saccheggiati nella storia

di Viviana Mazza

Vetrine spaccate, preziose statuette in terracotta d'epoca faraonica ridotte in frantumi, due mummie a pezzi. Alcuni saccheggiatori l'altro ieri avevano approfittato delle proteste per penetrare nel Museo egizio del Cairo. Ieri è stato preso d'assalto il museo di Al Qantara nel Sinai, dove alcuni pezzi sono stati trafugati, altri danneggiati.
La storia dei saccheggi di reperti archeologici in Egitto è antichissima. Già prima di Alessandro Magno o dei romani (nella nostra capitale ci sono almeno 8 obelischi prelevati durante le conquiste), gli antichi egizi saccheggiavano già le tombe dei loro antenati. Lo prova un papiro di 2.700 anni fa, citato in passato da Zahi Hawass, il direttore del Consiglio supremo delle antichità in Egitto: il documento racconta che il governatore della sponda est del Nilo aveva accusato il governatore della sponda ovest di rubare reperti dalle tombe. Più a rischio quelle dei ricchi, coi gioielli d'oro dei defunti, gli oggetti in alabastro. Ma anche quelle dei poveri venivano depredate. Né le maledizioni iscritte sulle tombe, che minacciavano tremende punizioni nell'Aldilà, riuscivano a dissuadere i ladri.
Dalla campagna di Napoleone in poi, moltissimi reperti sono finiti all'estero. «Se ne sono approfittati sia gli egiziani che gli europei» racconta al telefono dal Cairo l'egittologo Ahmed Seddik. Uno dei più importanti è la Stele di Rosetta, che fu ritrovata nel villaggio di Rashid, vicino ad Alessandria d'Egitto, nel 1799 da un giovane ufficiale francese, Pierre-François Bouchard, che ne capì subito l'importanza vedendo che la stessa iscrizione appariva in tre diverse grafie: geroglifico, demotico e greco. Bouchard ne parlò a Napoleone, che la fece custodire al Cairo presso l'Institut d'Égypte, consentendo agli studiosi di farne delle copie. Ma quando i britannici sconfissero i francesi, stipularono l'accordo del 1801 che dava loro il controllo di tutte le antichità, e la Stele di Rosetta fu portata a Londra (è al British Museum). A partire dal 1805, sotto Mohammad Ali, pascià e viceré d'Egitto, moltissimi artefatti furono donati a stranieri. «Diede ai francesi un obelisco (di Luxor, che sta a Place de la Concorde, ndr) in cambio d'un orologio per la cittadella del Cairo, che tra l'altro non funziona». L'esploratore italiano Giovanni Battista Belzoni portò reperti in Europa e a godere degli scavi più ricchi e dei doni del suo amico pascià c'era anche il piemontese Bernadino Drovetti che servì nell'esercito di Napoleone diventando poi console francese in Egitto. È suo il ritrovamento del «Canone reale», frammenti di papiro preziosissimi (contengono un elenco delle dinastie che hanno regnato in Egitto nei millenni) custoditi al Museo egizio di Torino: Hawass li rivoleva indietro ma non c'è riuscito.
«I viceré che vennero dopo Mohammad Ali fecero anche peggio. Almeno lui aveva una causa, dava via le antichità perché voleva modernizzare l'Egitto. I successori le trattarono come fossero di loro proprietà» spiega Seddik, che pure ricorda che proprio in quegli anni fu creato il primo museo egizio. Fu introdotta anche una legge che consentiva agli europei che scoprivano antichità di dividere a metà i ritrovamenti con l'Egitto. «Ma a volte mentivano o ne nascondevano alcune» osserva Seddik. «È il caso del busto di Nefertiti». Capolavoro di 3.400 anni fa, in pietra calcarea e gesso dipinto, si trova da quasi cent'anni a Berlino. Ce lo portò il responsabile dello scavo di Amarna, l'archeologo tedesco Ludwig Borchardt. Berlino dice d'averlo acquisito legalmente. Ma secondo documenti rivelati dallo Spiegel, Borchardt avrebbe imbrogliato gli egiziani portando via la statua illegalmente, nascondendone il valore. Altri pezzi importanti: «Lo Zodiaco di Dendera, che sta al Louvre, rubato da Luxor durante la campagna di Napoleone. La statua di Hemiunu, l'architetto della Piramide di Cheope a Giza, che si trova in Germania». L'elenco è lungo. Solo nel 1922, con la scoperta della tomba di Tutankhamon, le cose iniziarono a cambiare: «L'Egitto prese coscienza del valore di quel patrimonio, rifiutò di dividerlo - dice Seddik -. Howard Carter, l'archeologo inglese, cercò di nascondere una statua del re ragazzo, ma lo perdonarono purché continuasse gli scavi».
La prima legge che vietava di esportare i reperti fu introdotta in Egitto nel 1983. Hawass è riuscito l'anno scorso a farne approvare un'altra, che prevede pene più dure per i ladri. Ha riportato in Egitto migliaia di reperti rubati. E mira a pezzi iconici come la Stele di Rosetta.

da: Corriere della Sera, 31 gennaio 2011, p. 13

domenica 6 febbraio 2011

Arte nel Novecento, l'ombra del sacro

di Andrea Dall'Asta
Non è un caso se nel corso del Novecento, molti arti­sti, quando hanno cerca­to di tematizzare i processi all’o­rigine del gesto della creazione artistica, hanno parlato di presen­za, di alterità, di percezione del­l’esistenza di un altro, di uno sco­nosciuto che abita il cuore del­l’uomo, di spirito divino o ancora di spirito cosmico . Presenza mi­steriosa e inafferrabile che ci par­la dell’accesso all’essere del mon­do. Presenza opaca e allo stesso tempo luminosa, che si sottrae a qualunque definizione o concet­to univoci. Di fatto, ogni artista ha la sua modalità d’espressione, il suo modo di interpretare la propria esperienza in relazione all’assoluto. Tuttavia, qualunque sia il linguaggio, c’è l’affermazio­ne di una presenza al cuore del­l’atto creatore. L’esperienza del­­l’artista traduce con la materia il sorgere in lui di questa presenza. Padre Couturier lancia un vero e proprio appello ai maestri, ai grandi artisti dell’arte contempo­ranea i quali, anche se non cre­denti, sono chiamati a operare nell’ambito liturgico della Chie­sa. Numerosi sono gli esempi che costituiscono avvenimenti pressoché unici per tutto il Nove­cento.
La Cappella del Rosario di Vence (1947-1951), dove opera Matisse ormai ottantenne, costituisce u­na grande sintesi tra pittura, scultura e architettura. Couturier è il grande coordinatore. La bel­lezza del luogo deve potere cam­biare il cuore. La purezza delle forme purificare le anime. Un luogo di preghiera diventa il compimento d’arte totale a ser­vizio della liturgia. Il padre domenicano Marie-Alain Couturier assiste anche alla rea­lizzazione del mosaico della Chiesa di Audincourt (1951) di Jean Bazaine, dedicato al Sacro Cuore in cui le forme di acque vi­ve, del sole e del sangue, sono trasfigurate, ispirandosi a Isaia («Voi attingerete l’acqua della vo­stra gioia alle sorgenti del Salva­tore ») e a Santa Margherita Maria Alacoque («Gesù mi apparve tut­to sfavillante di gloria con le sue cinque piaghe brillanti come cin­que soli»). Fernand Léger realizza le diciassette vetrate della navata e del coro.
In questo contesto è esplicitata un’intuizione fondamentale, an­cora oggi troppo dimenticata: il superamento della contrapposi­zione tra figurazione e non-figu­razione. Quale relazione esiste tra arte sacra e arte non-figurativa? Come considerare la religiosità di un’opera se il soggetto non è fi­gurativo, vale a dire non imme­diatamente riconoscibile a parti­re dalle forme della natura e della storia? La contrapposizione è un falso problema, in quanto, come ricorda il domenicano: «Le forme vere sono forme vive. La scelta degli artisti non è in­nanzitutto tra cristiani e non-cri­stiani, ma fra buona pittura e cat­tiva pittura, buona scultura e cat­tiva scultura. D’altronde, ricorda p. Couturier, non è forse sant’A­gostino ad affermare che molti credono di essere dentro e sono fuori e molti sembrano essere fuori e sono dentro».
Da questa ispirazione non-figu­rativa nascono i lavori di Alfred Manessier con le vetrate per la chiesa di Sainte-Agathe a Les Bre­seux, e di Jean Bazaine nella chie­sa di Saint Sévérin (1965-1969) con il ciclo di vetrate dedicate ai Sette Sacramenti nella seconda metà degli Anni Sessanta. I diver­si soggetti si fanno colori lumino­si che attraversano lo spazio ar­chitettonico. Lo spazio si fa colo­rato, in continua vibrazione a se­conda del variare della luce du­rante le diverse ore del giorno. Le Corbusier a Ronchamp pro­getta la cappella Notre-Dame du Haut (1953-1955) in cui cerca u­na sorta di grado zero, un’archi­tettura primitiva nella sua dram­matica forza espressiva, spiaz­zante nella sua informalità. Le facciate appaiono come robuste fortificazioni bucate da finestre irregolari, sghembe, strombate. L’impianto ignora ogni schema geometrico tradizionale, abban­donando l’ovvietà del piano oriz­zontale e verticale. Il volume sembra generato da un flusso di energia, liberando un’intensa e­motività espressionista. Il Con­vento domenicano de La Tourette (1960) appare come un blocco chiuso immerso nella natura, ca­ratterizzato dalla forza espressiva del cemento a vi­sta non rifinito. Tutta l’architettura prende forma in un potente e sa­piente gioco della luce.
La Rothko Chapel progettata da Phi­lip Johnson rive­stita di tele di Mark Rothko (1965-1966), tra i massimi rappre­sentanti di quell'Espressionismo astratto che diventerà tra gli a­spetti caratterizzanti l’arte ameri­cana della seconda metà del No­vecento, costituisce certamente uno degli interventi più significa­tivi del Novecento. Vanno poi al­meno citati gli importanti inter­venti di Fernand Léger nella chiesa di Notre-Dame de Toute Grâce, dove realizza un colora­tissimo mosaico sull’intera facciata sul tema di Maria, di Graham Suther­land nella chiesa parrocchiale di Saint Matthew a Northampton e nella cattedrale di Coventry (1952), in cui realizza un celeberrimo Cristo in trono racchiuso in una mandorla, iera­tico e allo stesso tempo impo­nente, i lavori astratti di Pierre Soulages nell’Abbazia di Sainte Foy a Conques (1987-1994). Non può essere purtroppo dimentica­ta la mancata realizzazione della quinta porta del Duomo di Mila­no (1950-1952) da parte di Lucio Fontana, parzialmente compen­sata dalla messa in opera della Pala del Sacro Cuore, sempre del­lo stesso autore, nella chiesa di San Fedele di Milano (1957), su commissione del padre gesuita Arcangelo Favaro.
In Italia numerose chiese sono costruite tra gli anni 40 e 50. Ri­cordiamo solo architetti come Luigi Figini, Gino Pollini, Bruno Morassutti, Angelo Mangiarotti, Gio Ponti. Da considerare con particolare attenzione sono gli interventi del padre francescano Costantino Ruggeri, chiamato Frate Sole: Soldato di due milizie, quella della fede e quella dell’arte, come lo definisce Mario Sironi, a­mico dell’artista. Ruggeri lavora nel desiderio di rendere visibile, sensibile, quella presenza di Dio che c’è già, che è innata dentro di noi, realizzando architetture leg­gere, eteree, fatte di luce e di co­lore attraverso la realizzazione di vetrate. Occorre ricordare, dopo la prima mostra del 1951 alla Gal­leria San Fedele di Milano, nume­rosi progetti di cappelle, di picco­le chiese, e numerosi adegua­menti liturgici. Progetta la chiesa di San Francesco Saverio a Yama­guchi, in Giappone e il Santuario del Divino Amore a Roma (consa­crato il 4 luglio del 1999 da Papa Giovanni Paolo II).