Pagine

domenica 11 ottobre 2009

Gehry, il gioco del serpente

di Germano Celant

Rispetto al carattere riduttivo e minimo di molta architettura precedente che viveva in una logica essenzialmente di privazione iconografica a favore di materiali e di forme assolute e metafisiche, prive di figura, se non quella della geometria pura e lineare, al punto tale da rimuovere persino qualsiasi implicazione cromatica che, agendo per contrasto, non fosse omogenea le architetture di Gehry fanno riferimento a una magnificenza formale e volumetrica, cromatica e figurale che comporta un alto valore espressivo.
Un atteggiamento che, intrecciato alla disposizione degli edifici ad arcipelago, come il Complesso residenziale Wosk (Beverly Hills, 1981-1984), lo avvicina a Wright nella sua Casa Helen Donahoe, nella Paradise Valley (Arizona, 1959), dove l'immagine del villaggio abitativo e' veicolata nella progettazione di tre edifici, con funzioni diversificate, collegati tra loro da ponti perche' collocati su differenti colline. Al pari, gli insiemi come la Norton Simon Gallery e de'pendance (Malibu, 1976), e la Casa Spiller (Venice, 1979-1980), si distinguono per materie e colori, intrecci e innesti di spazi e di motivi, si offrono per la loro presenza informe, quale transito tra visibile e invisibile, occultato e scoperto. Vivono di incontri antitetici e complementari, quasi volessero, in maniera iconoclasta, distruggere qualsiasi immagine unica, violarne l'apparenza monolitica e ricercare un'altra essenzialita' che non si affida piu' a un'idealita', ma a una vitalita' plurima e comunicativa dell'architettura.
Adottando un paragone con la storia dell'arte, facendo ricorso all'iconografia di san Sebastiano, l'innovazione sta nel trafiggere il corpo e smembrarlo per recuperarne l'immagine non solo esterna, ma interna. Pensarla quale velo che e' trasparenza, ma che rivela la carne, cosi' da evitare qualsiasi ascesi metafisica a favore di un'architettura incarnata che e' impasto di epidermide e di materia. Al tempo stesso, in Gehry lo statuto di un oggetto architettonico accanto all'altro deriva dall'interesse per Giorgio Morandi, in cui la presenza del medesimo motivo, la bottiglia, subisce un'interpretazione molteplice. Dove l'artista mette instancabilmente in discussione una sola immagine o un solo elemento, ma lo sottopone a variazioni cromatiche e pittoriche infinite. E' quanto succede, rispetto a Wright e Morandi, nel Complesso residenziale Wosk, dove l'abitazione e' una collezione di piccoli edifici che riflettono specularmente, per le loro diverse forme e i differenti colori, l'aspetto eclettico del quartiere, fino al progetto dell'Ohr O'Keefe Museum of Art, Biloxi, 1999-2009.
Entrando invece in una dimensione piu' ludica, gli effetti emergenti di un'architettura che negli anni ottanta vive sul «montaggio» variabile sembrano venire a Gehry anche dalla liberta' di articolazione che era legata ai giocattoli «transformer» dei figli Alejo e Sammy. I robot scomponibili e componibili sono macchine dagli scambi multipli e dalle permutazioni complesse che presentano un'autoespressivita' tale da favorire l'abbandono a un pensiero che sovrappone molti strati di espressivita' processuale. Un desiderio di declinare, tra pittura e gioco, tutte le possibili pieghe dell'architettura e una tattica operativa che crede nei registri multipli del pensiero progettuale, il cui senso va continuamente messo in discussione e in movimento. Ispirandosi al corpo del pesce, e poi del serpente, a cui e' ricorso in memoria della sua infanzia e del suo interesse per il mondo naturale, rivisto secondo una prospettiva orientale, quella delle stampe giapponesi, Gehry ha mirato prima alla pelle quale estensione dell'architettura e del suo spazio. Si e' soffermato sulle squame e sulle scaglie dell'immagine zoomorfa e ha tradotto questa in un perimetro murario, pittorico e plastico, tanto strutturale quanto fenomenico. Ha adottato la superficie intensa e temporale che si aggetta e punge per farla risultare il vero punto di dislocazione progettuale: una liquidita' di forme che e' stata certamente influenzata, oltre che da un pensiero zoomorfo, anche dal suo profondo interesse per Notre Dame du Haut (Ronchamp, 1950-1955), di Le Corbusier, e per il Goetheanum (Dornach, 1924-1928), di Rudolf Steiner, quanto da un ricorso a materie grezze derivato dall'uso di superfici lignee di Rudolph Michael Schindler e delle superfici metalliche di Richard Neutra.
Ecco perche', sin dal 1964 nella Casa-studio Danziger (Hollywood), e in seguito nel 1968 con il fienile della fattoria O'Neill (San Juan Capistrano), sino alla copertura in titanio del Guggenheim Museum di Bilbao, l'avvolgimento e la pelle dell'edificio sono argomento di profondita', sul tattile e sull'ottico, del corpo dell'architettura: essi significano estensione, tessuto e parete capaci di un effetto di alterazione e di movimento del costruito. La sua soggettivita' passa di conseguenza su e attraverso la superficie, cosi' da avvicinare la sua architettura alla pittura, la' dove contano gli strati e le accumulazioni cromatiche e segniche, un linguaggio progettuale che si dilata poi nella scultura, dove i lembi e le superfici si curvano e si alzano, strato dopo strato, fino a comporre un insieme caotico e informale, iconico e narrativo. Il senso di vivacita' pittorica e scultorea Gehry lo deve, sin dal 1964, ai suoi dialoghi con artisti quali Ed Moses, Charles Arnoldi e Robert Irwin, e in seguito si arricchisce delle discussioni e delle collaborazioni con Richard Serra, Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen. Per questi il tutto plastico, che include arte e architettura, e' impasto e forma, curvatura e immagine, mentre il risultato dipende sempre da uno schizzo o da un modello, qualcosa che e' tattile e palpabile, prima di diventare un elemento o un artefatto a grande scala. Ecco la logica di un procedere «artistico» che Gehry adotta cercando le idee nell'ammasso di linee, tracciate a mano, e di materie trovate, dal legno al cartone, dalla pomice al chain link, dal foglio di plastica alla rete metallica che da brandelli senza forma si avviano lentamente, dopo infinite manipolazioni, a diventare determinazioni architettoniche.

da: La Stampa, 25 settembre 2009, p. 43

domenica 4 ottobre 2009

La Statua della Libertà? Copiata

di Armando Torno

MILANO - Anche Milano ha la sua Lady Liber­ty, più gentile di quella di New York. Risale al 1810, si chiama «La Legge Nuova», è opera dello scultore Camil­lo Pacetti. Se ne sta sulla facciata del Duomo e potrebbe essere il modello della più fortunata Statua della Liber­tà di Frédéric Auguste Bartholdi. Anche un occhio non esperto si accorge che tra «La Legge Nuova» del Duomo e la Statua della Libertà di New York c’è una stretta parentela, anzi quella meneghina — la precede di alcuni decenni — ha l’aria di esserne stata il modello. Del resto, 1810 a Mi­lano significa Napoleone e, soprattutto, si­stemazione della cattedrale. Non furono po­che le incisioni e riproduzioni dettagliate che si realizzarono e circolarono in tutta Eu­ropa. Frédéric Auguste Bartholdi, artista al quale dobbiamo il celebre colosso america­no — 93 metri d'altezza, di cui 47 di piedi­stallo, visibile fino a 40 chilometri di distan­za — ne ha vista senz’altro più d’una. La so­miglianza, poi, tra le due è impressionante ed entrambe reggono nella mano destra al­zata una torcia e presentano il capo cinto.
Camillo Pacetti (1758-1826), artista neo­classico, lavorò soprattutto a Milano, dove insegnò a Brera e mai operò in un palcosce­nico come quello di Parigi. Affermato ritrat­tista (busti di Napoleone, di Maria Luisa, ecc.), dal 1805 diresse i lavori per la decora­zione dell'Arco del Sempione e quelli, ap­punto, di statuaria del Duomo. Bartholdi (1834-1904) lo troviamo nel 1856 in Egitto a studiare le forme gigantesche, meditò a Rodi cercando tracce del Colosso ed ebbe in­carichi dagli Stati Uniti. A Parigi collaborò con l’ingegner Eiffel e approfittò dell’Esposi­zione Universale del 1878 per far conoscere a tutti la testa della «sua» statua, la medesi­ma che il 17 giugno 1885 due navi consegne­ranno a New York.
Insomma, era in netto vantaggio sul buon Pacetti e poteva permet­tersi di copiarne l’idea senza pagare dazio. Va aggiunto che l’opera sul Duomo non figura quasi mai tra i modelli di Bartholdi. I francesi preferiscono rimandare al Colosso di Rodi, certi testi inglesi parlano del San Carlone di Arona e i toscani ribadiscono che la fonte è la Statua della Libertà della Poesia, presente sul monumento funebre di Giovan­ni Battista Niccolini, in Santa Croce a Firen­ze, di Pio Fedi. Comunque sia, va detto che Milano non fa una brutta figura, anzi. E tutte le altre in­dicazioni ci sembra che siano alimentate per nascondere il modello vero, che il pros­simo anno compirà due secoli. Sulla faccia­ta del Duomo.

da: Corriere della sera, 28 settembre 2009