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giovedì 28 ottobre 2010

San Carlo, l’aureola della pietà

di Michele Dolz

La canonizzazione di san Carlo Borromeo il 1 novembre 1610 – di cui ricorre dunque il quarto centenario – fu un’apoteosi raramente vista. Sotto la regia di Giovan Battista Crespi detto il Cerano, a Milano, e di Antonio Tempesta, a Roma, vennero innalzati monumenti e architetture effimere, installati arredi urbani, fabbricati grandi stendardi, dipinti tanti e tanti quadri. Dentro alla Basilica di San Pietro, ancora in costruzione, si fabbricò un’enorme macchina o teatro con tanto di facciata, una vera chiesa nella chiesa con ben trentanove dipinti monocromi sulla vita e i miracoli del santo. La Fabbrica del Duomo di Milano ordinò la seconda serie di quadroni, sui miracoli di san Carlo, affidandola ai migliori pittori sulla piazza. Gli orefici milanesi donarono una statua del santo a grandezza naturale fatta di materiali preziosi, oggi purtroppo perduta. Intorno ad alcune croci che san Carlo aveva fatto erigere nelle piazze (una croce di metallo sopra una colonna, come segno sacro nel territorio urbano) vennero allestite decorazioni con panni, statue, dipinti; in una di queste furono appesi i ritratti dei trentotto vescovi santi di Milano, da san Barnaba apostolo fino allo stesso Borromeo: oggi sono al Museo Diocesano di Milano. Fu così memorabile la celebrazione che Tempesta incise e pubblicò un grande foglio con i Fatti della canonizzazione di san Carlo, con venticinque riquadri che ritraggono i vari momenti. Ma soprattutto quell’abbondanza d’immagini fissò in maniera canonica l’iconografia del santo.
Si può dire che il singolare fenomeno iconico era frutto postumo della pastorale di san Carlo, poiché egli fece dell’immagine sacra uno strumento non secondario della sua intensa attività. Un dipinto del Cerano per l’occasione riportava «una figura al naturale di Nostro Signore, che faceva oratione all’horto, con l’Angelo da una parte, col calice, e la Croce in mano, che lo confortava, e dall’altra parte vi era S. Carlo inginocchiato in oratione, a imitazione dell’oratione ch’egli fece al Sacro Monte di Varallo, quando si preparava alla morte». Così scriveva il Grattarola nel 1614. Ed è proprio attraverso queste immagini che riconosciamo l’utilizzo formativo che dell’arte fece san Carlo. C’è un altro dipinto del Cerano, dell’anno della canonizzazione, che ritrae l’arcivescovo inginocchiato dinnanzi al Cristo morto, in una toccante espressione di dolore, pentimento, devozione. Esplicitamente intende riferirsi alle lunghe preghiere del santo nel Sacro Monte di Varallo. Lì amava ritirarsi per i suoi esercizi spirituali, d’impronta ignaziana con sue accomodazioni. Ricordava il Bascapé: «Ciascuno si riduceva in alcune devote cappelle a meditare et orare; et il cardinale … si ritirava pur ancor esso al luocho suo senza volere che altri lo seguisse: et era di meravigliosa consolazione et compunzione vederlo, la notte specialmente, andare tutto solo, con una sua lanternetta sotto il mantello, dove più la devotione l’invitava», principalmente nella cappella del sepolcro. Lì lo colse la malattia che lo avrebbe portato in breve tempo alla morte.
Le lunghe e partecipate meditazioni dinnanzi a quei simulacri come se fossero il Cristo vero, sono testimonianza del senso che egli dava alle immagini sacre e dell’utilizzo che voleva se ne facesse. Il Concilio di Trento, al quale aveva partecipato, si era espresso sulla questione in maniera chiara ma generica e sbrigativa. In sostanza di diceva (sessione XXV, 1563): a) «Attraverso le immagini … noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi», e rinviava alla dottrina del Concilio II di Nicea. b) «I vescovi insegneranno con molto impegno che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con i dipinti e in altri modi, il popolo viene istruito e confermato nella fede» ed esercita la pietà. c) «Se in queste pratiche sante e salutari fossero invalsi degli abusi, il santo sinodo desidera ardentemente eliminarli». I vescovi dovevano vigilare perché le immagini non fossero oggetto di superstizione né veicolassero false dottrine. Ai vescovi veniva delegata la funzione applicativa di queste norme.
Com’è noto, il Borromeo prese decisamente a cuore questo incarico, scrivendo le Instructionum fabbricae et supellectilis ecclesiasticae, libri II (1577) che sono un dettagliato vademecum di come devono essere le chiese, le immagini e le suppellettili sacre. Le immagini avevano per lui un carattere didattico (della dottrina e della pietà) al quale si aggiungeva una funzione di difesa dall’eresia. La preoccupazione non era di ordine estetico ma etico, e ormai è stato sufficientemente dimostrato che Trento e i suoi applicatori non hanno limitato la creatività ma l’hanno potenziata non fosse altro che per l’attenzione dedicata alle arti. Basta ricordare i nomi degli artisti europei del Seicento.
San Carlo voleva sobrietà, intelligibilità, chiarezza, devozione. Avrebbe desiderato vedere in pittura ciò che Pellegrino Tibaldi fece in architettura sotto le sue direttive. Ma a Milano non c’erano in quegli anni grandi artisti. Scomparsa la generazione dei leonardeschi, un elegante manierismo – da Lomazzo al Peterzano, a Fede Galizia e Camillo Procacini, con episodi molto belli del Figino – cercò di adattarsi alle indicazioni. Sarà dopo la morte del santo che quello spirito s’incarnerà in grande pittura, molto spesso raffigurando Carlo medesimo negli atteggiamenti di devozione che voleva inculcare nella sua gente: il notevole San Carlo comunica gli appestati di Tanzio da Varallo a Domodossola, le prove di bravura prodotte dai diversi artisti per la canonizzazione, per finire nelle raffinate composizioni di Giulio Cesare Procacini, come quel San Carlo Borromeo porta in processione il Sacro Chiodo di Orta San Giulio.

da: Avvenire, 27 ottobre 2010, p. 28

domenica 24 ottobre 2010

Dopo la morte, la vita. Per tutti i popoli

di Julien Ries

Le prime tombe, apparse verso il 90.000 a.C., e la grande quantità di tombe dell'uomo di Neanderthal, a partire dall'80.000 a.C., mostrano che nella preistoria i vivi credevano a una sopravvivenza dei loro defunti, dal momento che le tombe contenevano tracce di alimenti e di utensili destinati ad essere usati dai defunti inumati. A questo, a partire dal Paleolitico Superiore (40.000 a.C.), si aggiunse un trattamento speciale del corpo del defunto, che veniva coperto di ocra rossa, simbolo del sangue e dunque della vita, con una particolare cura della testa e l'applicazione di conchiglie nelle orbite oculari, segni di una nuova visione, e strumenti sempre più numerosi accanto al corpo del defunto, il che sta a indicare che non si doveva entrare nell'aldilà privi di bagagli. Verso il 10.000 a.C., all'apparizione dei primi villaggi, vicini ai centri abitati troviamo dei cimiteri, segni di un legame tra i vivi e i morti.
Volgiamo lo sguardo alle antiche popolazioni indoeuropee, gli Etruschi, i Celti e i Germani. Provenienti dall'Asia Minore, le popolazioni etrusche si fissarono in Toscana. Quando i Romani avevano appena iniziato a familiarizzarsi con la scrittura, gli Etruschi erano già in possesso di un alfabeto, ereditato dai Greci. Per quanto riguarda il mondo dei defunti, disponiamo di numerose pitture che ornano le pareti delle camere funebri: scene di caccia, di gioco, banchetti e danze. Non va trascurata poi la sontuosità delle tombe, a partire dall'VIII secolo a.C. vere e proprie dimore funebri. Vi sono stati trovati una grande quantità di suppellettili e una ricca gamma di utensili domestici. La tomba è costruita a immagine della casa: è la residenza del defunto. Il tema del viaggio verso l'aldilà rende ragione del gran numero di scene rappresentate sulle urne funerarie e sui sarcofagi ritrovati dagli archeologi.
I Celti occuparono la Germania meridionale, la Gallia, la Gran Bretagna, l'Irlanda, l'Italia settentrionale e la Spagna. La loro culla è l'Europa centrale e occidentale: si tratta di un miscuglio di razze che adotta diversi dialetti indoeuropei. Attualmente si è capito che il mondo celtico era in possesso di una religione popolare, ma anche di una religione delle classi superiori, i druidi e i cavalieri. Le testimonianze dell'antichità mettono in evidenza l'importanza della credenza druidica nell'immortalità dell'anima. La loro competenza religiosa, poetica e sacerdotale faceva dei druidi, nella società, il corpo di saggi contrapposto al corpo guerriero. I druidi erano i mediatori tra gli uomini e il mondo soprannaturale. Il paradiso celtico, chiamato Sid in Irlanda, è «un tumulo soprannaturale», un mondo meraviglioso in cui i defunti conducono un'esistenza paradisiaca. Un paradiso situato ad est dell'Irlanda, oltre il sole calante. Tutto è bello, giovane, affascinante e puro. I messaggeri dell'altro mondo vengono a cercare i defunti e li introducono in questo mondo meraviglioso: vi si sente una musica dolcissima, vi si consumano cibi succulenti, vi si bevono idromele e vino. Il Sid è un mondo perfetto, uscito dalla mediazione e dall'insegnamento dei druidi, un luogo di felicità e di pace.
Un elemento importante scoperto nelle tombe galliche è l'uovo rotto, simbolo della vita. È legato alla genesi del mondo e rappresenta il rinnovamento periodico del cosmo. In alcune regioni d'Irlanda, nella tomba venivano gettate delle lettere ai defunti. Colpisce l'ottimismo dell'escatologia celtica. Diversi elementi spiegano questo fenomeno: la grande prosperità della società grazie alla metallurgia, l'influsso della civiltà greca, una classe sacerdotale composta da druidi, da bardi specialisti del canto e della poesia e da indovini (vate) delegati alla divinazione e all'arte della natura, così come la dottrina dell'immortalità dell'anima trasmessa dalla tradizione druidica.
Gli antichi Germani e Scandinavi sono molto diversi dai Celti. Georges Dumézil ha mostrato che la funzione sacerdotale, quella del sacro, fu relegata al secondo posto dalla funzione guerriera, impostasi grazie al dio Odino-Wotan, l'arbitro dei combattimenti. Da qui l'esaltazione della violenza, che si trova all'origine del pessimismo. A questo si aggiunge la nozione di destino, elemento centrale della religione germanica. Il destino, gaefa-gifta, è un dono iniziale da svilupparsi con l'eroismo. La hamingja è la forma che assume il destino quando si lega a una famiglia. Il Germano non è mai solo: fa parte di una Sippe, un clan. Dal 3500 a.C. sono presenti le tombe megalitiche, i dolmen, tombe delle Sippe e dei capi. Con la cremazione prendono forma i campi di urne. Durante il periodo delle tombe megalitiche i vivi portavano le offerte vicino alle tombe, accendendovi dei fuochi. Immediatamente dopo la morte vengono chiusi la bocca, gli occhi e le narici del defunto e lo si interra in un punto dal quale può vedere la sua casa e i paesaggi che gli sono familiari. Nella tomba vengono messi gli oggetti di cui il defunto deve disporre nell'aldilà.
I Germani temevano il ritorno dei defunti. Al momento dei funerali si faceva uscire il cadavere dalla casa attraverso un'apertura che veniva subito richiusa, in modo che non ritrovasse, eventualmente, il cammino del ritorno. Nell'altro mondo ci sono due possibili luoghi di soggiorno. Il primo è chiamato Hel, Halja in gotico. È una valle glaciale, dominata dal freddo e da torrenti e protetta da enormi porte e bastioni. L'altro luogo di soggiorno è il Valhalla o Valhöll, zona riservata a coloro che sono stati prescelti dal dio Odino, vale a dire i guerrieri caduti in battaglia e tutti coloro che sono morti durante un atto eroico. Sono chiamati einherjar, eroi d'élite. Godono di un soggiorno piacevole, facendo combattimenti quotidiani nei quali non vi sono feriti e banchetti con bevute di idromele sacro presentato dalle Valchirie, le divine assistenti dei dio Odino. I guerrieri si nutrono di carne di cinghiale. Dodici stanze del Valhalla sono riservate agli dei, con cui gli eroi passeranno l'eternità. C'è poi la prateria di Odino, Oddinsakr, il campo degli immortali, di coloro che godono dell'immortalità: per loro non esiste né malattia né vecchiaia né morte. Una vegetazione d'oro copre la prateria e un brillante sole la illumina: il verde della prateria simboleggia la vita, mentre il giallo è il segno indoeuropeo dell'immortalità.

da: Corriere della Sera, 22 ottobre 2010, p. 53

giovedì 21 ottobre 2010

Se l'ironia è ben quotata

di Carlo Bertelli

Non ero a Milano. Ma dove mi trovavo, mi avevano raggiunto diverse telefonate di milanesi inorriditi per il monumentale Dito di Maurizio Cattelan. A quasi tutti sembrava che fosse la pietrificazione del linguaggio scurrile venuto in voga tra i nostri politici, e appariva insopportabile che la volgarità delle loro battutacce minacciose dovesse diventare un ammonimento marmoreo perenne. Appena tornato a Milano, sono corso a vedere il monumento. Non la mostra, che raccoglie opere che già si conoscono, ma proprio quell'intervento urbano tanto discusso e tanto discutibile. Mi aspettavo di vedere, ingigantita, la mano di un nostro, o di una nostra, onorevole, chiusa a pugno per puntare quel dito medio insultante verso l'intera città.
Invece ho trovato una grande mano mutilata. Una mano eseguita realisticamente, cui tutte le dita, tranne una, erano state tagliate. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata la vista di dita amputate di falegnami, macellai, cavatori e altri lavoratori. Poi ho pensato ai tragici marmi di mutilati di Marc Quinn in Trafalgar Square, a Londra. E mi è sembrato che quel dito si levasse come estrema, solitaria e inane protesta. Maurizio Cattelan mi perdoni, ma credo che sia assuefatto al carattere polisemantico di una creazione artistica. Da Pasquino a Roma all'om de pedra a Milano, sono tante le statue cui il pubblico ha attribuito un senso che certo non avevano in origine. Ma il monumento di Cattelan è piazzato a dileggio della Borsa. Nella piazza più disegnata di Milano, dove la facciata clamorosa del palazzo della Borsa si fronteggia con il lato opposto, silenziosamente dechirichiano, il dito di Cattelan si erge beffardo e irriverente.
Si poteva avere di peggio. Alla Biennale della scultura, a Carrara, Paul McCarthy ha presentato la monumentale scultura di un escremento, alta 4 metri e 60, realizzata nello scuro travertino di Rapolano. Per tutta la durata della biennale, ossia per tutta al scorsa estate, la grande «statua» è stata in bella mostra davanti a una banca, con l'intento dichiarato di mettere allo scoperto ciò che noi - e le banche prima di tutti - invece copriamo. Non so se la stessa banca che faceva da sfondo alla scultura fosse tra gli sponsor della biennale, ma è probabile. Così come ora è il Comune di Milano che accetta, senza batter ciglio, d'insultare la Borsa.
Debbo precisare che il tema della biennale di quest'anno verteva sull'impossibilità di realizzare monumenti là dove non vi sia un consenso generale, spontaneo o imposto, orientato ad accettare l'enfasi retorica. Sembra che le democrazie abbiano difficoltà a creare i propri monumenti. Il monumento è diventato un'esperienza del passato e, per gli artisti d'oggi, un rimpianto che mascherano col dileggio.
Il Dito di Cattelan probabilmente non resterà a lungo, a meno che Palazzo Marino non accetti la proposta di proroga fatta dallo stesso Cattelan. E'solo la sezione esterna di una mostra che si svolge all'interno del Palazzo Reale, offerta dal Comune ai cittadini. L'ironia di Cattelan non scuote il mondo, non fa crollare il capitalismo. L'ironia di Cattelan è anzi ben quotata.

da: Corriere della Sera - Milano, 15 ottobre 2010, p. 1

domenica 17 ottobre 2010

I colori, la luce e il disegno originali
Così Giotto dipinse il crocifisso

Il restauro svela il lavoro preparatorio del capolavoro di Ognissanti a Firenze

di Arturo Carlo Quintavalle

Questo è molto più di un restauro, questo è un ritrovamento vero e proprio ed è insieme la fine di un dibattito annoso. Infatti il Crocifisso di Ognissanti, cinque metri di altezza, appeso in origine sul tramezzo della chiesa fiorentina, che le fonti antiche assegnano a Giotto, ritenuto di bottega dalla critica più recente, anzi di una figura battezzata da Giovanni Previtali «Parente di Giotto» mentre adesso, dopo il restauro, la mano dell'artista è evidente. Ma c'è qualcosa che chi vedrà il Cristo non potrà neppure supporre e che è stata scoperta con la riflettografia a raggi infrarossi, ed è il disegno che sta sotto la pittura, un enorme, bellissimo disegno di Giotto. Sempre l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze (OPD) ha splendidamente restaurato, anni or sono, l'altro Crocifisso di Giotto, quello di Santa Maria Novella, un pezzo molto più antico, e, proprio dal confronto fra quel testo di fine '200 e questo, si comprende il lungo percorso del pittore.
Il Crocifisso di Ognissanti è imponente, anche se ha perso la base con la roccia del Golgota e la caverna con dentro le ossa di Adamo: la figura del Cristo è sospesa a una croce che non è di legno ma di blu lapislazzulo, croce come cielo, e alla sinistra e alla destra stanno la Madonna e Giovanni, in alto l'Eterno. Col restauro (di cui il «Corriere» aveva già scritto l'8 luglio 2009) è emerso un importante dettaglio: prima di iniziare a dipingere, Giotto sposta lievemente il capo del Cristo raddrizzando e riducendo l'aureola di legno; questo vuol dire che Giotto lavora con grandi sagome, non di pergamena e neppure di legno ma probabilmente di carta, che adatta al supporto preparato dai falegnami e coperto di tela e gesso. La novità del Cristo, rispetto a quello più antico, sta nella intenzione di rappresentare il corpo come una scultura che cala dall'alto, lievemente inclinata in avanti, sui fedeli. Giotto mostra qui di avere a lungo meditato la lezione della grande scultura espressiva della prima metà del XIII secolo in Francia e Germania, da Reims alla Sainte Chapelle, da Chartres a Bourges, da Bamberg a Naumburg; il suo viaggio oltralpe deve porsi prima di Assisi e della Cappella dell'Arena a Padova. È qui infatti che Giotto organizza compiutamente due complessi sistemi narrativi nei quali prevale ad evidenza la scoperta dello spazio e del racconto scenico della scultura gotica al Settentrione, quel racconto e quello spazio, come scolpiti nella pietra, delle prima storie dipinte ad Assisi. Così Giotto trasforma la immobilità espressiva delle figure e crea nel Cristo di Ognissanti, una scena ricca di pathos e tensione emotiva evidenti nella Madonna e nel San Giovanni.
L'analisi della pittura non ammette dubbi: sono di Giotto l'intero corpo del Cristo e le figure ai lati, salvo quella dell'Eterno che appare di un collaboratore, lo provano le diverse grafie pittoriche del torace e del ventre del Cristo toccati con minute, vibranti pennellate, e le gambe e le braccia segnate invece da lunghe strisce di colore; lo prova la tensione dei volti delle figure, la scansione geometrica delle teste, la invenzione prospettica, ad esempio delle dita del Cristo inchiodate alla croce. Ma la immagine riflettografica ci offre molto di più: ci fa capire come Giotto disegna, come Giotto prepara la pittura, ed è questo che stupisce. Giotto non abbozza in modo schematico la figura del Cristo, non riporta solo i contorni della grande sagoma che doveva comunque usare per stabilire la posizione della figura, Giotto progetta il corpo disegnandolo e chiaroscurandolo nel dettaglio, scandisce i piani, segna le ombre con larghe pennellate di polvere di carbone e segna con fini pennellate il viso, i morbidi capelli, la barba, il naso e le labbra del Cristo. Quando nel disegno Giotto scandisce le vibranti forme del tronco, delle gambe e delle braccia, definisce il rilievo partendo da una traccia evidente della sagoma scavata magari con una punta sul gesso della preparazione, a questa egli stesso aggiunge una netta ombra scura lungo i contorni.
Per la Madonna e il San Giovanni il discorso è diverso: qui il particolare che più intriga Giotto è quello dei volti rappresentati come maschere funebri oppure come Gisant, sepolture con sculture di figure giacenti, o come statue-colonna dei portali delle cattedrali gotiche al Settentrione; ma mentre i volti nel disegno sono intensi, drammaticamente espressivi, le panneggiature sono appena accennate. Sarà nella fase finale della stesura pittorica che Giotto costruirà il volume dei panneggi con il colore.
Dunque il Crocifisso di Ognissanti non solo ci restituisce una grandiosa opera di Giotto, ma ci fa comprendere anche il processo di registrazione della memoria nella sua officina e poi quello della realizzazione dell'opera. Giotto doveva possedere decine di libri di disegno, codici con schizzi, appunti di viaggio presi su pezzi scolpiti romani ma anche su sculture del '200 viste in Francia e Germania, e poi schemi di architetture e di composizioni narrative del Vecchio e Nuovo Testamento. Le sagome, in gergo patroni, gli servono per comporre, organizzare, spostare, ripetere le figure nei grandi cicli, ad esempio ad Assisi oppure a Padova, e qui per mantenere o sviluppare l'immagine di un Cristo in croce. Per Giotto appare quindi importante la stesura del progetto sulla tavola preparata: una volta determinati i contorni della figura magari a incisione sul gesso della preparazione, viene il disegno a carbone o a pennello con il nero molto diluito. E dopo, naturalmente, viene la pittura.
La Croce di Ognissanti entra a pieno titolo nel novero delle opere di Giotto e si colloca con ogni probabilità agli inizi del secondo decennio, al tempo degli affreschi della Cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze. Dobbiamo in origine immaginarcela dialogare con la grandiosa Madonna ora agli Uffizi e sopra tutto dobbiamo vederla in asse al limite del presbiterio, sospesa alta, e visibile a tutti, nella navata centrale, memento per gli uomini di un dolore che qui si fa dramma liturgico. Quella che i visitatori vedranno è dunque un'opera splendida, la sagoma del Cristo esangue contro il fondo d'oro finemente operato, vetri colorati come pietre preziose, e la Vergine e Giovanni che recitano l'angoscia di morte. Ecco una pittura che dialoga con Nicola Pisano, con Arnolfo, con Giovanni Pisano, tutti scultori, certo, ma, come scriveva Cesare Gnudi, tutti anche viaggiatori in terra di Francia.

da: Corriere della Sera, 13 ottobre 2010, p. 53

giovedì 14 ottobre 2010

Gli Scavi vanno coperti o si ridurranno in polvere

di Andrea Carandini (Presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali)

Prima che un rudere, Pompei è una città che ha perso i tetti e che ha tanti visitatori quanti un tempo i suoi abitanti: circa diecimila ogni giorno. Pur dopo una vita da archeologo militante, se dovessi dirigere la Soprintendenza vesuviana mi tremerebbero i polsi, tanto è immane, prima di tutto, il problema pratico: coperture, scorrimento delle acque, servizi... Mi sentirei più tranquillo se avessi al mio fianco un «sindaco». Noi umanisti abbiamo pregi e carenze, che spesso non vediamo. Il problema è che le competenze, scientifica e pratica, si sono sempre combattute a Pompei; non si è arrivati, come al solito da noi, a fare squadra.
Pompei si trova nella situazione dell'Aquila, ma dal '700. Le città senza coperture hanno un solo destino: ridursi in polvere. Quanti isolati siamo stati e saremo in grado di coprire? Certamente pochi, rispetto al centinaio di quelli scavati. E il resto? In polvere, pioggia dopo pioggia. Che fare? Bisogna, innanzi tutto, che Pompei finanzi, con propri soldi, la pubblicazione di tutti gli isolati, avvalendosi di istituti scientifici italiani e stranieri, al ritmo di almeno dieci isolati l'anno e secondo una metodologia di base unitaria; queste pubblicazioni devono concludersi con proposte di manutenzione e garantire la tutela conoscitiva della città: non abbiamo più la Pompei del '700; documentiamo almeno quella di questo inizio di secolo; a breve constateremo soltanto polvere. Ciò si ottiene organizzando una vasta e strutturata impresa scientifica. Pompei, il più straordinario rudere classico del mondo, è sostanzialmente inedita, come inediti sono i suoi reperti ammassati a «Sing Sing», gli sconfinati sottotetti del Museo Nazionale di Napoli, e a Pompei stessa! Non è uno scandalo? Perché, tra tanti argomenti sollevati, sovente in modo pretestuoso, questo problema non è mai stato sollevato: le indignazioni hanno paraocchi? Di più, manca a Pompei un progetto, che parta da un'analisi imparziale di quel che è stato fatto nell'ultimo decennio, gestione commissariale compresa, per arrivare a una proposta globale, che si concentri su un solo obbiettivo: come spendere gli ingenti fondi che Pompei incasserà nel prossimo decennio? Quali le parti da coprire, come realizzare le coperture, casa fare per quelle che non si potranno proteggere, come e dove comunicare la storia della città? Serve in primo luogo una manutenzione programmata, analogo a quella che il Commissario Roberto Cecchi sta sperimentando per Roma.
A Pompei è entrata la Protezione civile per la ragione che è entrata all'Aquila. Ha essa esautorato i funzionari della Soprintendenza? No: i progetti finanziati e realizzati sono stati elaborati dai funzionari archeologi, restauro del teatro compreso! Per il commissariamento a Pompei (non della Soprintendenza di Pompei), come per quello del centro archeologico di Roma, si è trattato di una guerra ideologica, come ho potuto verificare in una visita recente alla città, accompagnato dal Segretario generale del Ministero. Mi aspettavo un disastro. Ho trovato altro.
Ho constatato un'efficace segnaletica, servizi igienici funzionanti, un pronto soccorso per i visitatori, percorsi per portatori di handicap, visite organizzate per le scuole. Ho visitato un isolato interamente coperto, quello dei Casti amanti, che consente di apprezzare alcune case in corso di scavo per la prima volta sia dall'alto che dal basso: l'asino che per salvarsi ha ficcato la testa sotto la mangiatoia! (ho fatto osservare un fronte troppo avanzato, che verrà arretrato). La vicina Casa di Polibio è stata assai ben valorizzata, con mobilio, suppellettili e un racconto dell'eruzione, a partire dagli scheletri rinvenuti. Ho visto cantieri di manutenzione aperti, circa una settantina. È cominciato il restauro dei marciapiedi consunti e si approfitta dell'occasione per posare cavi per i servizi. Ho apprezzato il restauro dell'Antiquarium, chiuso dal 1980, che a novembre riaprirà. È stato reso fruibile il teatro con gradini in tufo, che ho preferito al marmo, proposto in un primo tempo dalla Soprintendenza. Sono stati vincolati venti ettari sopra la città non scavata, destinati a culture biologiche da offrire nel ristorante che sta per aprire alla Casina dell'Aquila. Gli uffici della Soprintendenza non sono più nei container - terremoto del 1980 - ma nell'edificio di San Paolino restaurato. Nel passato sono stati spesi circa sette milioni di euro l'anno, su circa 20 di incassi annuali. In un anno e mezzo sono stati impegnati dal Commissario Marcello Fiori circa settantanove milioni di euro (dei quali quaranta residui attivi della Soprintendenza), destinati per oltre l'ottanta per cento a messe in sicurezza, alla tutela. Verranno destinati due milioni di euro alla manutenzione ordinaria programmata, che è il futuro. Verranno smontati i capannoni sopra la città antica che, rimontati altrove ridaranno decoro paesaggistico al luogo.
Tutti disastri? Certo il problema formidabile di Pompei resta. È auspicabile un nuovo modello di gestione, adatto a una realtà tanto complessa, che sia capace di far cooperare diverse competenze. Dovrebbe consentire al Soprintendente di esercitare i poteri di tutela e di verifica in modo in modo pieno e al «sindaco» di esercitare la gestione, altrettanto in modo ampio. Il fine comune è mostrare, raccontare. (Una precisazione: il portale Pompeiviva.it è del Ministero; il criticato Italia.it no).

da: Corriere della Sera, 6 ottobre 2010, pp. 20-21

Restauri infiniti e costosi
Chiuso il gioiello dei Vettii

di Alessandra Arachi

Negli scavi di Pompei non c'è bisogno di andare a caccia di scandali lungo tutti i sessantacinque ettari di beni archeologici a cielo aperto, patrimonio dell'Umanità. Per deprimersi è sufficiente fare come un turista pigro. Girare appena poche centinaia di metri attorno al Foro. È il posto che è proprio all'incrocio degli assi principali del nucleo originale, il Foro. Il fulcro della città antica. Il perno della folla dei turisti, cinquemila ogni giorno, in media.
La desolazione, tuttavia, assale già all'ingresso delle rovine. Non soltanto per le toilette degne di un campo di concentramento. O per le guide turistiche più o meno autorizzate che ti vengono incontro a frotte, con ogni lingua conosciuta. È che appena arrivi, la guida cartacea ti sbandiera come prima visita la bellezza delle Terme. Inutilmente. Sono chiuse, da chissà più quanto tempo. Come l'Antiquarium, mai aperto per ospitare le migliaia di reperti archeologici prigionieri e impolverati dentro i Granai del Foro. Da sempre.
I turisti si accalcano neanche fossero mosche attorno al miele pur di rubare foto di statue o di capitelli o di chissà che ben di dio è custodito dentro le cassette di plastica, lì all'interno di quei Granai chiusi con sbarre arrugginite. I cani randagi (che in tanti continuano ad aggirarsi indisturbati per le rovine antiche) amano fare la pipì sopra quelle sbarre. Camminare attorno al Foro per crederci. Le strade antiche sbarrate senza alcun cartello che spiega il perché. Palizzate divelte. Cumuli di calcinacci dentro botteghe mai restaurate.
Uno degli zuccherini del giro turistico (versione pigra) è senza dubbio il tempio di Apollo. Qui lo stato di degrado non è, tanto e soltanto, una questione di etica o di decoro. C'è un problema serio di sicurezza. Basta alzare gli occhi sotto le volte per capire. Oppure guardare le colonne che si sgretolano, pezzo dopo pezzo. Di solito cadono in terra pezzettini piccoli di quelle colonne. Ma chi può impedire che si stacchi un lastrone per intero? Addosso a qualche turista inerme?
Continuiamo a camminare. Adesso in direzione delle porte di Ercolano. Vicolo delle Terme. Vicolo della Follonica. Sono tante, ancora, le case chiuse, sbarrate con i lucchetti. Nella Casa del Poeta Tragico c'è il famoso mosaico del Cave Canem. Ci sarebbe. Perché non si può vedere, visto che anche questa casa (inutilmente contrassegnata dal numero 22 dell'audio guida) è chiusa.
Ma andiamo avanti. Fiduciosi verso la Casa dei Vettii: era stato annunciato un grande restauro. La guida cartacea ci spiega che i Vettii erano ricchi e liberti. Ci invoglia a guardare le pitture d'ingresso che evidenziano auspici di prosperità. E dove spicca la figura di Priapo, dio della fertilità. È una pruderie morbosa questa figura mitologica con il suo grande membro posato sopra il piatto di una bilancia a far da contrappeso al denaro. Ma arrivati all'ingresso della Casa dei Vettii, la delusione deborda nella rabbia. Non soltanto non si può ammirare nemmeno l'ombra di Priapo. Ma l'unico denaro che possiamo vedere è quello scritto in cifre sul cartello all'ingresso che segnala il restauro: 548 mila euro per dei lavori inaugurati il 27 agosto del 2008 che avrebbero dovuto essere terminati nel 2009. Non è dato sapere in quale mese del 2009 avrebbero dovuto chiudere il cantiere: sul cartello dei lavori, qualcuno sopra la data ci ha voluto scrivere «vergogna» con una penna a biro. Comunque siamo nel 2010, e anche verso la fine, e della Casa dei Vettii ci rimane soltanto la veduta di una infinita montagna di impalcature dove non c'è segno di un operaio o di un qualsiasi qualcosa che dia il senso di alcun lavoro in corso.
Quando eravamo passati davanti alla casa del Naviglio di Zefiro e Flora (chiusa) un operaio l'avevamo visto: si aggirava lungo le impalcature senza alcuna misura di sicurezza. E senza alcuna preoccupazione.
Andiamo avanti. Continuiamo a girare. La via Stabiana è lunga. Adesso osiamo. Mettiamo da parte la pigrizia, andiamo oltre la sequela di botteghe senza arte né parte, case dagli intonaci che vengono giù come le gocce di pioggia, e allunghiamo il passo. Dritti per dritti lungo la bella (e miracolosamente rimasta originale) via Stabiana si arriva al Teatro Grande.
Ci aveva fatto soffrire il Teatro Grande di Pompei in una gita di fine primavera. Per i lavori di restauro erano stati usati, senza pudore, martelli pneumatici e ruspe, scavatrici, betoniere. Cavi elettrici che bucavano le colonne. Turisti increduli davanti a tanto scempio.
Il Teatro Grande è stato restaurato e inaugurato. Ricostruito ex novo con blocchetti di tufo moderno. In tanti esperti in quei giorni avevano gridato allo scandalo per un bene trattato come fosse il cantiere di una cava di marmo. Ma alle obiezioni era stato replicato che il tufo era reversibile. Che sarebbe stato tolto, prima o poi. Corriamo a vedere il Teatro Grande. Ovviamente i blocchetti di tufo sono ancora tutti lì. Ha qualche senso logico spendere milioni di euro per mettere quei blocchetti di tufo e altrettanti soldi per toglierli, poi, nel giro di qualche settimana, terminata la stagione estiva degli spettacoli? Le casette di lamiera allestite per i camerini, però, almeno quelle sarebbe stato possibile portarle via. Sottrarle alla vista. Come i tubi in ferro accatastati lì, a mucchi. A che cosa servono?
Torniamo indietro al Foro, mesti. Vicino ai Granai c'è un cagnone nero che ci viene incontro, ci lecca la punta della scarpa, si avvia a fare i suoi bisogni nel luogo deputato. Sentiamo la stessa esigenza. E accanto ai Granai abbiamo la prima buona notizia della visita: nella caffetteria nuova le toilette sono pulite e ordinate. Si può fare la pipì illudendosi di essere in un posto civile.

da: Corriere della Sera, 6 ottobre 2010, p. 21

lunedì 11 ottobre 2010

L'umiliazione di Pompei

L'area archeologica in abbandono

di Sergio Rizzo

Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi come l'Italia custodisca la maggior parte dei beni artistici e archeologici del pianeta. Ma meritiamo davvero un simile onore? Il dubbio sorge, osservando quello che accade a Pompei. Da tempo il Corriere del Mezzogiorno sta documentando lo scempio di alcuni «restauri» a base di colate di cemento e l'incuria che regna nell'area immensa degli scavi. Con la protesta montante attraverso i social network, come sta a dimostrare il record di adesioni a una pagina di Facebook che si chiama «Stop killing Pompei ruins». Al punto che viene da chiedersi: ma se quel tesoro ce l'avessero gli americani, oppure i francesi o i giapponesi, lo tratterebbero allo stesso modo?
Il fatto è che quell'area archeologica unica al mondo è purtroppo il simbolo di tutte le sciatterie e le inefficienze di un Paese che ha smarrito il buon senso e non riesce più a ritrovarlo. O forse semplicemente non vuole, affetto da una particolare forma di masochismo. Che però ha responsabili ben precisi. «Le istituzioni preposte alla tutela dei beni culturali sono costantemente umiliate da interessi politici ed economici del tutto privi di attenzione per la salvaguardia di quella che è la maggiore ricchezza del nostro Paese» ha denunciato qualche tempo fa Italia Nostra. Ed è proprio difficile dargli torto, quando proprio a Pompei l'indifferenza della politica si tocca con mano.
Per due anni, con la motivazione del degrado in cui versa l'area, hanno spedito lì il commissario della solita Protezione civile. Con il risultato di «commissariare» nei fatti anche la Sovrintendenza. E già questo non è normale (che c'entra la Protezione civile con gli scavi archeologici?). Ma ancora meno normale è il fatto che da mesi, ormai, Pompei sia senza una guida. A giugno il commissario è scaduto. Mentre a ottobre il sovrintendente ancora non c'è. O meglio, il posto è tenuto in caldo da un reggente in attesa del titolare. Che però il ministero dei Beni culturali non nomina.
Perfino inutile interrogarsi sui motivi di questa paralisi. Viene addirittura il sospetto che nella stanza dei bottoni nessuno si renda conto di avere fra le mani una risorsa economica enorme in una regione che ha disperato bisogno di lavoro e sviluppo. Per dare un'idea dell'attenzione riservata a questa materia basterebbe ricordare che dal 2004 a oggi il governo non è stato nemmeno in grado di mettere in piedi un portale nazionale di promozione turistica degno di tal nome. Nonostante i milioni (non pochi) spesi. Per verificare, fatevi un giretto su www.italia.it, dove la pratica pompeiana è liquidata in 66 parole, senza nemmeno una foto: «Per l'eccezionalità dei reperti e il loro stato di conservazione, l'Unesco ha posto sotto la sua tutela l'Area archeologica di Pompei ed Ercolano, che nel 79 d.C. furono completamente distrutte dal Vesuvio. La lava vulcanica segnò la loro distruzione ma, solidificandosi, la stessa lava che le distrusse divenne un'eccezionale "protezione" che ha preservato gli straordinari reperti, riportati alla luce molti secoli dopo». Stop.
E poi c'è chi si lamenta che con il 70% delle bellezze artistiche e naturali di tutto il mondo continuiamo a scivolare in basso nelle classifiche internazionali del turismo...

da: Corriere della Sera, 5 ottobre 2010, p. 1

giovedì 7 ottobre 2010

Artisti e modelle, un rapporto intimo

di Francesca Bonazzoli

La nostra è l'unica epoca in cui, grazie alla fotografia, il ritratto è potuto dilagare in ogni classe sociale. Nel passato, trattandosi di un rapporto fra artista e persone altolocate, per lo più nobili, si è sviluppato nella forma di un rito le cui rigide regole potevano essere incrinate dalla relazione diretta che di volta in volta si instaurava fra gli occhi dei due officianti.
In teoria l'artista ha in mano un potere in più rispetto a colui che si fa ritrarre: il potere di Pigmalione, di Faust, dei costruttori di Golem delle leggende ebraiche. Insomma il potere di Dio che anche nella tradizione biblica crea l'uomo facendone prima una statua di creta. Sappiamo che Isabella d'Este ne fu spaventata al punto da rifiutare un ritratto di Leonardo da Vinci che le pareva troppo introspettivo, troppo dentro i segreti della sua anima, e non possiamo stupircene visto che ancora oggi, pur abituati come siamo alle immagini, gli occhi e il sorriso della Gioconda continuano a turbarci.
Ma com'erano le regole di questo pas de deux in cui ci si poteva scambiare il ruolo di colui che conduce la danza e di chi invece si fa portare? Molto varie, posto comunque invalicabile il divario sociale fra artista e ritrattato. Conosciamo un solo caso in cui la barriera di classe sembra, almeno per un momento, essere caduta: quando l'imperatore Carlo V, ad Augusta, pare si fosse chinato per raccogliere il pennello sfuggito di mano a Tiziano che stava ritraendolo.
In questo rapporto il tempo era sempre tiranno: i nobili concedevano solo quello necessario per tratteggiare il volto mentre per dipingere tutto il contorno - vestiti, cani, cavalli, arredi - il pittore doveva arrangiarsi per conto suo. Nell'archivio del Palazzo Reale di Madrid sono ancora conservate due lettere del 1625 e del 1628 in cui il conte duca di Olivares ordinava al marchese Flores Dávila, primo Cavallerizzo, di facilitare rispettivamente a Velázquez e a Rubens l'accesso a tutti i pezzi dell'armeria reale per la realizzazione dei ritratti equestri del re.
Una relazione molto intima fu invece quella fra Sofonisba Anguissola e le infante di Spagna: non solo la giovane pittrice cremonese era la ritrattista di corte, ma anche la dama di compagnia delle principesse. Si può pensare quindi che avesse tutto il tempo a disposizione per ritrarre le sue modelle, ma non il distacco per farne dei ritratti che non fossero encomiastici e celebrativi. Quasi un secolo dopo, Van Dyck riusciva a liberarsi dei lacci cortigiani della vita a corte: era così ricco e richiesto che riceveva i reali d'Inghilterra nel suo studio a Blackfriars, reso confortevole con servi, carrozze, cavalli, suonatori e buffoni. Nel Settecento anche Pompeo Batoni, il più celebre ritrattista dei giovani miliardari europei che spendevano le loro ricchezze nell'esotica Italia del Grand Tour, aveva allestito l'atelier come un elegante appartamento ricco di tendaggi, sete, velluti, opere d'arte. I giovani si fermavano per qualche seduta di posa e poi sceglievano a piacere gli oggetti, soprattutto reperti archeologici, che sarebbero apparsi nello sfondo del quadro.
Caravaggio la pensava all'opposto: preferiva la sua stanza buia e sporca e come modelli usava il garzone e le amanti prostitute.
Un altro che amò dipingere immerso nel mondo della prostituzione fu il conte Toulouse Lautrec. Fra lui e i soggetti ritratti cadeva così ogni barriera, che nel suo caso sarebbe stata un muro sociale eretto al contrario. Anche Klimt mescolava arte e sesso. Nel suo studio viennese spogliava le signore dell'alta società, le ritraeva minuziosamente e poi, con comodo, le rivestiva sulla tela dei suoi tipici abiti-mosaico con tessere d'oro. Non ci è dato sapere se andasse oltre lo sguardo; di certo Hayez lo face. Lo sappiamo perché il pittore stesso, che raccoglieva grandi successi presso le giovani della borghesia milanese, si è disegnato nel suo studio impegnato in molteplici pose di sesso.
Col tempo la fotografia ha semplificato molto il rituale accorciando il tempo della relazione fra artista e persona da ritrarre. Warhol è stato il prototipo di questo cambiamento: con la sua Polaroid coglieva la banalità della cronaca e da quegli scatti veniva poi il quadro. Un rapporto dunque mediato sia dalla distanza tecnologica che dallo spazio non più condiviso fra l'artista e il suo soggetto. Ma anche in questo caso ci sono eccezioni: la fotografa Annie Leibovitz che aveva tirato troppo in lungo la posa sul set, è riuscita a scatenare l'irritazione della regina d'Inghilterra. Alla fine, sono ancora i sovrani a dettare le regole del rito.

da: Corriere della Sera, 4 ottobre 2010, p. 39

domenica 3 ottobre 2010

Una macchia nera sui dipinti di Lascaux

di Viviano Domenici

I dipinti preistorici della grotta di Lascaux, in Dordogna (Francia), antichi di 17.000 anni, stanno male e non si trova la cura per debellare la lebbra che li sta deturpando. Il male comparve la prima volta cinquant'anni fa e periodicamente torna a insidiare, sia pure in forme diverse, le 900 figure di questo straordinario bestiario dell'uomo paleolitico. Stavolta sono macchie nerastre a crescere sul muso della «grande vacca», tra le corna delle renne, sulle zampe dei cavallini neri, e finora tutti i tentativi di annientare quell'impasto micidiale di microscopici funghi, muffe e calcite non sono stati risolutivi.
L'allarme è stato rilanciato nei giorni scorsi, in occasione della visita del presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy e di sua moglie Carla Bruni, che sono entrati nella grotta indossando tute bianche sterili. Così la notizia del cattivo stato di salute di Lascaux ha fatto il giro del mondo, insieme all'eco delle polemiche suscitate dall'iniziativa del Comitato internazionale per la Conservazione di Lascaux che ha chiesto all'Unesco di iscrivere la grotta nella lista dei beni patrimonio dell'Umanità a rischio di distruzione. Una richiesta eclatante che di fatto mette sotto accusa l'attuale Commissione ministeriale da cui dipende la conservazione dei dipinti.
Principale imputato è il particolare sistema di condizionamento dell'aria, fatto installare dall'attuale Commissione, che avrebbe innescato lo sviluppo incontrollato di funghi (Fusarium solani), muffe e batteri contro i quali sono state impiegate massicce dosi di antibiotici e antifungini, applicati sotto forma di impacchi, che non hanno dato i risultati sperati.
Anzi, secondo i critici alcuni interventi - come quello di spargere quattro tonnellate di calce viva nella cavità per combattere i batteri introdotti dagli stessi tecnici addetti alle operazioni di disinfestazione - hanno creato più problemi che altro.
Il Comitato internazionale ha anche denunciato il rifiuto della Commissione ministeriale di mettere a disposizione degli scienziati di tutto il mondo la «cartella clinica» semestrale dei dati rilevati dalla rete di sensori presente nella grotta.
Di fronte alle pesanti critiche, la conservatrice di Lascaux, Muriel Mauriac, ha replicato affermando che lo stato di salute e i livelli di contaminazione della grotta sono stabili e tra pochi giorni saranno disponibili gli studi sul metabolismo del fungo aggressore. Insomma, due verità contrapposte. Forse sapremo qualcosa di più in occasione della conferenza stampa annunciata per la metà di ottobre. E'evidente, però, che la prima minaccia ai celebri dipinti di Lascaux viene dalla presenza dell'uomo che altera il microclima nell'ipogeo; tutti gli altri problemi sono solo conseguenti.

da: Corriere della Sera, 28 settembre 2010, p. 32