Pagine

venerdì 26 agosto 2011

Così è invecchiata la Dama con l' ermellino

Vent'anni dopo Leonardo, un pittore cremonese ritrasse di nuovo Cecilia Gallerani

di Pierluigi Panza

La figlia di un membro del consiglio segreto di Ludovico il Moro, Bianca di Pietro Gallerani, il 26 giugno del 1489 fu data in sposa al maggiordomo di Alfonso D'Aragona. Per questo combino, Ferrante re di Napoli (zio di Alfonso) ricompensò il Moro con l'ordine di San Michele o dell'ermellino. Un bel premio; ma il Moro volle di più. Si prese come amante la cugina di Bianca, la quindicenne Cecilia Gallerani (1473 ca - 1530), mentre era già sua promessa sposa una delle figlie del duca d'Este, Isabella o Beatrice. E l'amante minorenne, che Ludovico portava sempre con sé (era un love-addicted dell'epoca), stregò a tal punto il condottiero-predatore che questi chiese al suo artista di corte di farne un ritratto. Così Leonardo Da Vinci dipinse Cecilia Gallerani a Milano tra il 1488 e il 1490.
Il ritratto (La dama con l'ermellino) apparve subito di bella fattura e di complicati rimandi allegorici. Cecilia veste alla spagnola, porta perle nere al collo e stringe tra le mani quell'ermellino (o faina), animale che in greco si chiama «galé» e rimanda sia al cognome della fanciulla sia all'ordine dell'ermellino ricevuto dal Moro grazie alle belle della famiglia Gallerani. Ragazza di ottima cultura (parlava latino e fece del canto e della poesia i suoi interessi) la Gallerani ebbe un figlio da Ludovico, di nome Cesare. Alla cui nascita, avvenuta dopo il matrimonio del Moro con Beatrice d'Este, fu allontanata dalla corte. Ricevendo in dono dal Moro il titolo di contessa di Saronno e il palazzo di via Broletto a Milano.
Il 27 luglio del 1492, Cecilia sposò il conte Ludovico Carminati detto il Bergamino. E con lui si trasferì a Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce (Cremona), trasformando il castello del marito in un cenacolo letterario. Qui restò tutta la vita e probabilmente fu sepolta - di circa 60 anni - nella cappella della famiglia Carminati presso la chiesa di San Zavedro (dove furono tumulati con certezza i suoi due figli avuti dal Bergamino). E sempre da San Giovanni in Croce, intorno al 1498, Cecilia intratteneva corrispondenza con Isabella D'Este che le chiedeva, ancora a distanza d'anni, di poter vedere quel suo ritratto eseguito da Leonardo (forse il disegno). Cecilia le rispondeva che «sì, volentieri glielo poteva mostrare...» ma che lei, da allora, era tanto cambiata. Invecchiata? E come?
Villa Medici del Vascello, San Giovanni in Croce (CR).
C'è una traccia per rispondere. Perché in quegli anni un pittore cremonese, non estraneo a influenze peruginesche, forse la raffigurò quarantenne - quindi vent'anni dopo Leonardo - in un ritratto molto caratterizzato e in grado di rievocare la giovanile bellezza. Così ritiene William Ottolini, già professore di Educazione Artistica e storico locale di San Giovanni in Croce, a partire dall'analisi dei rilievi fisiognomici, di qualche riscontro documentario e dalla cronologia (ovviamente ad altri esperti resta la verifica di questa ipotesi).
Cecilia Gallerani apparirebbe infatti ritratta da questo pittore come la devota committente di una pala, parte di un polittico, oggi esposta sull'altare della parrocchiale di San Giovanni in Croce. La parrocchiale è del 1940 e, con certezza documentaria, la pala ove sarebbe ritratta la Gallerani si trovava precedentemente nella chiesa di San Zavedro, sempre a San Giovanni in Croce, successivamente abbandonata. Più esattamente si trovava nella cappella di famiglia dei Carminati-Brambilla entro la chiesa, e copriva un affresco di analogo soggetto (ora strappato), ovvero una Madonna della misericordia. È molto probabile che l'affresco, e anche la pala, abbiano avuto come committenti gli unici nobili del paese, ovvero Cecilia e Ludovico Carminati. Da ciò prende forza l'ipotesi presentata.
La pala raffigura una Madonna della misericordia con manto rosso smalto e un mantello verde-blu. Al di sotto del mantello si vedono, a destra delle pie donne, la prima delle quali potrebbe essere Cecilia quarantenne e, a sinistra, alcuni monaci del Consorzio di Santa Maria, diffuso a Cremona a quel tempo. Il polittico è anche composto da apostoli, da una crocefissione e dai santi Imerio e Domobono, protettori di Cremona. Il volto della donna committente della pala (la possibile Gallerani) ha congruità con quello ritratto nella Dama con l'ermellino: il tratto della figura, le mani nervose, nonché l'allacciatura delle maniche della veste spagnoleggiante che è analoga a quelle della Belle Ferroniere di Leonardo.
«Non c'è stato alcun ritrovamento: l'opera è da sempre conosciuta qui», affermano Ottolini e la moglie, Giuliana Bini, ex locale assessore alla Cultura. «A noi è sembrato giusto sottoporre il caso all'attenzione critica nel momento in cui fervono i lavori per il recupero di Villa Medici del Vascello, che fu dimora della Gallerani. E nel cui giardino, documenti ottocenteschi attestano la presenza di un frammento scultoreo realizzato da Cristofero Solari, l'artista che realizzò anche la tomba (mai utilizzata ndr) di Ludovico il Moro e Beatrice D'Este».
Quanto all'autore della pala, sono state avanzate un paio di ipotesi. Quando venne esposta in una mostra sui Campi nel 1985 a Cremona, la tavola venne attribuita a Galeazzo Campi. E datata intorno al primo decennio del Cinquecento, «anni in cui Cecilia già risiedeva qui in estate», ricorda la Bini. Dal 1515, invece, la Gallerani non si mosse più da San Giovanni in Croce. Dopo quella mostra, l'esperto Marco Tanzi ha invece attribuito la pala a Tommaso Aleni detto il Fadino, pittore cremonese attivo fra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo. Il quale collaborò con il Campi nel trittico della chiesa di Santa Maria Maddalena a Cremona. La sua esistenza fu attestata per la prima volta nella Cremona Fedelissima di Antonio Campi del 1585.
Il mistero di madona Cicilia «che a'suoi begli ochi el sol par umbra oscura» (come scrisse in un sonetto il Bellincioni) continua.

da: Corriere della Sera, 23 agosto 2011, p. 39

giovedì 18 agosto 2011

Pop, Body Art, Warhol: niente scandali, vengono da Giotto

di Arturo Carlo Quintavalle

Ma davvero sta tornando la querelle degli Antichi contro i Moderni? E l'Arte Alta non ha mai avuto rapporto con l'Arte Bassa, con l'arte della comunicazione più diffusa?
Nel dibattito iniziato da Vincenzo Trione a proposito del volume di Jean Clair che uscirà in Italia in autunno, e negli interventi che lo hanno seguito, potrebbe essere utile introdurre una prospettiva storica, una riflessione sul passato per comprendere l'oggi. E, prima di tutto, l'idea che l'arte di oggi si contrapponga a quella del passato ha, in Occidente, come ben sappiamo, una sua storia: tutto nasce da Giorgio Vasari e dallo schema delle sue Vite, e così ecco il vecchio contro il nuovo, Masolino contro Masaccio, Ghiberti contro Brunelleschi per la costruzione della cupola del Duomo di Firenze e poi contro Donatello per la scultura. Ancora una osservazione; la storia distingue, nell'arte d'Occidente, le diverse culture: ricordiamolo, Giotto era contemporaneo di Cimabue, di Duccio, e poi di Simone Martini; e ancora, quando in Italia, a metà XII secolo, ancora dominava la scultura che chiamiamo romanica, in Francia, da Saint-Denis e Notre Dame a Parigi, si reinventava un linguaggio, che chiamiamo gotico, portatore di una ideologia diversa, quella della funzione e dell'immagine del regno di Francia; così, proprio dall'Ile de France, quel linguaggio si diffonderà in Occidente. Torniamo al Rinascimento: allora, quando Masaccio dominava la scena fiorentina, Gentile da Fabriano e poi Pisanello guidavano l'arte da Venezia a Roma; ma allora che cosa veniva considerato nuovo? Dunque il fatto che Hirst oppure Koons siano contemporanei di Freud o di Cy Twombly non ci permette di stabilire gerarchie, se non poste a priori, cioè partendo da una posizione ideologica, quella che, prima, sceglie il linguaggio ritenuto «migliore».
Altro problema è quello della lingua, dell'uso della lingua. Ma è proprio vero che l'arte legata ai media, l'arte legata alla comunicazione, l'arte che muove, come la Pop americana, ma anche come i graffitisti o i mille seguaci in Occidente di Warhol e del suo scomporre le immagini moltiplicate, quell'arte sia un fatto nuovo, del presente, e non abbia una prospettiva, una storia? Chiunque rifletta sulla tradizione della pittura, dell'architettura, della scultura del passato sa bene che l'intreccio delle lingue è determinante in ogni momento. L'uso di lingue di diversi livelli, alti o bassi, è la struttura di ogni invenzione, in letteratura come nelle arti figurative. Conferme? La storia della incisione è quella di una immagine moltiplicata e usata sempre dal popolare all'aulico, medium di un complesso sistema del comunicare. Ancora: il ritorno costante di tecniche e modelli arcaici precedenti che caratterizza l'architettura dal medioevo al rinascimento al barocco potrà intendersi soltanto come lingua aulica? Penso soltanto a Borromini e al suo evocare il medioevo e al suo uso di materiali e modelli diversi, alternativi a quelli aulici del Bernini. C'è una storia del passato che deve essere riletta per comprendere l'oggi, magari utilizzando la vicenda della stampa, della grafica, del manifesto per capirne il peso e la incidenza sulla riflessione degli artisti in Occidente. La stampa da Schöngauer a Dürer, da Marcantonio Raimondi a Rembrandt e a Goya, e con lei la divulgazione religiosa e la polemica politica attraverso le immagini, sono lingua, a un primo livello, aulica e prodotta da grandi artisti o da loro esecutori, ma poi riprese e moltiplicate e trasformate anche da una rete larga di autonomi creatori.
Allora che cosa distingue Anselm Kiefer da Julien Freud, la Body Art dalla Pop, Guttuso da Fautrier e da Hirst, e Cattelan e Koons da tutti gli altri? Naturalmente le ideologie. Ai vecchi tempi, negli anni 50, figura stava contro astrazione, positivo e democratico contro idealista e reazionario; adesso le cose sono cambiate, ma solo in apparenza. Chi ha puntato sulla Body o sulla Pop ha scelto lingue antagoniste a quelle auliche, lingue che originano dal mondo dei media; altri hanno scelto l'assoluto isolamento dell'opera, hanno evocato il «sublime» dell'arte; altri ancora tornano alla tradizione dell'informale dopo qualche decennio di eclissi. Dunque, niente scontro fra antichi e moderni, ma semmai, e sarà ora di farlo, confronto, conflitto anche, fra le diverse concezioni, ideologie, della funzione dell'artista nel mondo. E questo lo riconoscono, indirettamente, molti di quelli che, con Dorfles, hanno partecipato al dibattito.

da: Corriere della Sera, 13 agosto 2011, p. 47

«Ma l' elogio della reazione ha fatto centro»

Sgarbi: fra 10 anni si vedrà che Clair e Fumaroli hanno ragione. Replica Bonito Oliva: la vostra è solo sfiducia nel futuro

di Paolo Conti

Un Vittorio Sgarbi inedito, insolitamente pacatissimo, quasi saggio: «Credo che tra dieci anni Jean Clair, Marc Fumaroli, lo scomparso Giovanni Testori, io stesso avremo vinto. In fondo proprio Maurizio Cattelan ha annunciato da poco che il suo ciclo si è concluso. E ho esposto questo suo addio nel mio Padiglione Italia alla Biennale di Venezia». Il grande critico Jean Clair ha fatto centro col suo elogio della reazione contro arti-star come, appunto, Cattelan, Hirst, Koons, Mukarami, accusati di studiare solo le strategie del marketing e, così facendo, di uccidere l'arte contemporanea. Il dibattito è aperto ed è inevitabile che Sgarbi, da sempre fautore della «pittura-pittura» e seguace (contestato) del figurativo, interpreti il manifesto di Clair come un sintomo di imminente vittoria: «Clair rispecchia un recente intervento di Fumaroli e a loro aggiungerei anche il nome di Roberto Calasso».
Sgarbi non si sottrae all'invito di fare i nomi di «veri» artisti: «Marc Fumaroli, quando gli chiesi di indicare un artista per il Padiglione Italia, fece il nome di Lorenzo Cremonini, unico autore scomparso esposto a Venezia. Fu lui a teorizzare la divisione tra arte "applicata" alla sopravvivenza pubblicitaria e provocatoria, da Warhol in giù, e arte "implicata" negli aspetti più profondi, quindi Lucian Freud, Francis Bacon, e io aggiungerei Paolo Vallorz, finalmente esposto al Mart di Rovereto grazie all'intelligente passione di Gabriella Belli. E poi Cremonini era l'oggetto, con Domenico Gnoli e Balthus, della mia prima mostra, "Arte segreta", trent'anni fa».
Ma naturalmente Sgarbi è Sgarbi («mancherà poco e capiremo che l'arte contemporanea può benissimo sopravvivere senza Hirst o Koons»). Ma non tutti sono Sgarbi. Non lo è certo Francesco Bonami, curatore della Biennale di Venezia 2003, da sempre su una sponda opposta: «Chi vuole continuare a occuparsi d'arte, a parlarne, deve accettare anche quegli aspetti della contemporaneità che non gradisce esteticamente. Perché l'arte deve restare uno strumento che ci parla del nostro mondo, quello che ci scorre davanti agli occhi». Quindi, Bonami? «Clair, per esempio, cita il video-artista Bill Viola tra i suoi preferiti. C'è questo rimpianto diffuso del Rinascimento, lo avvertiamo tutti, è un'arte che a noi appare più semplice ma per i contemporanei era probabilmente complicata quanto lo è per noi quella attuale. Ecco, per quanto mi riguarda Viola è il peggio del peggio perché vorrebbe essere il Pontormo e purtroppo per lui non lo è». Non si pensi però che Bonami sia pronto a difendere a spada tratta tutta l'arte contemporanea: «Cattelan o Hirst hanno prodotto belle opere, che magari resteranno, e brutte opere. Ma anche ai grandi artisti del passato è capitato di sbagliare, di ripetersi, di non convincere». In quanto a Clair? «È un grande critico che ha diretto il Musée Picasso di Parigi. Ma proprio Picasso era un artista abituato a mettersi in discussione, in crisi, a guardare avanti. Ma Clair arriva alla metà del Novecento e di fronte alla contemporaneità si blocca...».
Infine Achille Bonito Oliva, teorico della Transavanguardia, curatore della Biennale di Venezia 1993: «Jean Clair non chiede più all'arte di essere una domanda sul mondo, ma piuttosto una conferma del già dato e del già vissuto. La sua è una sfiducia nel futuro, vede l'arte come una minaccia». Invece per ABO, l'acronimo con cui spesso si firma, l'arte del nostro tempo, con tutte le sue contraddizioni estetiche, «ha una funzione energetica, è un massaggio al muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva perché la nostra è una società di massa addomesticata dai media».

da: Corriere della Sera, 9 agosto 2011, p. 34

«Così Cattelan dà nuova linfa ai grandi temi»

di Alessandra Muglia

«Jean Clair crede di raccontare gli artisti contemporanei. In realtà ci sta parlando di se stesso, del suo disagio, del suo malessere a vivere in un tempo che non ama: della sua epoca non ama l'arte, ma nemmeno la società». Catherine Grenier, storica dell'arte e vice direttore del Museo nazionale d'arte moderna del Centre Pompidou a Parigi, è la donna che ha «tenuto per mano» Cattelan mentre compiva il suo «salto nel vuoto», come recita il titolo dell'unico libro scritto dall'artista, quello in cui si racconta al pubblico per la prima volta: vita e carriera, paure e ossessioni, dall'infanzia all'incontro con l'arte. Un salto nel vuoto. La mia vita fuori dalle cornici (uscirà in Italia a novembre per Rizzoli) nasce da una serie di conversazioni tenute da Cattelan proprio con la Grenier. Che lo conosce bene.
Sostiene Jean Clair che l'autore dei fantocci-bambini impiccati rappresenta - in compagnia di Hirst, Koons e Murakami - «l'inverno della cultura», una deriva in cui prevalgono logiche di marketing. «Cattelan è un artista che parla del presente e della nostra storia, traspone elementi della vita quotidiana nel vocabolario dell'arte classica, come faceva Manet - ribatte lei -. Questo è il contrario della decadenza, è il rinnovamento».
La Grenier insiste sulla continuità tra ieri e oggi nella produzione artistica. «Nelle opere di Cattelan assistiamo alla rivisitazione dei grandi temi della storia dell'arte. Le sue nove sculture in marmo di Carrara, distese a terra come cadaveri coperti da un lenzuolo (All), rievocano corpi che s'inscrivono nel solco tracciato dal Cristo morto di Mantegna e dal Cristo velato di San Severo a Napoli. Così il dito medio in Piazza Affari a Milano (Love) rinvia alla Statua colossale di Costantino: mano destra. Il Papa a terra della Nona ora al Papa di Francis Bacon. Non intendo dire che Cattelan si sia ispirato a queste opere, ma lui tratta, come i suoi predecessori, alcuni grandi temi dell'arte: la morte e il destino, il potere, l'umanità, il male».
Jean Clair rimprovera a Cattelan e ai «post dadaisti» di essere privi di mestiere e di ricercare la provocazione fine a se stessa. «Il riso è una delle reazioni che si hanno prima di assimilare qualcosa di molto nuovo. E l'arte questo deve fare: turbare, porre domande, far riflettere. Non è certo la tecnica a costituire il valore di un'opera, e questo Clair lo sa bene. I grandi artisti è bene che siano premiati dal mercato, che certo può sbagliarsi, ma questa è un'altra faccenda».

da: Corriere della Sera, 9 agosto 2011, p. 34

L'arte oggi è ancora viva: la performance non l'ha uccisa

«La censura degli eccessi non giustifica una condanna totale»

di Gillo Dorfles

L'uscita dell'ultimo pamphlet di Jean Clair sull'«inverno della cultura» - ne ha riferito ieri sul «Corriere» un articolo di Vincenzo Trione - mi ha allo stesso tempo sorpreso e preoccupato.
Io, infatti, a differenza dello storico dell'arte francese, non credo affatto che l'arte oggi sia da considerarsi defunta, o stia per essere uccisa. Del resto, mi basterebbe elencare pochissimi nomi per provarlo: dallo scultore basco Eduardo Chillida al tedesco Anselm Kiefer, dall'italiano Domenico Paladino all'architetto indiano Anish Kapoor. Di conseguenza, trovo la posizione di Jean Clair, che ho conosciuto all'epoca della Biennale da lui diretta, veramente molto pericolosa. Spiego il senso di questa affermazione: Jean Clair è una persona di grande cultura, oltre che un letterato raffinato, e le sue parole non sono mai superficiali. Come tali, avranno per forza una larga risonanza.
A peggiorare le cose, ritengo che anche il suo riferimento a Oswald Spengler, al suo celebre saggio «Der Untergang des Abendlandes», Il tramonto dell'Occidente, sia altrettanto pericoloso. Tanto più che, al tempo di Spengler, si assisteva a una vera e propria mutazione culturale, mentre oggi ci troviamo di fronte a una contiguità tematica con l'immediato passato; per cui molti degli artisti attuali - quelli che ho nominato prima - non sono certo inferiori ai Klee, ai Georges Braque o ai Kandinsky dell'inizio del secolo scorso.
Un altro dei pericoli presenti nella perorazione antimoderna di Jean Clair è il disprezzo per certe forme artistiche, come la body art o la pop art, le quali costituiscono invece due filoni indiscutibilmente positivi della contemporaneità. E altrettanto si potrebbe dire circa il privilegio da lui conferito all'«alta cultura», mentre sappiamo che proprio correnti come l'arte povera, o la pop art, possiedono degli addentellati indiscutibili con certe forme di «arte popolare».
Un capitolo a parte voglio dedicare ai due filoni estetici particolarmente presi di mira dal pamphlet di Jean Clair.
Il primo, in sintesi, si riferisce a quegli artisti che privilegerebbero «un'estetica del disgusto», esaltando «l'ego onnipotente» e degenerando, di eccesso in eccesso, verso la pura performance . Su questo punto anch'io posso essere in parte d'accordo nella critica: vorrei ricordare il precedente storico dell'aktionismus viennese, che molto spesso ha esasperato i suoi temi, amplificando certe forme patologiche rivolte alla persona umana (su tutte il caso della famosa Orlan, che negli anni novanta si è fatta sconciare il volto con interventi chirurgici, attraverso varie operazioni successive). Quindi, d'accordo: riconosco che alle volte l'arte di oggi eccede in forme esasperate...
Il secondo filone estetico preso di mira da Jean Clair è quello che, per semplificare, potrei definire «del mercato», se non addirittura del marketing. Ora, ammetto che indubbiamente la nostra epoca ha conosciuto uno sviluppo impetuoso del mercato artistico, come non era avvenuto in nessuna epoca precedente. Ma tutto ciò ha portato da un lato alla possibilità del riconoscimento di artisti fino ad allora poco noti; dall'altro, evidentemente, alle volte ha provocato un abuso del potere mercantile, facendone beneficiare anche artisti che non erano al livello corrispondente. Un esempio: Lucian Freud, il quale pur essendo un pittore notevole, secondo me non è all'altezza della sua fama. Invece mi sembra eccessivo il terrore di Clair per artisti come Maurizio Cattelan o Damien Hirst, che pur essendo in un certo senso paradossali, non sono degni del suo disprezzo.
Tutto ciò che precede mi induce a formulare un giudizio su Jean Clair che lui stesso si attira: è un reazionario. E non mi si venga a dire che così faccio entrare la politica nella critica d'arte. In questo caso esiste, e come, un parallelo malefico tra posizione politica e posizione critica.

da: Corriere della Sera, 9 agosto 2011, p. 34

Quelli che hanno ucciso l' arte

Il manifesto di Jean Clair contro la «degenerazione contemporanea». Sotto accusa Cattelan, Hirst, Koons. «Non ci resta che essere reazionari»

di Vincenzo Trione

Non ne potete più di Biennali invase da installazioni simili a discariche, di gallerie occupate da esercizi concettuali incomprensibili? Non ne potete più di animali in formaldeide, di sculture fumettistiche, di pontefici abbattuti da meteoriti? Provate un profondo fastidio di fronte alle mostre blockbuster e al degrado di molti musei, trasformati in supermarket? Non vi resta che leggere gli scritti di Jean Clair, il cui ultimo pamphlet, L'hiver de la culture, è uscito in Francia da Flammarion (in Italia lo pubblicherà Skira a novembre). Diario di sconfitte, taccuino di indignazioni, è il quarto momento di un percorso avviato nel 1989 con Critica della modernità, e proseguito nel 2004 con De Immundo e nel 2007 con La crisi dei musei. Sono i tasselli di un polittico coerente, che rivela una forte tensione etica. Paragrafi di un discorso teorico d'impronta conservatrice. «L'atteggiamento reazionario è più utile di ogni illusione di progresso», ci dice Clair.
Già direttore del Musée Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia, direttore della Biennale di Venezia del centenario (nel 1995), dal 2008 membro dell'Académie française, Clair è un raffinato intellettuale che non ha niente in comune con la maggior parte dei critici militanti di oggi, attenti soprattutto ad assecondare le mode e il gusto. Immune da questo vizio, riesce a essere saggista e polemista: si abbandona a un'affabulazione ricca di seduzioni. Nelle sue analisi, tende a iscrivere le diffidenze sempre più diffuse nei confronti delle degenerazioni dell'arte contemporanea dentro una cornice sofisticata, densa di riferimenti storico-letterari. Da moderno-antimoderno, sceglie di interpretare le esperienze del nostro tempo senza mai aderirvi: si mette di lato, cercando di salvaguardare l'aristocrazia dello sguardo. Per comprendere il senso della sua «azione», potremmo richiamarci al Pasolini degli Scritti corsari - insofferente di fronte a ogni omologazione - e a Il tramonto dell'Occidente, monumentale affresco della nostra civiltà.
Riprendendo motivi della filosofia di Spengler, in sintonia con il Fumaroli di Paris-New York et retour, Clair parla di «hiver de la culture». Nel «nostro» inverno, la cultura non è più spazio di una religiosità laica, né strumento per «rendere il mondo abitabile», conducendo verso «una trascendenza al di là delle parole». A prevalere è una logica mercantile. Clair spiega: «Siamo stati riportati a terra, tra paesi desertificati». Dunque, addio cultura. «Resta solo il culturale: che è simulacro, imbroglio, scarto, parola di riflessi condizionati, dispersione, vaporizzazione».
Stiamo assistendo al crollo di un edificio millenario. Si pensi alla situazione in cui versano i musei. Grandi magazzini: «Depositi di civilizzazioni defunte» - ripete - dove si allineano i dipinti secondo criteri cronologici. Lì si stipano individui solitari, che trovano nel «culto dell'arte la loro ultima avventura collettiva». Vanno al Louvre o agli Uffizi come una volta ci si recava nei templi. Si spostano in gruppo: «Più la gente è sola, più va al museo». Chiassosi pellegrini postmoderni, vanno all'assalto di mostre-evento, che esercitano uno straordinario potere attrattivo. Di fronte alle miserie del presente, scelgono di rifugiarsi nel passato, in un «miscuglio di timida e paurosa reverenza». Preferiscono un quadro a un libro, perché l'immagine possiede un'imperiosa immediatezza, che si concede «senza fatica, in una profusione di significati possibili». Andare in un museo, per loro, è solo un modo per distrarsi. Da più parti, si insegue la risposta del pubblico di massa, dimenticando che, come ripeteva Georges-Henri Rivière, «il successo di un museo non si misura dal numero dei visitatori che riceve, ma dal numero dei visitatori cui insegna qualcosa».
La medesima deriva si può ritrovare in molte sperimentazioni delle post-avanguardie, esaminate da Clair anche in un piccolo libro-intervista, Breve storia dell'arte moderna (Skira). Gli scenari attuali sono caratterizzati da due indirizzi. Da un lato, un soggettivismo narcisistico, basato sull'esibizione degli scarti del corpo. Artisti come Serrano, Orlan e Sherman fanno l'elogio della spontaneità e della violenza. Pensano l'opera come «mostruosità, rifiuto, cosa abietta, informe e senza vita». Testimoni di un'estetica del disgusto, esaltano l'ego onnipotente. Trascrivono pulsioni irrefrenabili. Sfidano ogni morale, con un «gesto portato all'estremo limite, e finalmente alla performance». Dall'altro lato, ecco gli eredi di Duchamp: Cattelan, Hirst, Koons, Murakami, i fratelli Chapman. Sostenitori di uno stile non supportato da conoscenze tecniche, i post-dadaisti non frequentano più botteghe. Privi di mestiere, studiano solo le strategie del marketing. Si comportano come nuotatori che, per non affogare, compiono esclusivamente atti disperati. «Poveri noi, a volte, con i loro gingilli senza talento, vengono ospitati in musei prestigiosi o in siti storici come Versailles. Siamo proprio ridotti male...».
Dal dopoguerra, dice Clair, è iniziato un drammatico declino, segnato da scandali, da rivoluzioni permanenti, dalla tirannia di un «nuovo» senza origine. Siamo nella geografia del negativo. In un teatro di pantomime burlesche: un teatro «festivo e funebre, venale e mortificante», contagiato da blasfemie. L'artista del nostro tempo non è più un profeta. «Somiglia all'assassino di cui aveva scritto Thomas de Quincey: pratica la dissacrazione, la profanazione, il furore omicida». Come uscire da questo abisso? Clair non ha dubbi. In un'epoca che tende a trasformare tutto in intrattenimento, bisogna riaffermare la grandeur; sottolineare l'importanza di quello che Robert Hughes ha definito l'«inestimabile», evitando ogni confusione tra prezzo e valore dell'opera. Ritornare alla figurazione; riscoprire sobrietà, equilibrio, sapienza. «L'arte deve darsi di nuovo, come tessuto di continuità, immobilità e silenzio; costruzione che si vede, si dà nel tempo e nel tempo si ritrova». Universo di bellezza e di purezza. Emozione, colpo al cuore. Esperienza mistica, fondata su segrete ragioni spirituali. Artificio per dare voce - è quanto hanno fatto personalità solitarie come Lucian Freud e Zoran Music - a «temi sociali o addirittura politici», a interrogazioni assolute e drammatiche. «Senza questo dramma l'opera non vale niente, non dice niente, è irresponsabile», osserva Clair.
In L'hiver de la culture Clair oscilla tra pessimismo e nostalgia. Per un verso, descrive gli esiti di una catastrofe: i contorni di un'apocalisse. Per un altro verso, auspica il recupero di regole classiche. Il suo è un racconto critico radicale, spietato, volto a smascherare falsi miti e fragili leggende. Un racconto che, tuttavia, tende a proporre gerarchie forse desuete tra arti maggiori e arti minori. Per Clair, infatti, esistono frontiere che non bisogna mai valicare tra la cultura alta - fatta di sculture e quadri - e la cultura pop, fatta di cartoon, graffiti, video. «La discesa dall'high culture alla low culture è una discesa agli inferi», ci dice. Un esempio: i fumetti di Art Spiegelman sul nazismo non hanno lo stesso valore dei disegni su Dachau e Buchenwald di Music, Taslitzky e Colville, i quali hanno saputo dare di quegli orrori un «equivalente plastico di incontestabile bellezza».
È davvero così? Difendere la specificità «storica» di pittura e scultura suona come un ritorno all'ordine troppo anacronistico. Impedisce di misurarsi con il paesaggio in divenire delle poetiche attuali. Lo sforzo sta non nel rifiutare «tutto» il presente, ma nel riconoscere ciò che, in esso, ha autentica forza. Inutile invocare la ripresa di categorie tradizionali. Meglio confrontarsi con artisti - come Kentridge, Viola, Kiefer o Paladino - impegnati nella riflessione sulle proprietà tecniche del linguaggio di cui, di volta in volta, si servono. Clair coglie solo le opacità del nostro tempo. Sembra dimenticare che, anche nel cuore della notte, esistono improvvisi sprazzi di luce. Proprio nel buio, è necessario aprire gli occhi, in cerca di quelle lucciole di cui aveva parlato Pasolini sul «Corriere della Sera». Commentando quell'intervento, Georges Didi-Huberman ha ricordato, in un recente pamphlet (Contro le lucciole, Bollati Boringhieri), quanto è bello «rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono - e si amano - le lucciole». Forse, anche nell'«inverno della cultura», ci sono significative sacche di resistenza. Non crede che sia così? «No - risponde Jean Clair - di fronte a me vedo solo un inaccettabile imbarbarimento estetico. Mi creda, non ci resta che essere reazionari».

da: Corriere della Sera, 8 agosto 2011, p. 30