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domenica 8 febbraio 2015

Un esercito di batteri salva la regina

Dopo 5 anni e 2,8 milioni di euro, sta per concludersi il complesso restauro dell’immensa (500 mq) Cappella di Teodolinda nel Duomo di Monza, gioiello del Gotico internazionale

di Barbara Antonetto

Le Storie di Teodolinda nel Duomo di Monza rappresentano l’espressione somma della raffinatezza del Gotico internazionale, eppure «quello che vediamo non è che la stesura di base di ciò che fu. Nel caso della Cappella di Teodolinda, più che in altri, c’è una distanza abissale tra come l’opera si presenta oggi e come doveva proporsi all’origine. Queste pitture, che lasciano a bocca aperta per la loro preziosità, erano ben più ricche; in sostanza si è conservata la preparazione su cui i pittori della bottega Zavattari avevano steso per pennellate, a volte corpose, a volte più trasparenti, uno strato di uno-due millimetri di colore abraso da drastiche puliture di restauratori del passato, inconsapevoli dei danni irreversibili che producevano. Le zone a fondo oro, le uniche rimaste inalterate, si accordavano a una pittura brillante e lucida, con un effetto quasi specchiante, ottenuta tramite finiture in lacca e una verniciatura simile a quella dei dipinti su tavola del Quattrocento lombardo. La superficie pittorica era impreziosita da una profusione di oro, argento, resinati di rame, lamine metalliche, lapislazzuli e malachite che dovevano proporre bagliori fulgenti. Era anche lavorata plasticamente per ottenere un effetto tridimensionale tramite le applicazioni in pastiglia, un composto di gesso e colla con cui vennero realizzati a rilievo le bardature dei cavalli, le corone, gli scettri, le trombe, i bordi delle vesti e le estese decorazioni geometriche. Di tutto ciò non rimangono che piccole testimonianze, in alcuni casi dettagli infintesimi non visibili a occhio nudo ma individuati con la fluorescenza ultravioletta e resi leggibili con il restauro: tracce di broccati e di damaschi, finti marmi, perfino le impronte degli scoiattoli e delle lepri su un prato alla fiamminga che ora pare un’opera metafisica più che rinascimentale».
A spiegare perché a proposito del restauro della Cappella di Teodolinda non si può fare appello all’abusato «ritorno all’antico splendore» è Anna Lucchini, che lavora dal 2009 sulle pitture delle pareti e della volta con sette collaboratrici e sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni storici e artistici di Milano nelle persone di Emanuela Daffra e Simonetta Coppa. Ora i lavori, che sono stati preceduti da un anno di indagini diagnostiche coordinate dall’Opificio delle Pietre Dure, sono in fase di ultimazione e si può salire sui ponteggi previa prenotazione.
A Monza Franceschino, figlio di Cristoforo, fondatore della dinastia milanese degli Zavattari attiva per tutto il Quattrocento, diresse con i figli, Giovanni, Gregorio e Ambrogio, un grande cantiere con il quale realizzò fra il 1441 e il ’46 i 500 metri quadrati di pitture che rivestono le pareti della Cappella di Teodolinda, 45 scene disposte su 5 registri e popolate da 800 volti.
L’intervento di restauro è stato di una complessità estrema per le 15 mani cui il restauro ha dovuto adattarsi, per l’estensione del ciclo, per i cambiamenti di stile dovuti ai tempi di realizzazione (il registro in alto è anteriore di sei anni rispetto a quello in basso), per lo stato di conservazione generalmente pessimo ma non uniforme, che ha presentato la necessità di equilibrare le varie parti, per la raffinatezza e la plasticità della superficie pittorica, ottenuta con vari materiali che hanno richiesto modalità di restauro differenti, e infine per la tecnica di realizzazione adottata al fine di ottenere una maggiore esuberanza cromatica, non a fresco bensì a secco con colori stemperati in leganti organici quali olio e uovo. «La scelta di utilizzare una tecnica così complessa è stata essa stessa motivo di estrema fragilità, spiega Anna Lucchini. Le lacche si sono frammentate, le pennellate troppo corpose si sono sfogliate e all’invecchiamento naturale si sono sommati il nerofumo delle candele e i danni da umidità. Durante la guerra le pareti vennero protette con sacchi di sabbia, rimossi i quali ci si trovò di fronte a una coltre di solfati. Paradossalmente però i problemi più gravi sono stati causati dai tanti restauri finalizzati a conservare quest’opera unica che era stata risparmiata dalla ristrutturazione settecentesca del Duomo». La Cattedrale venne edificata nel 1300 sul luogo della chiesa palatina fondata da Teodolinda (570 ca - 627/628); nel 1308 il sarcofago della regina dei Longobardi venne collocato nella cappella a sinistra del presbiterio, che oltre un secolo dopo avrebbe accolto le Storie della regina sulle pareti e, nel tardo Ottocento, l’altare neogotico in cui è conservata la Corona ferrea.
Continua Anna Lucchini: «Il primo danno a queste straordinarie scene di vita cortese risale al 1714 ed è documentato dal cronista Giuseppe Maurizio Campini: “Giovanni Valentino napoletano tolse tutto il bello e il prezioso”. Poi si susseguirono altri interventi tra i quali quello ottocentesco, che rifece la pastiglia dorata della volta affrescata da Antonio da Monteregale un ventennio prima che le pareti vedessero all’opera gli Zavattari, e quello degli anni Sessanta, che con l’uso di cemento liquido e paraloid causò distacchi dell’intonaco dalla muratura e decoesione del film pittorico dal supporto. Il cemento ha rappresentato un grosso problema, eliminandolo in modo meccanico si rischiava di far cadere la pittura per cui abbiamo usato gli ultrasuoni, quelli che usano i dentisti per la detartrasi. Abbiamo fatto anche sperimentazione utilizzando dei batteri per eliminare nitrati e solfati». I posteri assolveranno Anna Lucchini? «Credo di sì. Il mio intervento è totalmente reversibile. Per i ritocchi abbiamo usato gli acquerelli, tutto può essere cancellato con un colpo di spugna. La mappatura fotogrammetrica è stata tradotta in 800 grafici in cui le restauratrici hanno evidenziato tutte le informazioni relative a tecnica pittorica, restauri pregressi, analisi diagnostiche e metodo di intervento adottato; 30mila fotografie documentano inoltre ogni fase del lavoro: è un cantiere studio che ha prodotto un’immensa banca dati». Anche il cantiere degli Zavattari non ha più segreti grazie al restauro: l’intonaco veniva applicato secondo le giornate tipiche del vero affresco, i pittori usavano tutti gli stessi colori e gli stessi patroni, in alcuni casi il disegno veniva trasportato sull’intonaco con la tecnica dello spolvero, in altri casi il foglio veniva applicato alla parete e le linee del disegno ricalcate, in altri ancora i pittori utilizzavano sagome e ripassavano il contorno con il pennello o di rado disegnavano direttamente sull’intonaco con il carboncino.
Il restauro, del costo di 2,8 milioni di euro, è stato realizzato con i contributi di World Monuments Fund, Marignoli Foundation, Regione Lombardia e Fondazione Cariplo (la Osram ha predisposto l’illuminazione). Oltre che alle otto restauratrici le Storie di Teodolinda devono dire grazie a una nona donna, Titti Gaiani della Fondazione Gaiani, che ha promosso il recupero del ciclo e coordina tutti i partner del restauro.

da: Il Giornale dell'Arte, n. 349, gennaio 2015