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domenica 1 maggio 2016

Islam e Occidente, perché tutto passa per le immagini?

di Paolo Monti

In anni recenti, numerose occasioni di dibattito, e talvolta di conflitto, fra Occidente e mondo islamico, sono nate proprio intorno alla questione della visibilità, cioè di che cosa si debba vedere e di che cosa non si debba vedere: il velo e i simboli religiosi nello spazio pubblico, le vignette e i film satirici contro l'islam, le immagini di guerra e tortura in Iraq, la distruzione di opere d'arte antica in Siria e Iraq, i filmati di esecuzioni e decapitazioni da parte di Daesh, le proteste di massa durante le “primavere arabe” e in Turchia, e molti altri. Perché tanta tensione intorno a dove vanno e a dove non vanno gli sguardi? Perché tali scontri riguardo a che cosa è rappresentato e a che cosa non deve esserlo?
Le singole questioni sono fra loro, naturalmente, eterogenee e ciascuna di esse per essere compresa appieno merita una riflessione distinta. Tuttavia, il ricorrere trasversale della questione della visibilità indirizza verso una differenza culturale che si rende registrabile attraverso tutte quelle circostanze. Aggiungendo a tale divario la situazione di visibilità pervasiva tipica della scena multiculturale e mediatica contemporanea, ecco che si comprende come le tradizioni visive di Oriente e Occidente si trovino non solo messe alla prova ciascuna al proprio interno, ma anche poste in immediato reciproco contrasto. [...]
Mai come nel nostro tempo il flusso di immagini è stato intenso e pervasivo. Tale condizione è stata spesso ottimisticamente abbracciata come il frutto buono di amplificate possibilità tecniche, ove al moltiplicarsi delle immagini disponibili corrisponderebbe un diretto proporzionale arricchimento delle esperienze individuali e sociali e un conseguente aumento della conoscenza e del rispetto per la diversità. L'emergere di contrapposizioni e talvolta di aperti conflitti intorno alla questione della visibilità e del nascondimento suggerisce tuttavia in modo sempre più evidente quanto quel tipo d'interpretazione delle implicazioni etiche e politiche dell'attuale sovraesposizione iconica fosse purtroppo ingenuo. La questione delle immagini, infatti, non riguarda mai semplicemente la visione di questa o quella immagine, quanto piuttosto quelli che possono essere chiamati i “regimi di visibilità” entro cui le immagini si mostrano allo sguardo condiviso. Il problema è costituito dai diversi spazi di visibilità e di nascondimento che sorgono da risposte divergenti a domande come: che cosa vediamo? Che cosa amiamo vedere e che cosa odiamo vedere? Chi deve far vedere? Chi ci dice che cosa c'è da vedere? Che cosa significa guardare insieme questa immagine? [...] In particolar modo, la sovraesposizione mediatica contemporanea pone domande importanti rispetto alla condizione di “spettatori” che riguarda la maggior parte dei cittadini, sia in Occidente sia nel mondo islamico, i quali sono chiamati dalle circostanze a diventare a propria volta più riflessivi, attivi, consapevoli. La visione, soprattutto la visione di ciò che non si vorrebbe vedere, assume spesso un carattere passivo, confina l'individuo nella sua funzione meramente “ricettiva” rispetto agli eventi, enfatizzando le reazioni emotive a breve termine ma lasciando tra parentesi la dimensione del Volere e dell'agire, e dunque in ultima istanza la fondamentale dimensione etica del proprio essere posti davanti alle immagini. Affrontare una situazione in continuo e repentino mutamento esige una capacità di giudizio che non parta innanzi tutto dalle immagini proposte, ma dalla costruzione per esse di uno spazio di comprensione adeguato. Per mettere a fuoco questa esigenza, ci viene in aiuto un'osservazione di Marie-Iosé Mondzain: «Siamo sballottati nella tempesta degli spettacoli del mondo, una Bildersturm che non ci lascia più il tempo di capire in che direzione vanno le nostre scelte e quali sono le ragioni del nostro gusto. Eppure occorre che rispetto all'immagine costruiamo scelte e prendiamo decisioni. Quali immagini scegliamo di vedere insieme? Non vedremo mai tutti la stessa cosa, ma possiamo decidere insieme di amare od odiare regimi di visibilità in cui si gioca la questione fondatrice di ogni condivisione. Non si condivide qualcosa di visibile senza costruire quel luogo invisibile che rende possibile la condivisione stessa. Alcune “iconicità” distruggono ogni tipo di condivisione nella comunicazione di un programma».
Quando l'immagine diventa “programmatica” in senso ideologico, quando diventa distruttiva perché fonte d'irriducibile conflitto, l'alternativa non può essere solo quella di assommare altre immagini di segno contrario o quella di “distrarre” l'attenzione degli spettatori verso qualcos'altro. Piuttosto può essere necessario riportarsi alla costruzione di uno spazio non prepotentemente iconico, fatto di riesame autocritico del proprio patrimonio di immagini e di cooperazione civile intorno ai bisogni emergenti, ma talvolta anche di una misurata e consapevole «sospensione della percezione», nell'espressione di Jonathan Crary, per restituire alla percezione stessa una forma di attenzione meno compulsiva e più riflessiva. Accettare la compatibilità di più simboli all'interno della sfera pubblica, evitare di rappresentare criticamente qualcosa non per un divieto ma per coltivarne una diversa comprensione, affiancare alla logica della visione da spettatori quella dell'incontro personale e dialogico, riscoprire i molti esempi di “meticciato” del linguaggio visivo che hanno caratterizzato i rapporti fra Europa e mondo islamico in architettura e nelle arti: sono molti gli esempi possibili di una relazione con le immagini che interpreti una diversa relazione fra i cittadini e le loro tradizioni religiose e secolari.
I mutamenti in atto sono occasione per favorire lo sviluppo di immaginari alternativi. nati magari dalle situazioni di conflitto, ma riflessivamente plasmati dalla consapevolezza della propria strutturale implicazione con altri. Possiamo intendere in questo senso gli immaginari come “schemi di dimenticanza e di attenzione” che indirizzano la domanda etica del soggetto circa il valore di ciò che vede e ciò che questo implica per il proprio agire personale. Indirizzando l'attenzione del soggetto potremmo dire il suo percepire e il suo trascurare gli immaginari veicolano un certo senso di corrispondenza fra le esperienze particolari dell'individuo e i significati di valenza universale, o almeno generale, propri del mondo condiviso con gli altri. Intesi in questo senso, i confini del visibile non richiamano più solo un limite che deve essere abbattuto, ma anche una soglia ove è possibile incontrare lo sguardo d'altri, uno sguardo che sfiora le medesime immagini - o forse anche immagini diverse - ma condivide rispetto a esse una domanda di senso e un bisogno di abitabilità di quello spazio che accomuna almeno tanto quanto distingue.
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Si apre con un contributo di Gilles Kepel, il celebre studioso francese autore di libri come Dio è tornato e Oltre il terrore e il martirio, il terzo ebook del progetto “Conoscere il meticciato, governare il cambiamento", realizzato dalla Fondazione Oasis per Marsilio con il contributo della Fondazione Cariplo. In Il tablet e la mezzaluna (a cura di Alessandro Zaccuri, euro 4, 99) l'attenzione si concentra sul ruolo attualmente svolto dai media nel confronto, sempre più serrato e a tratti drammatico, tra islam e mondo occidentale. Sullo sfondo degli attentati parigini alla redazione di “Chariie Hebdo” e al teatro Bataclan scorrono, tra gli altri, gli interventi di Stella Coglievina sulla normativa europea in materia di libertà di espressione, di Laura Silvia Battaglia sullo stile comunicativo di Daesh, di Viviana Premazzi sull'uso politico del rap e di Eugenio Dacrema sull'evoluzione mediatica del jihadismo. In chiusura, una riflessione dell'intellettuale turco Mutasta Akyol. Dall'ebook anticipiamo un brano del saggio di Paolo Monti.

da: Avvenire, 20 marzo 2016, p. 26