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venerdì 30 marzo 2012

Se un commesso di Palazzo Madama guadagna 4 volte chi dirige gli Uffizi

di Gian Antonio Stella

Se il guadagno misura il merito, dirigere gli Uffizi è un lavoro da 1.780 euro? Lette le denunce dei redditi dei ministri e degli alti burocrati di Stato, i direttori di alcuni dei musei più importanti d'Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.
A uscire allo scoperto, in calce a una lettera pubblica, sono Anna Lo Bianco, direttore della Galleria nazionale d'Arte antica di Palazzo Barberini, Maria Grazia Bernardini, del Museo di Castel Sant'Angelo, Anna Coliva, della Galleria Borghese, Antonio Natali, della Galleria degli Uffizi, Andreina Draghi, del Museo di Palazzo di Venezia, Serena Dainotto, della Biblioteca dell'Archivio di Stato di Roma e tanti altri funzionari alla guida di biblioteche e archivi e istituzioni museali che fanno grande il nostro Paese.
Il punto di partenza, come dicevamo, è la tesi espressa da alcuni esponenti del governo e altissimi grand commis di Stato dopo la (meritoria) scelta di trasparenza fatta giorni fa con la pubblicazione sul Web dei redditi e dei patrimoni. Tesi sintetizzabile così: tanta responsabilità, tanto guadagno. Con parallela citazione dell'America e delle società calviniste dove il reddito non solo non viene pudicamente nascosto come da noi (il denaro è stato a lungo «lo sterco del diavolo» sia per i comunisti sia per i cattolici) ma al contrario esibito, a riprova della affermazione professionale.
Un po'quello che ha detto Paola Severino. La quale, a Liana Milella che le chiedeva se non fosse imbarazzata per i sette milioni di euro denunciati, ha risposto: «No, perché guadagnare non è un peccato se lo si fa lecitamente producendo altra ricchezza e pagando le tasse. A questi redditi sono arrivata solo dopo anni di duro lavoro, supportato da tanta passione».
Fin qua, par di capire, i direttori dei musei ci stanno: è il mercato, bellezza. E le alternative inventate finora, vedi socialismo reale, non hanno dato risultati incoraggianti... Ma perché lo Stato dovrebbe dare 395 mila euro lorde al direttore generale della Consob (che poi ne prende altri 95 mila da membro della Commissione di garanzia per gli scioperi) e undici volte di meno al direttore del museo fiorentino che ospita la «Nascita di Venere» di Botticelli e la «Maestà di Santa Trinità» del Cimabue, «l'Annunciazione» di Leonardo da Vinci e la «Maestà di Ognissanti» di Giotto?
Perché 519.015 euro lorde di pensione all'ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini e 32.535 (cioè 16 volte di meno: sedici volte!) ad Anna Lo Bianco che guida la Galleria nazionale d'Arte antica e per 1.765 euro netti al mese (un quarto di quanto prende un commesso di Palazzo Madama di pari anzianità) porta il peso di custodire e valorizzare la Fornarina di Raffaello, il ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni e quello di Enrico VIII di Hans Holbein e «Giuditta che taglia la testa ad Oloferne» di Caravaggio? Che senso ha che lo Stato tratti con tanta disparità, a capocchia, figli e figliastri?
All'estero non va così. I «pari grado» dei nostri dirigenti, in Francia, Gran Bretagna o Australia, guadagnano il doppio se non il triplo. La stessa Spagna, per dire, nonostante sia in crisi quanto e più di noi, paga i direttori dei più importanti musei dai 50 ai 60 mila euro. Questione di rispetto. Questione di «merito».
Da qui la lettera di «outing», che val la pena di riportare parola per parola: «Tra tanti che sentono il dovere della trasparenza a proposito dei propri redditi, vogliamo ora proporci anche noi, archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari, funzionari con compiti complessi che spaziano dalla gestione del personale al fund raising, alla direzione di musei, fino a incarichi altamente specialistici come la cura di mostre, grandi restauri o la redazione di pubblicazioni scientifiche».
Ebbene, proseguono con amara ironia i firmatari della protesta, «non raggiungiamo i duemila euro al mese; ed è lo stipendio vero, che non prevede nessuna indennità, nessun altro tipo di compensazione. A noi il merito quindi di bilanciare la media europea contro l'eccesso di compensi dei parlamentari, dei manager di Stato e non, di professori universitari. Nel nostro caso gli stipendi si collocano molto al di sotto».
Peggio, insistono: «Un bel giorno, ormai alcuni anni fa, la riforma Bassanini stabilì fortissimi aumenti di stipendio solo per i dirigenti del ministero dei Beni culturali con contratti di tipo privatistico, allargando a dismisura la differenza tra i prescelti e non, con una conseguente e inevitabile soggezione dei primi nei confronti della politica. Saremmo curiosi di sapere come ci apostroferebbe il giornalista Vittorio Feltri che nel corso di una trasmissione televisiva definiva "scherzosamente" barboni i parlamentari per i loro compensi, in fondo di modesta entità se confrontati a tanti altri. E vorremmo anche sapere cosa pensano il presidente del Consiglio Monti e il ministro Severino che con rigore ritengono il denaro il giusto compenso al merito».
Ed ecco la conclusione: «I nostri meriti - spiace dircelo da soli - sono elencati in densi curricula e in un'altissima specializzazione che ci viene a parole continuamente riconosciuta. Ma allora come la mettiamo visto che anche il nostro ministero, pur avendone la possibilità, non ci ha riconosciuto nessuna progressione dimostrando così di non conoscerci e chiedendoci ancora oggi, la fotocopia del diploma di laurea e di perfezionamento?»
È stata questa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il dicastero dei Beni culturali ha appena avviato una specie di concorso che dovrebbe portare a una modesta (cento o centocinquanta euro) progressione meritocratica degli emolumenti. Ma per farlo ha chiesto ai suoi stessi direttori, archivisti, funzionari, archeologi, storici dell'arte, architetti e bibliotecari di fornire un incartamento con dentro non solo tutti gli incarichi di lavoro effettuati ma addirittura il certificato di laurea che, ovviamente, già possiede in qualche cassetto. Una piccola, stupida, crudele umiliazione burocratica supplementare.

da: Corriere della Sera, 9 marzo 2012, p. 29

giovedì 29 marzo 2012

Il vero incontro è «originale»

Che cosa cercano i turisti al museo? Sacralità e fantasmi

di Carlo Sini

Nel 1936 Walter Benjamin aveva già capito tutto: nel tempo della riproducibilità tecnica l'opera d'arte perde fatalmente la sua «aura», cioè quel fascino, caratterizzato da una misteriosa presenza e lontananza, che è proprio di tutti i capolavori delle cosiddette belle arti. La ragione è in fondo semplice. Anche nell'età moderna l'opera d'arte ereditava e riviveva, a suo modo, l'origine ancestrale della espressività umana: un'origine legata al senso magico, rituale e sacrale dell'esistenza. È questo «quid» magico, la sua capacità di dar corpo ai fantasmi, il segreto dell'aura che sembra abitare le opere, rendendole al tempo stesso simulacri e feticci dell'originale.
Nell'oscurità della cella dimora la statua del dio o della dea, sottratta agli sguardi indiscreti dei profani ed esibita ai fedeli in processione solo nei giorni speciali della festa. È nel travestimento dei coreuti e degli attori, simulacri della selva e del cielo, che gli dei e gli eroi si esibiscono allucinatoriamente sulla scena. Tutta la nostra grande arte si è generata da qui, sacralizzando, non più il dio evocato nel feticcio, ma l'opera stessa. Se si voleva conoscere Tiziano e Raffaello, bisognava fare voti e mettersi per via, come i pellegrini di un tempo che volevano vedere Santiago de Compostela o la certosa di Pavia.
E tuttavia la riproducibilità tecnica, come dice Benjamin, era già in cammino. Da tempo immemorabile l'alfabeto aveva dato corpo alle parole e ai pensieri e nel Rinascimento la stampa diffondeva anche figure e immagini come riproduzioni dell'originale in centinaia di copie. È proprio l'idea della copia, tecnicamente costruita, l'origine della «smagicizzazione» del mondo, come disse Max Weber.
Cartesio, per esempio, voleva costruire una copia dell'uomo fatta di terra e, per gratitudine della scoperta di una nuova scienza che sarebbe nata dai suoi geniali esperimenti mentali, prometteva un viaggio votivo alla Madonna di Loreto: curioso intreccio di antico e di moderno. Ma quando la riproducibilità tecnica diviene, in un certo senso, la realizzazione compiuta del feticcio, cioè, come dice la parola, del suo essere «facticius», un idolo fabbricato ad arte, proprio allora anche l'originale (o, se preferite, il suo fantasma) scompare per sempre. Prossimità e lontananza svaniscono e lasciano il posto alla semplice e inerte presenza dei «prodotti» nel supermercato. Quale sarebbe mai infatti l'originale di un prodotto commerciale, di un rasoio come di un'automobile? Tutt'al più si può parlare di prototipo, dove il riferimento al tipo, alla serie, già la dice tutta.
Ecco allora che l'arte, nella società industriale, esce dal segreto della sua cella e si esibisce senza pudore alla portata di tutti (Platone, pensando alla scrittura, già diceva che si prostituisce nei quadrivi). L'opera d'arte diviene merce per il consumo di massa. Ecco il volto della Gioconda che sembra sorridere sulle magliette, o la faccia ridotta a fumetto di Marilyn Monroe, e le immagini in schiera delle lattine di Coca Cola e della zuppa Campbell. Questa consapevole dissacrazione dell'arte operata da artisti come Andy Warhol segna il nostro tempo. E non solo la nostra passione merceologica, ma anche la nostra possessione analitica guida il lavoro «critico». Pensate alla furia strutturalista che viviseziona il «Canzoniere» di Petrarca riducendolo a un corpo anatomico fatto di ricorrenze statistiche di parole, di procedimenti grammaticali e sintattici, di figure retoriche: Laura e l'aura se ne vanno insieme (com'erano venute). La medesima sevizia analitica, condotta tecnologicamente all'estremo confine del microscopico e dell'invisibile, si può esercitare sul corpo materiale di un quadro, di un monumento, di un passaggio orchestrale e così via.
L'arcana sacralità delle opere d'arte, il loro sempre fallito e sempre rinnovato tentativo di esprimere, nelle parole e nelle immagini dell'uomo, il linguaggio di Dio e la verità del mondo, vengono meno nella nostra epoca efficiente e smarrita. Benjamin se ne angosciava; ma non perdeva la speranza. Forse la massa di turisti che affolla ogni giorno il Louvre o gli Uffizi, venendo da tutte le regioni del pianeta, porta con sé la possibile magia di un incontro e un'occasione vivente di futuro.

da: Corriere della Sera, 29 febbraio 2012, p. 53