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giovedì 30 settembre 2010

Una cava minaccia San Pietro al Monte
In mille per la basilica

di Paolo Marelli
«Giù le mani dal monte Cornizzolo. Giù le mani dalla basilica millenaria». Un solo coro per mille voci. Tante quante le persone che ieri si sono strette in una catena umana, quella che si è eretta a muraglia per difendere la vetta della montagna tra Como e Lecco e il gioiello storico-artistico di San Pietro al Monte dai tentacoli della Holcim, la multinazionale svizzera del cemento che, con i suoi moderni «draghi» a motore, vuole divorare una fetta del Cornizzolo, per cavare tonnellate di calcare per l'impianto produttivo brianzolo di Merone.
Se la gigantesca cava dovesse cominciare a tritare la roccia dal monte alto 1.240 metri, «in pericolo - dice Serafino Castagna, responsabile dell'associazione Amici di San Pietro, che tutelano il complesso medievale - ci sarebbe non solo la sopravvivenza di un balcone naturale sul lago di Como e sulla Brianza, ma anche un tesoro di architettura e affreschi della Lombardia, che affonda le sue radici nel basso medioevo».
Dopo mesi di fuoco di sbarramento, con incontri e sirene d'allarme, la crociata per respingere l'assalto della Holcim ha toccato il culmine con la giornata di protesta del «Cornizzolo Day». Una domenica di sole e contestazione sulle pendici tra pranzo al sacco, musica e giochi. C'erano famiglie, giovani e meno giovani, amministratori locali e ambientalisti. Tutti paladini per un giorno contro le brame della multinazionale elvetica, che ha già avanzato una richiesta per aprire una cava, oltre i 900 metri di altezza. Alla testa della crociata per salvare il Cornizzolo e il complesso dell'ex abbazia benedettina ci sono sette piccoli comuni - Canzo, Cesana Brianza, Civate, Eupilio, Pusiano, Suello e Valmadrera - che si estendono ai piedi di questa montagna aspra, ripida e affascinante; paradiso degli scalatori, degli appassionati di parapendio, degli amanti dell'arte e della storia.
Una montagna peraltro già ferita dalla Holcim, che su un versante, sopra le case di Eupilio e Cesana, ormai da cinquant'anni cava dalla miniera dell'Alpetto, la marna che rifornisce di materia prima, per mezzo di un groviglio di nastro trasportatori e teleferiche, i forni dello stabilimento di Merone. Ma i sindaci dei sette comuni spiegano che «si tratta di un polo estrattivo destinato a esaurirsi. Tanto che ha obbligato la multinazionale a setacciare il territorio per scovare una fonte alternativa. E una nuova vena calcarea l'hanno trovato su un'altra parete del Cornizzolo. Ma faremo di tutto per scongiurare un'altra mutilazione di questa montagna».
Nei piani della Holcim l'attività estrattiva della nuova cava dovrebbe durare vent'anni. E se Provincia di Lecco e Regione, a cui toccherà l'ultima parola, dovessero decidere per un no all'apertura, il colosso del cemento minaccia pesanti tagli fra i 270 lavoratori dello stabilimento di Merone. Un braccio di ferro che scatena paura e rabbia. Da tutti, sindaci e semplici cittadini, si alza una sola voce: «Una cava quassù è una follia, uno sconvolgimento per il paesaggio e una minaccia per la stabilità della basilica».
Perché, argomenta Castagna, «l'attività estrattiva vorrebbe dire un'esplosione di dinamite al giorno, con la terra a tremare e nubi di polvere nell'aria a due passi da un complesso millenario». E un solo coro echeggia fino a valle: «Giù le mani dal monte Cornizzolo, giù le mani dalla basilica millenaria».
Il lago di Lecco visto dalla basilica di San Pietro al Monte di Civate.

martedì 28 settembre 2010

Il teatrino di Cattelan

di Maurizio Cecchetti
Per riconoscere il genio di Maurizio Catte­lan non si devono giudicare le opere che fa dal punto di vista artistico, è indispensabi­le analizzare le reazioni che scatenano nel pub­blico. Basta ricordarsi dei tre ragazzini in salo­pette appesi all’albero a Milano e dello scandalo che fecero tra gente comune e ipocrite reazioni dei politici: un ex sindaco (quello della sfilata in boxer), commentò: «Temo un po’ per il traffico»; non contenta della laconica risposta, una gior­nalista chiese all’ex primo cittadino se non gli sembrava una immagine un po’ troppo forte quella di Cattelan: «Ma se non hanno nemmeno un’espressione di dolore…» fu la risposta ancora laconica. L’assessore alla cultura dell’epoca, uo­mo Confindustria, si giustificò così: «Non lo riti­rerò [il patrocinio], sarei accusato di censura. Non sapevo che sarebbe stato allestito così. Nel progetto si parlava semplicemente di pupazzi appesi per rievocare il mito di Pinocchio». La ri­sata è d’obbligo, no? Un signore che abitava di fronte all’albero incriminato, dopo essersi la­mentato per molte ore lanciando grida dalla fi­nestra di casa sua, scese in strada e siccome nes­suno faceva nulla per togliere quello scempio salì su una scala e cominciò a tagliare le corde, uno dei manichini cadde e si ruppe. Arrivò per caso un critico d’arte libertario e benpensante (che poi fu a sua volta assessore del Comune) gridando: «È puro vandalismo culturale» [quello di Cattelan? No, quello del signore di mezz’età…] «chi fa queste cose andrebbe arre­stato. È come quando presero a martellate la Pietà di Michelangelo». Per lui anche i graffiti del Leonka sono degni della Sistina, tutto si spiega accidenti! E il teatrino potrebbe continuare. Il fi­nale è degno di nota: arrivò anche Cattelan, vide il manichino in pezzi, raccolse i cocci e confessò tristemente: «Io non ho commesso atti contro la legge, chi rompe l’opera sì» (e pare abbia anche sporto denuncia: non c’è male per un provocato­re). Adesso Cattelan ci riprova. Per la verità se ne parla da mesi, da quando rese noto l’ormai cele­bre «dito medio» – intitolato L.O.V.E. – che verrà collocato in Piazza Affari (ma solo per una deci­na di giorni); dopo lunga querelle tra il sindaco in gonnella che lancia fulmini dagli occhi e l’as­sessore che promette gesti pubblici di protesta se la mostra salta (le dimissioni?), mentre ci si at­tacca a tutto pur di limitare i danni (compresa un’assurda polemica sul manifesto della mostra e un orario d’apertura di poche ore pomeridia­ne- serali), sembra che venerdì si inauguri, ma dalle iniziali otto opere programmate ne verran­no esposte soltanto quattro. Ci sarà la statua di Giovanni Paolo II caduto sotto un meteorite, l’Hitler genuflesso e la donna crocifissa. Tutte o­pere già note e causa di polemiche, esposte a Pa­lazzo Reale assieme a un libro d’artista nel quale Francesco Bonami, il critico internazional-popo­lare amante del suk artistico, spiegherà in 44 ta­vole la carriera artistica di Cattelan. Sarebbe un errore madornale credere che la mostra di Catte­lan sia questa. Le opere sono soltanto il pretesto, il capolavoro invece è ancora in fieri: è la provo­cazione implicita in chi accetta di esporre le sue opere a Milano, dopo il precedente dell’albero, sfidando i benpensanti, e si sa che i primi a do­versi dimostrare tali sono quelli che governano, i politici, che monitorano le reazioni del pubblico. C’è malumore in giro, si viene a sapere di un’o­pera che fa un gesto volgare ma interclassista, nel senso che è praticato tanto dai ricchi quanto dai poveri, da quelli con una laurea e dagli anal­fabeti, da nonne e nipotini, insomma dall’Italiet­ta televisiva? C’è pure un colpevole? Il mondo fi­nanziario mondiale. Bene, quale idea può essere più efficace di questa se collocata in Piazza Affa­ri? E infatti Cattelan dice: accetto tutto, ma non rinuncio alla collocazione di quell’opera davanti alla Borsa, voglio vedere che effetto fa. Alla fine Milano avrà la sua mostrina di Cattelan. Però, parliamoci chiaro: piaccia o meno, Cattelan è l’artista italiano più noto e quotato al mondo. Le sue opere vengono vendute a milioni di euro. Si può decidere di fare una sua mostra oppure no. Ma se si fa, bisogna avere il coraggio di andare fi­no in fondo, esporre quello che va esposto, guar­dare, analizzare, criticare, stroncare, ridere, pian­gere, pregare, odiare, sfasciare (questo no), in­somma, assumersi piena responsabilità e non fare questa magra figura che ha fatto Milano, che è soltanto l’ultima più clamorosa in una serie di mostre che da anni non sono all’altezza di una città che fece carte false pur di avere Expo 2015. Si facciano l’esame di coscienza quelli che deci­dono a Milano. E si domandino: se questa mo­stra di Cattelan fosse venuta in mente a Roma, a Venezia oppure a Firenze, si sarebbe vista mai tanta finta pruderie? In ultimo, una nota su Cat­telan. Non si tratta di decidere se sia bravo o no. È bravo e capace, ma in quello che sa fare: il pro­vocatore, l’uomo spettacolare, il pubblicitario di situazioni paradossali che solleticano il perbenismo di tanti che amano la bagarre, lo sberleffo plateale e pubblico di memoria futurista. L’arte è un’altra cosa. Anzi, dirò me­glio: Cattelan sarà pienamen­te artista (e non solo comuni­catore o buffone di corte) quando saprà darci, final­mente, un’opera senza pro­vocazioni d’immagine, ma capace di rendere la bellezza in una forma che parla da sé. Dove la forma, insomma, prevalga sul «messaggio stra­no ». Sembrava che potesse riuscirci quando a Palazzo Grassi espose sette marmi dove s’intuivano altrettanti corpi stesi a terra e coperti da un lenzuolo. Ma c’era ancora troppa «cronaca» in queste sculture e poco assoluto. Col «dito medio», però, Cattelan dà prova di essere ritornato alla sua tentazione più irresi­stibile: mettere i baffi alla Gioconda.
L'installazione "L.O.V.E." davanti alla Borsa di Milano (27 settembre 2010)

lunedì 27 settembre 2010

Manifesto con Hitler che prega
Altolà del Comune a Cattelan

di Andrea Senesi
Palazzo Marino blocca il lancio promozionale della mostra di Maurizio Cattelan. Il logo del Comune accanto all'immagine di Adolf Hitler genuflesso in preghiera, una delle opere più famose dell'artista veneto, non arriverà sui muri della città. Non subito, almeno. La decisione di stoppare la campagna pubblicitaria arriva dalla direzione generale, dopo i malumori espressi dall'assessore al Decoro urbano, Maurizio Cadeo.
«Quel manifesto ci preoccupa», ammette il direttore generale di Palazzo Marino, Antonio Acerbo: «Dobbiamo approfondire la questione, anche perché quell'immagine potrebbe offendere la comunità ebraica, soprattutto dopo aver annunciato che i proventi sarebbero andati al Memoriale della Shoah». Il «sondaggio» presso i rappresentanti della comunità scatterà nelle prossime ore.
A Palazzo Marino il primo a sollevare dubbi è stato l'assessore Cadeo: «Mi sembra che si tratti di una provocazione dell'artista, visto che l'opera con Hitler in ginocchio non è nemmeno tra quelle in esposizione a Milano. La libertà espressiva non può offendere la sensibilità delle persone. È un confine che non va valicato. Ci appelliamo al buon senso degli organizzatori. Ritirino quell'immagine». E non sarebbe la prima volta. Due anni fa il Comune impose il ritiro di una campagna-choc ideata da un'associazione non profit per la giornata contro la violenza sulle donne. Una ragazza crocifissa nel letto di dolore e l'inequivocabile claim: «Chi paga per i peccati dell'uomo?». Classico effetto pugno nello stomaco, in stile Toscani.
«Contro le ideologie», ovvero la mostra delle polemiche. Cominciate prima dell'estate, quando le prime anticipazioni sulle opere in esposizione bastarono a provocare tsunami di polemiche. La mostra inaugurerà il 24 settembre. Oltre alla ormai famosa statua del dito medio alzato, pensata ad hoc per piazza Affari, era stata annunciata una retrospettiva con almeno una decina di opere. Alla fine saranno solo tre. «In Comune sono dei roditori, hanno rosicchiato su tutto», ha detto in un'intervista al Corriere l'artista. A Palazzo Reale, alla fine, arriverà il Papa colpito da un meteorite («La Nona Ora» del 1999), «La donna crocifissa» (2008) e «Il tamburino» (2003).
Maurizio Cattelan, l'artista italiano più conosciuto e quotato (otto milioni di dollari il record di una sua opera all'asta) al mondo, era già stato protagonista di un altro «caso» nel 2004, quando, sotto la giunta Albertini, aveva esposto i fantocci di tre bambini impiccati nel giardino di piazza XXIV Maggio. Genio o provocazione? Oggi come ieri, l'interrogativo che circola in Comune è lo stesso.

Il manifesto originale

Il manifesto definitivo

sabato 25 settembre 2010

Shoah: memoria sì, non sensi di colpa

di Vito Punzi
Qualche settimana fa si è dato conto su queste pagine dell’ultimo romanzo di Iris Hanika, dedicato al carico della Memoria e all’«industria della Shoah» nell’attuale società tedesca, segnalando come in una delle ultime pagine del libro la scrittrice immagini Frambach – uno dei protagonisti – pronunciare la seguente frase mentre osserva a Berlino il Memoriale per gli ebrei d’Europa assassinati: «Quel passato era diventato così.
Non incantevolmente bello come questo memoriale, piuttosto angustamente pesante e chiaramente impresso nel Paese e nel popolo». Sul tema del peso attuale della «colpa» tedesca, acutamente rilanciato dalla Hanika (anche se solo attraverso una finzione romanzesca) è intervenuto nei giorni scorsi, con una lunga intervista al settimanale tedesco Junge Freiheit, proprio colui che ha progettato quel Memoriale, l’architetto newyorkese d’origine ebraica Peter Eisenman. L’opera da lui ideata (2711 stele grigio scure, in cemento armato e di varie dimensioni, collocate su una superficie di 19.000 metri quadrati), inaugurata il 10 maggio 2005, fece discutere allora (il cristiano-democratico Helmut Kohl, per esempio, era favorevole, mentre il socialdemocratico Gerhard Schröder contrario).
Oltre all’iscrizione «Memoriale per gli ebrei d’Europa assassinati», non una dedica, non un nome, non una stella di Davide... Tanto che i promotori sollecitarono un «punto informativo» esterno, inizialmente non previsto da Eisenman: «Ce lo chiesero, sì – ricorda oggi l’architetto – ed è un luogo molto serio, dove si trovano testi e memorie, ma non ha nulla a che fare con l’esperienza fisica del Memoriale, perché questo non c’entra con l’esperienza dei Lager, si tratta di qualcosa di empaticamente diverso». Sollecitato da Moritz Schwarz a spiegare un’affermazione così forte, Eisenman aggiunge oggi che «il Memoriale non prescrive a nessuno, neppure ai tedeschi, di riflettere in una determinata maniera sull’Olocausto; non è una forma d’interpretazione dell’Olocausto».
Nessuna volontà dunque di realizzare un monumento che ricordi ai tedeschi un passato di colpa. «Chi lo visita – prosegue il progettista – è chiamato a concentrarsi sul luogo come tale, dunque è chiamato ad essere pienamente nel presente, non nel passato», poiché «sarebbe un bene per la Germania se normalizzasse il rapporto con la propria storia: perché i tedeschi di oggi dovrebbero sentirsi colpevoli della loro nascita?». Seppur criticato dai tedeschi che gli chiedevano una «rappresentazione permanente della nostra vergogna», causa la mancanza nel suo Memoriale di riferimenti espliciti all’Olocausto, Eisenman ribadisce ora che «qualsiasi opera d’arte dotata di un chiaro rimando alla Shoah risulta inevitabilmente meno espressiva del crimine stesso».
Apparentemente "tenero" nei confronti dell’antisemitismo, in realtà l’architetto americano non si tira indietro nel momento in cui gli viene chiesto di rileggere ciò che ha tragicamente segnato il XX secolo: «È noto che lo stesso Roosevelt era antisemita, visto che nel 1922, da governatore, si espresse per la limitazione del numero di studenti ebrei ad Harvard.
Lo stesso Churchill non era certo un filo-semita». Tanto che entrambi, «così come non hanno bombardato la ferrovia che portava ad Auschwitz, non hanno fatto certo la guerra per salvare gli ebrei». Convinto che la storia non sia semplicemente colorata di bianco e di nero e che piuttosto «le cose sono più complesse», Eisenman rilancia infine una lettura del secondo conflitto mondiale che certo è molto vicina alle posizioni degli storici cosiddetti "revisionisti": «E i tedeschi? Molti di loro allora si chiesero: "Non abbiamo forse salvato il mondo dal comunismo?", pensando di aver sbagliato. Ma gli inglesi non amavano il comunismo, e neppure gli Usa lo amavano, dunque perché doveva essere stato un errore aver combattuto Stalin?».
Non senza paradosso, Eisenman conclude l’intervista iniziata sul tema Olocausto ricordando che «l’80% dei soldati della Wehrmacht caduti nella seconda guerra mondiale morì proprio sul fronte orientale». Non è difficile immaginare che nell’ideare il suo Memoriale berlinese l’architetto, oltre che alle vittime dell’Olocausto, abbia pensato anche a loro, a tutte le vittime del conflitto, e ancor più alle generazioni che ne sono seguite.

Il Denkmal fur die Ermodeten Juden, memoriale delle vittime dell'Olocausto

domenica 19 settembre 2010

«Così ho abbattuto mio padre»

di Francesca Bonazzoli

Dopo annunci, retromarce, tre giunte comunali e persino la richiesta del consenso dell'amministratore delegato della Borsa e della Curia, il 24 settembre verrà inaugurata a Milano la personale di Maurizio Cattelan, il nostro artista più conosciuto e quotato (otto milioni di dollari il record di una sua opera all'asta) nel mondo. Oltre alla ormai famigerata statua del dito medio alzato, pensata ad hoc per piazza Affari, era stata annunciata una retrospettiva con almeno una decina di opere, ma alla fine saranno solo tre.

Maurizio Cattelan, che cosa è successo?

«Il budget era troppo basso per una grande retrospettiva; poi il Comune ha cominciato a scremare la lista di opere indesiderate e, dopo tre rinvii, l'ok della giunta comunale è arrivato solo qualche giorno prima di agosto. A fine luglio non ero ancora in grado di ordinare la moquette rossa che sarà sotto la statua del Papa. Se non ci fosse stata la stampa a seguire il caso, oggi forse questa mostra non ci sarebbe».

Il dito in Piazza Affari resterà esposto solo dieci giorni e Palazzo Reale avrà, solo per la sua mostra, un orario ridotto a quattro ore al giorno; i manifesti pubblicitari non sono ancora comparsi in città. La sensazione è che il Comune le abbia riservato un basso profilo. Perché non ha mandato tutto all'aria?

«È un'amministrazione di roditori: hanno rosicchiato su tutto quello che potevano. In vent'anni non mi è mai successa una cosa così: vengo a sapere dai giornali cosa stanno decidendo in Comune! Sono andato avanti perché credo molto nel progetto della statua davanti alla Borsa: mi interessa la forza della piazza. E poi perché molti dei miei lavori migliori sono frutto o di errori o di situazioni come questa dove sei costretto a trasformare in positivo gli imprevisti. Alla fine le tre opere che esporrò a Palazzo Reale sono un trittico perfetto, la mia famiglia autobiografica: il padre, la madre e il figlio. Se mi fossi seduto a tavolino non mi sarebbe venuta in mente una mostra così».

Ha messo in mostra la sua famiglia?

«È una famiglia disfunzionale, come è stata la mia: il padre fa il Papa; la madre sostituisce il figlio in croce e il figlio non riesce a comunicare se non battendo il tamburo».

Questa interpretazione del Papa colpito dal meteorite come suo padre non l'avevamo mai sentita.

«La statua di papa Wojtyla è un lavoro del 1999 che era nato in piedi, ma non mi convinceva. A una settimana dalla mostra cominciai a pensare a come distruggerlo. Alla fine mi venne l'idea del meteorite e fu come un'illuminazione: capii che avevo abbattuto la figura del padre. Questo è quello che sanno fare i lavori importanti: se io ho avuto un'epifania, allora può averla anche qualcun altro».

Chissà come sarà contento suo padre a leggere questa rivelazione.

«A diciassette anni tentai di strangolarlo; fu allora che andai via di casa. Di giorno lavoravo otto ore, alla sera andavo a scuola: niente divertimento. Ma avevo bisogno di silenzio intorno a me: la casa era piccola e noi eravamo in troppi. È stato il cruccio di mia madre che era orfana e ha rivissuto l'abbandono».

Il bambino tamburino allora è lei?

«Decisamente: non posso togliermi dalla partita. Penso di essere un caratteriale, forse da piccolo molto più di adesso. Mia mamma, presa dalla disperazione, venne a chiedermi cosa non andava. Mi ricordo mezz'ora di silenzio dove nella mia testa c'erano migliaia di inizi di possibili dialoghi che non hanno mai preso forma verbale. Non era solo l'incapacità di esprimere le mie necessità, era un blocco emotivo. Io non avevo un tamburo, ma usavo il silenzio. Come ho montato il bambino nella sala delle Cariatidi è perfetto: è in alto sul cornicione, solo e distante; c'è e non c'è. Non è a livello delle altre figure ma è sospeso nel punto di vista esterno dello spettatore, quello che ho sempre usato nella vita».

Dunque la donna crocifissa è sua madre, quella che non l'ha mai baciato?

«Nell'arte la donna è la Madonna e la rappresentazione della bellezza, ma nella mia famiglia la donna era sofferenza. Quest'opera per me non è mai nata come una crocifissione invertita, ma in questo trittico mi sento di giustificarla come la mia visione domestica femminile».

Non pensa che il bambino tamburino e il Papa assieme nella sala delle Cariatidi faranno pensare agli scandali di pedofilia che hanno colpito la Chiesa?

«Si possono smembrare le opere e dare anche letture di attualità. Però l'idea a monte è unire tre opere che hanno significato moltissimo per me».

Si aspetta polemiche come per i manichini impiccati a Milano nel 2004 che furono tolti dopo un solo giorno?

«Questa ormai è una mostra certificata e già discussa sulla stampa. Quando andremo a vederla qualcuno si chiederà perché c'è stato tanto rumore per nulla. Anche la statua della mano in fondo viene da un'immagine classica come quella della mano di Costantino ai Musei Capitolini. Se non ci fosse stata la precedente avventura milanese sarebbe stata una mostra senza tanti problemi. Quando dicono che sono un manipolatore o un pubblicitario, io dico: voi che fate i giornali, i blog, siete i manipolatori. Io produco, sono gli altri che parlano».

Il dito medio alzato non è un'immagine neutra.

«Quante dita così abbiamo visto sui giornali, fatte da Bossi, dalla Santanché o da Berlusconi? Quando i politici diventano clown siamo tutti divertiti perché ci fanno sentire in un grande bar che non si chiama nemmeno Italia, ma bar Centrale. Ecco: io mi allineo con lo spirito del bar Centrale. Entro anch'io».

Ma lei non era il ribelle dell'arte? Non le dà fastidio che questa mostra arrivi, come dice lei, certificata?

«Non ho mai perseguito polemiche o strategie del ribellismo. Sono felicissimo che il vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Milano, interpellato dal Comune per non urtare la Curia, abbia visto quello che in realtà è la statua del Papa: un lavoro spirituale che parla di sofferenza. Il titolo La Nona Ora allude a quella in cui Cristo, sulla croce, chiede al Padre perché l'ha abbandonato, ma il Papa cadente si aggrappa al crocifisso. Certe cose hanno bisogno di tempo per essere digerite. Forse dieci anni non sono ancora abbastanza».

Il 21 settembre compirà cinquant'anni. Un bilancio?

«Mi sento ancora con i calzoncini corti, come se fossi cresciuto durante l'ultima notte. Sono il primo a essere sorpreso di essere arrivato qui integro».

da: Corriere della Sera, 13 settembre 2010, p. 33

giovedì 16 settembre 2010

Le ragioni per riunire l'officina di Wiligelmo

di Arturo Carlo Quintavalle

Provate ad andare davanti alla facciata del duomo di Modena, certo un monumento determinante del romanico europeo dove, opera Wiligelmo fra 1099 e 1110 circa. In basso le lastre con le Storie della Genesi, al centro, fra queste, il grande protiro retto da leoni romani che precede il portale scolpito coi Profeti; in alto, oltre le gallerie, vediamo un'enorme apertura, un rosone duecentesco che ha sfondato, con la sua luce, lo spazio interno della cattedrale, in origine denso di penombre e di lenti tempi di percezione. Sopra il rosone ecco cinque pezzi scolpiti, al centro un Cristo benedicente che deve essere datato all'epoca del rosone; accanto al Cristo quattro simboli degli evangelisti scolpiti a forte rilievo, quattro distinte lastre e che ora vediamo ridotte fortemente ai lati. Siamo certo in presenza di una sistemazione più tarda: questi pezzi sono resti di un pulpito adesso scomposto che era dunque all'interno, ai limiti fra presbiterio e navata; da esso si predicava il Vangelo.
Lo stile di questi pezzi, pur consunti dal tempo, scavati dalle intemperie, in qualche parte ormai non leggibili, è quello di Wiligelmo e a lui li attribuivo trenta anni or sono. Un tempo, oltre mezzo secolo fa, sui fianchi della cattedrale modenese, salivano delle paraste con dei capitelli, sempre di ambito wiligelmico, capitelli detti metope nel nome del loro apparente classicismo; Roberto Salvini li faceva provvidamente portare all'interno, nel museo lapidario del Duomo, preservandoli da ulteriori distruzioni. Ebbene, ecco un problema: quanto a lungo si potranno lasciare fuori questi quattro capolavori di Wiligelmo che in origine dovevano presentarsi come il pulpito di Carpi (in provincia di Modena) le cui lastre sono integre, o come quello di Quarantoli, oggi ricomposto dopo aver subito forti danni? Il pulpito di Modena è stato un modello ripreso da tutta l'officina dello scultore, una officina che domina una parte del settentrione italiano e che trova sviluppo in quella attiva negli anni venti-quaranta del secolo XII, la officina di Nicholaus, Niccolò, attivo a Cremona, Piacenza, Verona e altrove.
Ancora al duomo di Cremona abbiamo un pulpito che appartiene alla officina di Wiligelmo e che si data fra 1107 e 1115 circa; qui, murati nell'imbotte del protiro e sul muro di fondo, sopra il portale di facciata della chiesa, vediamo altri quattro simboli evangelici, piazzati qui malamente forse da maldestre risistemazioni del XIX secolo; due sporgono ai lati della imbotte del protiro e sono il leone e il toro, gli altri due, l'aquila e l'angelo, sono murati sulla parete di fondo. Anche qui i pezzi sono stati ritagliati, ridotti ai lati, ma conservano sempre una loro forza, una tensione, un vigore di grafia che li fa parenti proprio del pulpito di Wiligelmo a Modena.
Dobbiamo considerare un terzo pulpito, sempre in collocazione spuria, quello del duomo di Verona edificato e scolpito da Nicholaus, il più importante forse fra gli allievi di Wiligelmo. I quattro segni degli evangelisti sono collocati, due per parte, subito sopra i due architravi che reggono l'imbotte del protiro; per sistemarli qui le lastre originarie sono state ridotte e ricomposte fra altre cornici e fregi che illustrano l'intero archivolto. Insomma, un pastiche terribile, certo derivato da restauri, e sul quale la ricerca deve soffermarsi. Dunque tre pulpiti, tre storie diverse di insieme scomposti, che sarebbe necessario rimettere insieme.
In una qualsiasi pinacoteca nessuno esiterebbe a ricomporre un polittico diviso, ma questo finora non accade per tre pezzi dei massimi artefici del XII secolo prima di Antelami. Credo vi sia anche una ragione storica per rimettere insieme questi pulpiti: essi sono stati parte fondamentale dell'arredo interno delle chiese del XII secolo, un arredo che, con la sua diretta evocazione del testo evangelico, proponeva ai fedeli la Chiesa di Roma identificandola con la chiesa costantiniana dei primi secoli, antagonista della chiesa di parte imperiale. Siamo al tempo della Lotta per le Investiture fra l'ultimo terzo del secolo XI e i primi decenni del secolo XII. Dunque restauro anche come recupero della Storia.

da: Corriere della Sera, 10 settembre 2010, p. 53

mercoledì 15 settembre 2010

I minareti come il Campanile di Giotto
Lite (estetica) sulla moschea di Firenze

di Paolo Conti
«La mia supplica, da ex soprintendente di Firenze, è che l'edificio sia almeno decente. Cioè, molto semplicemente, che non sia brutto. Io penso sinceramente che la rovina del mondo contemporaneo sia la cattiva architettura, pensiamo solo al disastro di certe periferie...» Antonio Paolucci, oggi direttore dei Musei Vaticani (alle prese con i problemi di conservazione della Cappella Sistina), non dimentica il suo amore per Firenze quando gli si chiede un parere sul progetto per la futura moschea fiorentina: «Non possono esserci preclusioni ideologiche e meno che mai politiche verso un'ipotesi del genere. Se c'è un'esigenza di culto in qualsiasi città del mondo, va accolta. Anche Roma, in tempi non sospetti, si è data una bellissima moschea firmata da Paolo Portoghesi. L'unico problema è quello estetico...»
Ora tocca a Firenze. E ovviamente è già scontro estetico, come immagina Paolucci, ma che diventa anche politico. Tutto nasce dalle caratteristiche del progetto reso noto dall'imam fiorentino Izzedin Elzir: loggiato di ingresso, sei archi, un grande rosone, sala di preghiera e due minareti. Il complesso rinvia a Leon Battista Alberti per la facciata e al Campanile di Giotto per i minareti. Il senatore pdl Paolo Amato chiede formalmente un referendum cittadino: «La legittima richiesta di costruire nuove moschee non può essere presentata come una sfida simbolica alla nostra cultura e sensibilità religiosa, parlo del minareto "simile" al Campanile di Giotto. Occorre un referendum consultivo cittadino per vagliare la compatibilità col contesto storico, artistico e architettonico di Firenze». I suoi colleghi consiglieri comunali pdl, Marco Stella e Stefano Alessandri, parlano di «provocazione inaccettabile». Invece il vicesindaco pd Dario Nardella replica: «L'iniziativa del pastore della Florida di bruciare il Corano in occasione dell'11 settembre è una provocazione gravissima che fa solo il gioco di chi vuole guerre di religione e scontro di ideologie. In piccolo è lo stesso atteggiamento di chi reagisce con violenza e intolleranza alla proposta di chi chiede di costruire una moschea a Firenze. Abbiamo bisogno di dialogo».
L'autore del progetto, l'architetto David Napolitano, anche musicista e poeta, da anni impegnato nel dialogo interreligioso, smussa immediatamente la polemica: «Se i minareti che citano il Campanile di Giotto possono irritare qualcuno, si può discutere. Io non ho problemi, si possono persino stralciare dal progetto, non si tratta di una prescrizione coranica». Ma perché guardare proprio alla tradizione classica fiorentina, a san Miniato e al Battistero, per progettare una moschea? «Io sono un classicista convinto. Penso sia stato un errore allontanare l'architettura sacra contemporanea dalla tradizione. La mia proposta assomiglia alla produzione albertiana perché rispetta le leggi classiche rinascimentali dell'architettura: regole matematiche pitagoriche che coincidono con quelle musicali». Quali materiali utilizzerà? «Il marmo verde di Prato, il marmo bianco di Carrara, la pietra forte...» Ma dove e quando si farà? «Non ho risposte da dare semplicemente perché tocca al Comune di Firenze decidere. Non posso nemmeno pronunciarmi sulla volumetria e sulle altezze per la stessa ragione». Il sindaco Matteo Renzi spalanca la porta al confronto: «Non voglio fare una discussione ideologica sulla possibilità di avere una moschea a Firenze. Se i nostri amici musulmani ci presenteranno un progetto lo valuteremo e ne discuteremo apertamente».
E cosa ne pensa proprio Portoghesi, autore della più grande moschea europea, quella di Roma? «Costruire edifici come questi è la premessa per la pacificazione e l'integrazione. E spaventa che siano in molti a esprimere posizioni oltranziste». In quanto al progetto così classicheggiante? «L'Italia ha insegnato per anni il gusto di realizzare interventi moderni però legandosi alla tradizione. Poi è arrivato il frastuono della archistar che ha appannato questo sforzo. Ora mi sembra che anche i giovani stiano tornando verso un approccio culturale che tiene conto di caratteristiche, materiali, sapori locali... Lì si cita Alberti? Mi sembra un buon segno, dopo tanta ubriacatura di clamori e di divismi che hanno appiattito ogni stile».

Il primo disegno della moschea che potrebbe essere realizzata a Firenze

domenica 12 settembre 2010

Come conservare l'arte del Medioevo

La tradizione di Brandi e i rischi del restauro stilistico

di Arturo Carlo Quintavalle

Pochi anni fa chiunque passasse davanti alla facciata del Saint Trophime di Arles, coperta da ponteggi debitamente schermati, avrebbe avvertito un sibilo continuo e l'acqua uscire da sotto i teloni: dentro infatti si proiettava a pressione, sulle sculture del portale di fine XII secolo, un liquido probabilmente con abrasivi.
Certo il sudiciume, i depositi di idrocarburi e degli acidi in sospensione nell'atmosfera venivano rimossi facilmente, ma così si veniva a scoprire la parte viva della pietra, quella appena sotto la superficie lavorata dagli scultori. Altro esempio recente: in Francia, all'esterno della abbazia di Cluny, i resti del grandioso edificio costruito dal 1088 e consacrato, nella zona presbiteriale, nel 1095, avrebbe potuto vedere una scena singolare: muratori sulle impalcature che mettevano in opera perfette pietre di colore giallino ben squadrate, nuovissime, sostituendo le arenarie consunte da oltre 900 anni di esposizione alle intemperie; la parete così risistemata era perfetta, degna di un rifacimento in stile del XIX secolo. Due esempi per capire il tipo di restauro usato per generazioni in Francia, ma anche in Italia a cavallo fra '800 e '900, e ancora in Spagna e Germania, un modello di restauro che muove dalle teorie del grande architetto francese Eugène Viollet le Duc che, in Francia, voleva far tornare le chiese romaniche, ma soprattutto gotiche, alla loro forma originaria e per questo era disposto, come a Nòtre Dame a Parigi, a ricostruire molte parti dell'edificio e a far scolpire ex-novo le sculture distrutte, come nel caso delle statue dei re di Giuda poste in facciata. In passato l'uso degli abrasivi è stato utilizzato come mezzo rapido di pulitura anche da noi, ma da tempo le ricostruzioni in stile non fanno parte della nostra cultura e della nostra prassi, dopo la nuova impostazione teorica sui problemi del restauro proposta da Cesare Brandi.
Riflettiamo: il patrimonio più importante dell'Occidente medievale europeo è quello che vediamo in Italia, in Francia, in Spagna; in questi tre Paesi, ma anche in Germania e Inghilterra, si pone il problema degli interventi di tutela. Lo stato delle sculture medievali all'aperto nel nostro Paese, ma non solo nel nostro, è grave per ragioni oggettive: i mutamenti di clima forse sono gli stessi di 900 anni fa, ma quello che è accaduto negli ultimi 60-70 anni, con la industrializzazione e l'inquinamento, è un fenomeno senza confronto con le epoche passate. Si dice che nelle ultime due generazioni il degrado delle sculture medievali all'aperto è stato più forte che in tutti i precedenti secoli messi insieme. I risultati si vedono: le sculture un poco ovunque spesso mostrano crepe a volte profonde entro le quali penetra l'acqua e, quando l'acqua gela, le sculture si frazionano, oppure, se sono arenarie, si sfarinano. Certo, le scelte sui modelli del restauro nei diversi paesi europei sono diverse ma come coniugare l'azione degli organi preposti alla tutela e quella della ricerca nella università? Per questo è stato creato dal Segretario Generale del Ministero per i Beni Culturali, Roberto Cecchi, un gruppo di studio per proporre nuovi modi di analisi e dialogare con gli organi di tutela delle Soprintendenze.
Le culture del restauro in Occidente sono diverse: in Germania si sono voluti ricostruire, per evidenti ragioni simboliche, gli edifici medioevali semidistrutti dalla guerra, e penso ad esempio a quelli di Colonia; in Spagna l'importanza dell'arte medievale è apparsa evidente fin dai primi decenni del secolo appena trascorso, quando si ricostruiscono edifici in stile e si bloccano le esportazioni di importanti cicli di affreschi e di interi chiostri, come quello di Cuxa, per metà finito al Metropolitan di New York. Da noi è stato elaborato un modello che non privilegia una età rispetto alle altre, e quindi non distrugge tutto quanto le diverse epoche hanno sovrapposto ad una originaria struttura medievale per ricondurre gli edifici a un modello astratto imposto.
Inoltre nuove tecniche di conservazione delle sculture permettono interventi efficaci di salvaguardia, ma resta aperto ancora il problema della collocazione all'aperto di quelle sculture che all'aperto, in origine, non sono mai state e che erano parte di arredi interni medievali poi scomposti, come pulpiti, recinzioni presbiteriali o altro ancora. Dunque è ancora lungo il cammino da percorrere per la salvaguardia delle sculture medievali all'aperto e questo non può che vedere la collaborazione fra organi di tutela del Ministero e ricercatori della università.

da: Corriere della Sera, 1 settembre 2010, p. 39