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giovedì 20 ottobre 2011

Il rosso pompeiano in realtà era un giallo

«I gas dell'eruzione del Vesuvio alterarono i colori»

di Pierluigi Panza

Ci sono due gialli a Pompei. Il primo riguarda dove sia finita la legge sulle (180) assunzioni di personale; e questo giallo l'ha sollevato ieri la Cgil. L'altro riguarda il famoso rosso pompeiano che, in realtà, sarebbe un colore giallo modificato dai gas dell'eruzione vesuviana; e questa scoperta è stata presentata ieri da Sergio Omarini dell'Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ino-Cnr) di Firenze. «Grazie ad alcune indagini abbiamo potuto accertare che il colore simbolo dei siti archeologici campani, in realtà, è frutto dell'azione del gas ad alta temperatura la cui fuoriuscita precedette l'eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C.», ha spiegato Omarini in occasione della VII Conferenza nazionale del colore, che si sta svolgendo a Roma Presso l'Università La Sapienza. «Il fenomeno di questa mutazione cromatica era già noto agli esperti, ma lo studio realizzato dall'Ino-Cnr, promosso dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei in collaborazione con l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ha permesso di quantificarne la portata, almeno ad Ercolano». Le indagini sono state condotte attraverso lo spettrofotocolorimetro per misurare il colore e la fluorescenza X, che ha consentito di rivelare la presenza di elementi chimici per escludere il minio e cinabro dalle pitture.
Detta così, la scienza costringerebbe a riscrivere diverse pagine di storia dell'arte nonché a sorridere delle molte rivisitazioni del passato, da quelle Rinascimentali a quelle del Secondo Impero sino ai molti interni in stile rosso pompeiano sparsi negli alberghi di tutto l'orbe terracqueo. Ma il dibattito sulla cromia delle architetture classiche è sempre stato argomento controverso e tema di forti scontri nella storiografia Sette-Ottocentesca. Sino agli studi (definitivi?) di Hittorf (Mémoire sur l'architecture polychrome chez les Grecs del 1830 e Architecture antique de la Sicile del 1867) molti ritenevano che l'architettura greca, e molte delle architetture antiche, non fossero policrome. Per quella romana, però, proprio gli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, iniziati negli anni Trenta del Settecento sotto i Borbone, avevano reso palese l'utilizzo del colore rosso nella pittura muraria, dipinta con il sistema all'encausto. Anzi, proprio negli scavi settecenteschi erano state messe a punto dal francese Canart le prime tecniche per lo strappo dei dipinti dalle pareti in rosso pompeiano. Suppellettili e pareti venivano infatti trasportate al Museo di Portici dove, secondo Winckelmann, venivano ampiamente manipolate. Le abitazioni scavate, invece, una volta prelevati i reperti venivano nuovamente ricoperte di sabbia.
Quel bel rosso, racconta oggi Omarini, «si otteneva con il cinabro, composto di mercurio, e dal minio, composto di piombo, pigmenti più rari e costosi, utilizzati soprattutto nei dipinti, oppure scaldando l'ocra gialla, una terra di facile reperibilità. Quest'ultimo effetto, descritto anticamente da Plinio e Vitruvio, si può percepire anche ad occhio nudo nelle fenditure che solcano le pareti rosse di Ercolano e Pompei», afferma lo scienziato. L'ocra gialla assunse poi la colorazione rossa a seguito dei gas eruttati dallo «sterminator Vesevo» (Leopardi). Lo scienziato si lancia anche in qualche dato numerico: «Le pareti attualmente percepite come rosse sono 246 e quelle gialle 57; ma stando ai risultati in origine dovevano essere rispettivamente 165 e 138, per un'area di sicura trasformazione di oltre 150 metri quadrati di parete».
Insomma, dei tanti rossi della storia dell'estetica, dal rosso Rubens al rosso Ferrari, dal Rosso Fiorentino al rosso di Valentino, viene (temporaneamente) derubricato il rosso pompeiano.

da: Corriere della Sera, 16 settembre 2011, p. 55

venerdì 26 agosto 2011

Così è invecchiata la Dama con l' ermellino

Vent'anni dopo Leonardo, un pittore cremonese ritrasse di nuovo Cecilia Gallerani

di Pierluigi Panza

La figlia di un membro del consiglio segreto di Ludovico il Moro, Bianca di Pietro Gallerani, il 26 giugno del 1489 fu data in sposa al maggiordomo di Alfonso D'Aragona. Per questo combino, Ferrante re di Napoli (zio di Alfonso) ricompensò il Moro con l'ordine di San Michele o dell'ermellino. Un bel premio; ma il Moro volle di più. Si prese come amante la cugina di Bianca, la quindicenne Cecilia Gallerani (1473 ca - 1530), mentre era già sua promessa sposa una delle figlie del duca d'Este, Isabella o Beatrice. E l'amante minorenne, che Ludovico portava sempre con sé (era un love-addicted dell'epoca), stregò a tal punto il condottiero-predatore che questi chiese al suo artista di corte di farne un ritratto. Così Leonardo Da Vinci dipinse Cecilia Gallerani a Milano tra il 1488 e il 1490.
Il ritratto (La dama con l'ermellino) apparve subito di bella fattura e di complicati rimandi allegorici. Cecilia veste alla spagnola, porta perle nere al collo e stringe tra le mani quell'ermellino (o faina), animale che in greco si chiama «galé» e rimanda sia al cognome della fanciulla sia all'ordine dell'ermellino ricevuto dal Moro grazie alle belle della famiglia Gallerani. Ragazza di ottima cultura (parlava latino e fece del canto e della poesia i suoi interessi) la Gallerani ebbe un figlio da Ludovico, di nome Cesare. Alla cui nascita, avvenuta dopo il matrimonio del Moro con Beatrice d'Este, fu allontanata dalla corte. Ricevendo in dono dal Moro il titolo di contessa di Saronno e il palazzo di via Broletto a Milano.
Il 27 luglio del 1492, Cecilia sposò il conte Ludovico Carminati detto il Bergamino. E con lui si trasferì a Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce (Cremona), trasformando il castello del marito in un cenacolo letterario. Qui restò tutta la vita e probabilmente fu sepolta - di circa 60 anni - nella cappella della famiglia Carminati presso la chiesa di San Zavedro (dove furono tumulati con certezza i suoi due figli avuti dal Bergamino). E sempre da San Giovanni in Croce, intorno al 1498, Cecilia intratteneva corrispondenza con Isabella D'Este che le chiedeva, ancora a distanza d'anni, di poter vedere quel suo ritratto eseguito da Leonardo (forse il disegno). Cecilia le rispondeva che «sì, volentieri glielo poteva mostrare...» ma che lei, da allora, era tanto cambiata. Invecchiata? E come?
Villa Medici del Vascello, San Giovanni in Croce (CR).
C'è una traccia per rispondere. Perché in quegli anni un pittore cremonese, non estraneo a influenze peruginesche, forse la raffigurò quarantenne - quindi vent'anni dopo Leonardo - in un ritratto molto caratterizzato e in grado di rievocare la giovanile bellezza. Così ritiene William Ottolini, già professore di Educazione Artistica e storico locale di San Giovanni in Croce, a partire dall'analisi dei rilievi fisiognomici, di qualche riscontro documentario e dalla cronologia (ovviamente ad altri esperti resta la verifica di questa ipotesi).
Cecilia Gallerani apparirebbe infatti ritratta da questo pittore come la devota committente di una pala, parte di un polittico, oggi esposta sull'altare della parrocchiale di San Giovanni in Croce. La parrocchiale è del 1940 e, con certezza documentaria, la pala ove sarebbe ritratta la Gallerani si trovava precedentemente nella chiesa di San Zavedro, sempre a San Giovanni in Croce, successivamente abbandonata. Più esattamente si trovava nella cappella di famiglia dei Carminati-Brambilla entro la chiesa, e copriva un affresco di analogo soggetto (ora strappato), ovvero una Madonna della misericordia. È molto probabile che l'affresco, e anche la pala, abbiano avuto come committenti gli unici nobili del paese, ovvero Cecilia e Ludovico Carminati. Da ciò prende forza l'ipotesi presentata.
La pala raffigura una Madonna della misericordia con manto rosso smalto e un mantello verde-blu. Al di sotto del mantello si vedono, a destra delle pie donne, la prima delle quali potrebbe essere Cecilia quarantenne e, a sinistra, alcuni monaci del Consorzio di Santa Maria, diffuso a Cremona a quel tempo. Il polittico è anche composto da apostoli, da una crocefissione e dai santi Imerio e Domobono, protettori di Cremona. Il volto della donna committente della pala (la possibile Gallerani) ha congruità con quello ritratto nella Dama con l'ermellino: il tratto della figura, le mani nervose, nonché l'allacciatura delle maniche della veste spagnoleggiante che è analoga a quelle della Belle Ferroniere di Leonardo.
«Non c'è stato alcun ritrovamento: l'opera è da sempre conosciuta qui», affermano Ottolini e la moglie, Giuliana Bini, ex locale assessore alla Cultura. «A noi è sembrato giusto sottoporre il caso all'attenzione critica nel momento in cui fervono i lavori per il recupero di Villa Medici del Vascello, che fu dimora della Gallerani. E nel cui giardino, documenti ottocenteschi attestano la presenza di un frammento scultoreo realizzato da Cristofero Solari, l'artista che realizzò anche la tomba (mai utilizzata ndr) di Ludovico il Moro e Beatrice D'Este».
Quanto all'autore della pala, sono state avanzate un paio di ipotesi. Quando venne esposta in una mostra sui Campi nel 1985 a Cremona, la tavola venne attribuita a Galeazzo Campi. E datata intorno al primo decennio del Cinquecento, «anni in cui Cecilia già risiedeva qui in estate», ricorda la Bini. Dal 1515, invece, la Gallerani non si mosse più da San Giovanni in Croce. Dopo quella mostra, l'esperto Marco Tanzi ha invece attribuito la pala a Tommaso Aleni detto il Fadino, pittore cremonese attivo fra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo. Il quale collaborò con il Campi nel trittico della chiesa di Santa Maria Maddalena a Cremona. La sua esistenza fu attestata per la prima volta nella Cremona Fedelissima di Antonio Campi del 1585.
Il mistero di madona Cicilia «che a'suoi begli ochi el sol par umbra oscura» (come scrisse in un sonetto il Bellincioni) continua.

da: Corriere della Sera, 23 agosto 2011, p. 39

giovedì 18 agosto 2011

Pop, Body Art, Warhol: niente scandali, vengono da Giotto

di Arturo Carlo Quintavalle

Ma davvero sta tornando la querelle degli Antichi contro i Moderni? E l'Arte Alta non ha mai avuto rapporto con l'Arte Bassa, con l'arte della comunicazione più diffusa?
Nel dibattito iniziato da Vincenzo Trione a proposito del volume di Jean Clair che uscirà in Italia in autunno, e negli interventi che lo hanno seguito, potrebbe essere utile introdurre una prospettiva storica, una riflessione sul passato per comprendere l'oggi. E, prima di tutto, l'idea che l'arte di oggi si contrapponga a quella del passato ha, in Occidente, come ben sappiamo, una sua storia: tutto nasce da Giorgio Vasari e dallo schema delle sue Vite, e così ecco il vecchio contro il nuovo, Masolino contro Masaccio, Ghiberti contro Brunelleschi per la costruzione della cupola del Duomo di Firenze e poi contro Donatello per la scultura. Ancora una osservazione; la storia distingue, nell'arte d'Occidente, le diverse culture: ricordiamolo, Giotto era contemporaneo di Cimabue, di Duccio, e poi di Simone Martini; e ancora, quando in Italia, a metà XII secolo, ancora dominava la scultura che chiamiamo romanica, in Francia, da Saint-Denis e Notre Dame a Parigi, si reinventava un linguaggio, che chiamiamo gotico, portatore di una ideologia diversa, quella della funzione e dell'immagine del regno di Francia; così, proprio dall'Ile de France, quel linguaggio si diffonderà in Occidente. Torniamo al Rinascimento: allora, quando Masaccio dominava la scena fiorentina, Gentile da Fabriano e poi Pisanello guidavano l'arte da Venezia a Roma; ma allora che cosa veniva considerato nuovo? Dunque il fatto che Hirst oppure Koons siano contemporanei di Freud o di Cy Twombly non ci permette di stabilire gerarchie, se non poste a priori, cioè partendo da una posizione ideologica, quella che, prima, sceglie il linguaggio ritenuto «migliore».
Altro problema è quello della lingua, dell'uso della lingua. Ma è proprio vero che l'arte legata ai media, l'arte legata alla comunicazione, l'arte che muove, come la Pop americana, ma anche come i graffitisti o i mille seguaci in Occidente di Warhol e del suo scomporre le immagini moltiplicate, quell'arte sia un fatto nuovo, del presente, e non abbia una prospettiva, una storia? Chiunque rifletta sulla tradizione della pittura, dell'architettura, della scultura del passato sa bene che l'intreccio delle lingue è determinante in ogni momento. L'uso di lingue di diversi livelli, alti o bassi, è la struttura di ogni invenzione, in letteratura come nelle arti figurative. Conferme? La storia della incisione è quella di una immagine moltiplicata e usata sempre dal popolare all'aulico, medium di un complesso sistema del comunicare. Ancora: il ritorno costante di tecniche e modelli arcaici precedenti che caratterizza l'architettura dal medioevo al rinascimento al barocco potrà intendersi soltanto come lingua aulica? Penso soltanto a Borromini e al suo evocare il medioevo e al suo uso di materiali e modelli diversi, alternativi a quelli aulici del Bernini. C'è una storia del passato che deve essere riletta per comprendere l'oggi, magari utilizzando la vicenda della stampa, della grafica, del manifesto per capirne il peso e la incidenza sulla riflessione degli artisti in Occidente. La stampa da Schöngauer a Dürer, da Marcantonio Raimondi a Rembrandt e a Goya, e con lei la divulgazione religiosa e la polemica politica attraverso le immagini, sono lingua, a un primo livello, aulica e prodotta da grandi artisti o da loro esecutori, ma poi riprese e moltiplicate e trasformate anche da una rete larga di autonomi creatori.
Allora che cosa distingue Anselm Kiefer da Julien Freud, la Body Art dalla Pop, Guttuso da Fautrier e da Hirst, e Cattelan e Koons da tutti gli altri? Naturalmente le ideologie. Ai vecchi tempi, negli anni 50, figura stava contro astrazione, positivo e democratico contro idealista e reazionario; adesso le cose sono cambiate, ma solo in apparenza. Chi ha puntato sulla Body o sulla Pop ha scelto lingue antagoniste a quelle auliche, lingue che originano dal mondo dei media; altri hanno scelto l'assoluto isolamento dell'opera, hanno evocato il «sublime» dell'arte; altri ancora tornano alla tradizione dell'informale dopo qualche decennio di eclissi. Dunque, niente scontro fra antichi e moderni, ma semmai, e sarà ora di farlo, confronto, conflitto anche, fra le diverse concezioni, ideologie, della funzione dell'artista nel mondo. E questo lo riconoscono, indirettamente, molti di quelli che, con Dorfles, hanno partecipato al dibattito.

da: Corriere della Sera, 13 agosto 2011, p. 47

«Ma l' elogio della reazione ha fatto centro»

Sgarbi: fra 10 anni si vedrà che Clair e Fumaroli hanno ragione. Replica Bonito Oliva: la vostra è solo sfiducia nel futuro

di Paolo Conti

Un Vittorio Sgarbi inedito, insolitamente pacatissimo, quasi saggio: «Credo che tra dieci anni Jean Clair, Marc Fumaroli, lo scomparso Giovanni Testori, io stesso avremo vinto. In fondo proprio Maurizio Cattelan ha annunciato da poco che il suo ciclo si è concluso. E ho esposto questo suo addio nel mio Padiglione Italia alla Biennale di Venezia». Il grande critico Jean Clair ha fatto centro col suo elogio della reazione contro arti-star come, appunto, Cattelan, Hirst, Koons, Mukarami, accusati di studiare solo le strategie del marketing e, così facendo, di uccidere l'arte contemporanea. Il dibattito è aperto ed è inevitabile che Sgarbi, da sempre fautore della «pittura-pittura» e seguace (contestato) del figurativo, interpreti il manifesto di Clair come un sintomo di imminente vittoria: «Clair rispecchia un recente intervento di Fumaroli e a loro aggiungerei anche il nome di Roberto Calasso».
Sgarbi non si sottrae all'invito di fare i nomi di «veri» artisti: «Marc Fumaroli, quando gli chiesi di indicare un artista per il Padiglione Italia, fece il nome di Lorenzo Cremonini, unico autore scomparso esposto a Venezia. Fu lui a teorizzare la divisione tra arte "applicata" alla sopravvivenza pubblicitaria e provocatoria, da Warhol in giù, e arte "implicata" negli aspetti più profondi, quindi Lucian Freud, Francis Bacon, e io aggiungerei Paolo Vallorz, finalmente esposto al Mart di Rovereto grazie all'intelligente passione di Gabriella Belli. E poi Cremonini era l'oggetto, con Domenico Gnoli e Balthus, della mia prima mostra, "Arte segreta", trent'anni fa».
Ma naturalmente Sgarbi è Sgarbi («mancherà poco e capiremo che l'arte contemporanea può benissimo sopravvivere senza Hirst o Koons»). Ma non tutti sono Sgarbi. Non lo è certo Francesco Bonami, curatore della Biennale di Venezia 2003, da sempre su una sponda opposta: «Chi vuole continuare a occuparsi d'arte, a parlarne, deve accettare anche quegli aspetti della contemporaneità che non gradisce esteticamente. Perché l'arte deve restare uno strumento che ci parla del nostro mondo, quello che ci scorre davanti agli occhi». Quindi, Bonami? «Clair, per esempio, cita il video-artista Bill Viola tra i suoi preferiti. C'è questo rimpianto diffuso del Rinascimento, lo avvertiamo tutti, è un'arte che a noi appare più semplice ma per i contemporanei era probabilmente complicata quanto lo è per noi quella attuale. Ecco, per quanto mi riguarda Viola è il peggio del peggio perché vorrebbe essere il Pontormo e purtroppo per lui non lo è». Non si pensi però che Bonami sia pronto a difendere a spada tratta tutta l'arte contemporanea: «Cattelan o Hirst hanno prodotto belle opere, che magari resteranno, e brutte opere. Ma anche ai grandi artisti del passato è capitato di sbagliare, di ripetersi, di non convincere». In quanto a Clair? «È un grande critico che ha diretto il Musée Picasso di Parigi. Ma proprio Picasso era un artista abituato a mettersi in discussione, in crisi, a guardare avanti. Ma Clair arriva alla metà del Novecento e di fronte alla contemporaneità si blocca...».
Infine Achille Bonito Oliva, teorico della Transavanguardia, curatore della Biennale di Venezia 1993: «Jean Clair non chiede più all'arte di essere una domanda sul mondo, ma piuttosto una conferma del già dato e del già vissuto. La sua è una sfiducia nel futuro, vede l'arte come una minaccia». Invece per ABO, l'acronimo con cui spesso si firma, l'arte del nostro tempo, con tutte le sue contraddizioni estetiche, «ha una funzione energetica, è un massaggio al muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva perché la nostra è una società di massa addomesticata dai media».

da: Corriere della Sera, 9 agosto 2011, p. 34

«Così Cattelan dà nuova linfa ai grandi temi»

di Alessandra Muglia

«Jean Clair crede di raccontare gli artisti contemporanei. In realtà ci sta parlando di se stesso, del suo disagio, del suo malessere a vivere in un tempo che non ama: della sua epoca non ama l'arte, ma nemmeno la società». Catherine Grenier, storica dell'arte e vice direttore del Museo nazionale d'arte moderna del Centre Pompidou a Parigi, è la donna che ha «tenuto per mano» Cattelan mentre compiva il suo «salto nel vuoto», come recita il titolo dell'unico libro scritto dall'artista, quello in cui si racconta al pubblico per la prima volta: vita e carriera, paure e ossessioni, dall'infanzia all'incontro con l'arte. Un salto nel vuoto. La mia vita fuori dalle cornici (uscirà in Italia a novembre per Rizzoli) nasce da una serie di conversazioni tenute da Cattelan proprio con la Grenier. Che lo conosce bene.
Sostiene Jean Clair che l'autore dei fantocci-bambini impiccati rappresenta - in compagnia di Hirst, Koons e Murakami - «l'inverno della cultura», una deriva in cui prevalgono logiche di marketing. «Cattelan è un artista che parla del presente e della nostra storia, traspone elementi della vita quotidiana nel vocabolario dell'arte classica, come faceva Manet - ribatte lei -. Questo è il contrario della decadenza, è il rinnovamento».
La Grenier insiste sulla continuità tra ieri e oggi nella produzione artistica. «Nelle opere di Cattelan assistiamo alla rivisitazione dei grandi temi della storia dell'arte. Le sue nove sculture in marmo di Carrara, distese a terra come cadaveri coperti da un lenzuolo (All), rievocano corpi che s'inscrivono nel solco tracciato dal Cristo morto di Mantegna e dal Cristo velato di San Severo a Napoli. Così il dito medio in Piazza Affari a Milano (Love) rinvia alla Statua colossale di Costantino: mano destra. Il Papa a terra della Nona ora al Papa di Francis Bacon. Non intendo dire che Cattelan si sia ispirato a queste opere, ma lui tratta, come i suoi predecessori, alcuni grandi temi dell'arte: la morte e il destino, il potere, l'umanità, il male».
Jean Clair rimprovera a Cattelan e ai «post dadaisti» di essere privi di mestiere e di ricercare la provocazione fine a se stessa. «Il riso è una delle reazioni che si hanno prima di assimilare qualcosa di molto nuovo. E l'arte questo deve fare: turbare, porre domande, far riflettere. Non è certo la tecnica a costituire il valore di un'opera, e questo Clair lo sa bene. I grandi artisti è bene che siano premiati dal mercato, che certo può sbagliarsi, ma questa è un'altra faccenda».

da: Corriere della Sera, 9 agosto 2011, p. 34

L'arte oggi è ancora viva: la performance non l'ha uccisa

«La censura degli eccessi non giustifica una condanna totale»

di Gillo Dorfles

L'uscita dell'ultimo pamphlet di Jean Clair sull'«inverno della cultura» - ne ha riferito ieri sul «Corriere» un articolo di Vincenzo Trione - mi ha allo stesso tempo sorpreso e preoccupato.
Io, infatti, a differenza dello storico dell'arte francese, non credo affatto che l'arte oggi sia da considerarsi defunta, o stia per essere uccisa. Del resto, mi basterebbe elencare pochissimi nomi per provarlo: dallo scultore basco Eduardo Chillida al tedesco Anselm Kiefer, dall'italiano Domenico Paladino all'architetto indiano Anish Kapoor. Di conseguenza, trovo la posizione di Jean Clair, che ho conosciuto all'epoca della Biennale da lui diretta, veramente molto pericolosa. Spiego il senso di questa affermazione: Jean Clair è una persona di grande cultura, oltre che un letterato raffinato, e le sue parole non sono mai superficiali. Come tali, avranno per forza una larga risonanza.
A peggiorare le cose, ritengo che anche il suo riferimento a Oswald Spengler, al suo celebre saggio «Der Untergang des Abendlandes», Il tramonto dell'Occidente, sia altrettanto pericoloso. Tanto più che, al tempo di Spengler, si assisteva a una vera e propria mutazione culturale, mentre oggi ci troviamo di fronte a una contiguità tematica con l'immediato passato; per cui molti degli artisti attuali - quelli che ho nominato prima - non sono certo inferiori ai Klee, ai Georges Braque o ai Kandinsky dell'inizio del secolo scorso.
Un altro dei pericoli presenti nella perorazione antimoderna di Jean Clair è il disprezzo per certe forme artistiche, come la body art o la pop art, le quali costituiscono invece due filoni indiscutibilmente positivi della contemporaneità. E altrettanto si potrebbe dire circa il privilegio da lui conferito all'«alta cultura», mentre sappiamo che proprio correnti come l'arte povera, o la pop art, possiedono degli addentellati indiscutibili con certe forme di «arte popolare».
Un capitolo a parte voglio dedicare ai due filoni estetici particolarmente presi di mira dal pamphlet di Jean Clair.
Il primo, in sintesi, si riferisce a quegli artisti che privilegerebbero «un'estetica del disgusto», esaltando «l'ego onnipotente» e degenerando, di eccesso in eccesso, verso la pura performance . Su questo punto anch'io posso essere in parte d'accordo nella critica: vorrei ricordare il precedente storico dell'aktionismus viennese, che molto spesso ha esasperato i suoi temi, amplificando certe forme patologiche rivolte alla persona umana (su tutte il caso della famosa Orlan, che negli anni novanta si è fatta sconciare il volto con interventi chirurgici, attraverso varie operazioni successive). Quindi, d'accordo: riconosco che alle volte l'arte di oggi eccede in forme esasperate...
Il secondo filone estetico preso di mira da Jean Clair è quello che, per semplificare, potrei definire «del mercato», se non addirittura del marketing. Ora, ammetto che indubbiamente la nostra epoca ha conosciuto uno sviluppo impetuoso del mercato artistico, come non era avvenuto in nessuna epoca precedente. Ma tutto ciò ha portato da un lato alla possibilità del riconoscimento di artisti fino ad allora poco noti; dall'altro, evidentemente, alle volte ha provocato un abuso del potere mercantile, facendone beneficiare anche artisti che non erano al livello corrispondente. Un esempio: Lucian Freud, il quale pur essendo un pittore notevole, secondo me non è all'altezza della sua fama. Invece mi sembra eccessivo il terrore di Clair per artisti come Maurizio Cattelan o Damien Hirst, che pur essendo in un certo senso paradossali, non sono degni del suo disprezzo.
Tutto ciò che precede mi induce a formulare un giudizio su Jean Clair che lui stesso si attira: è un reazionario. E non mi si venga a dire che così faccio entrare la politica nella critica d'arte. In questo caso esiste, e come, un parallelo malefico tra posizione politica e posizione critica.

da: Corriere della Sera, 9 agosto 2011, p. 34

Quelli che hanno ucciso l' arte

Il manifesto di Jean Clair contro la «degenerazione contemporanea». Sotto accusa Cattelan, Hirst, Koons. «Non ci resta che essere reazionari»

di Vincenzo Trione

Non ne potete più di Biennali invase da installazioni simili a discariche, di gallerie occupate da esercizi concettuali incomprensibili? Non ne potete più di animali in formaldeide, di sculture fumettistiche, di pontefici abbattuti da meteoriti? Provate un profondo fastidio di fronte alle mostre blockbuster e al degrado di molti musei, trasformati in supermarket? Non vi resta che leggere gli scritti di Jean Clair, il cui ultimo pamphlet, L'hiver de la culture, è uscito in Francia da Flammarion (in Italia lo pubblicherà Skira a novembre). Diario di sconfitte, taccuino di indignazioni, è il quarto momento di un percorso avviato nel 1989 con Critica della modernità, e proseguito nel 2004 con De Immundo e nel 2007 con La crisi dei musei. Sono i tasselli di un polittico coerente, che rivela una forte tensione etica. Paragrafi di un discorso teorico d'impronta conservatrice. «L'atteggiamento reazionario è più utile di ogni illusione di progresso», ci dice Clair.
Già direttore del Musée Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia, direttore della Biennale di Venezia del centenario (nel 1995), dal 2008 membro dell'Académie française, Clair è un raffinato intellettuale che non ha niente in comune con la maggior parte dei critici militanti di oggi, attenti soprattutto ad assecondare le mode e il gusto. Immune da questo vizio, riesce a essere saggista e polemista: si abbandona a un'affabulazione ricca di seduzioni. Nelle sue analisi, tende a iscrivere le diffidenze sempre più diffuse nei confronti delle degenerazioni dell'arte contemporanea dentro una cornice sofisticata, densa di riferimenti storico-letterari. Da moderno-antimoderno, sceglie di interpretare le esperienze del nostro tempo senza mai aderirvi: si mette di lato, cercando di salvaguardare l'aristocrazia dello sguardo. Per comprendere il senso della sua «azione», potremmo richiamarci al Pasolini degli Scritti corsari - insofferente di fronte a ogni omologazione - e a Il tramonto dell'Occidente, monumentale affresco della nostra civiltà.
Riprendendo motivi della filosofia di Spengler, in sintonia con il Fumaroli di Paris-New York et retour, Clair parla di «hiver de la culture». Nel «nostro» inverno, la cultura non è più spazio di una religiosità laica, né strumento per «rendere il mondo abitabile», conducendo verso «una trascendenza al di là delle parole». A prevalere è una logica mercantile. Clair spiega: «Siamo stati riportati a terra, tra paesi desertificati». Dunque, addio cultura. «Resta solo il culturale: che è simulacro, imbroglio, scarto, parola di riflessi condizionati, dispersione, vaporizzazione».
Stiamo assistendo al crollo di un edificio millenario. Si pensi alla situazione in cui versano i musei. Grandi magazzini: «Depositi di civilizzazioni defunte» - ripete - dove si allineano i dipinti secondo criteri cronologici. Lì si stipano individui solitari, che trovano nel «culto dell'arte la loro ultima avventura collettiva». Vanno al Louvre o agli Uffizi come una volta ci si recava nei templi. Si spostano in gruppo: «Più la gente è sola, più va al museo». Chiassosi pellegrini postmoderni, vanno all'assalto di mostre-evento, che esercitano uno straordinario potere attrattivo. Di fronte alle miserie del presente, scelgono di rifugiarsi nel passato, in un «miscuglio di timida e paurosa reverenza». Preferiscono un quadro a un libro, perché l'immagine possiede un'imperiosa immediatezza, che si concede «senza fatica, in una profusione di significati possibili». Andare in un museo, per loro, è solo un modo per distrarsi. Da più parti, si insegue la risposta del pubblico di massa, dimenticando che, come ripeteva Georges-Henri Rivière, «il successo di un museo non si misura dal numero dei visitatori che riceve, ma dal numero dei visitatori cui insegna qualcosa».
La medesima deriva si può ritrovare in molte sperimentazioni delle post-avanguardie, esaminate da Clair anche in un piccolo libro-intervista, Breve storia dell'arte moderna (Skira). Gli scenari attuali sono caratterizzati da due indirizzi. Da un lato, un soggettivismo narcisistico, basato sull'esibizione degli scarti del corpo. Artisti come Serrano, Orlan e Sherman fanno l'elogio della spontaneità e della violenza. Pensano l'opera come «mostruosità, rifiuto, cosa abietta, informe e senza vita». Testimoni di un'estetica del disgusto, esaltano l'ego onnipotente. Trascrivono pulsioni irrefrenabili. Sfidano ogni morale, con un «gesto portato all'estremo limite, e finalmente alla performance». Dall'altro lato, ecco gli eredi di Duchamp: Cattelan, Hirst, Koons, Murakami, i fratelli Chapman. Sostenitori di uno stile non supportato da conoscenze tecniche, i post-dadaisti non frequentano più botteghe. Privi di mestiere, studiano solo le strategie del marketing. Si comportano come nuotatori che, per non affogare, compiono esclusivamente atti disperati. «Poveri noi, a volte, con i loro gingilli senza talento, vengono ospitati in musei prestigiosi o in siti storici come Versailles. Siamo proprio ridotti male...».
Dal dopoguerra, dice Clair, è iniziato un drammatico declino, segnato da scandali, da rivoluzioni permanenti, dalla tirannia di un «nuovo» senza origine. Siamo nella geografia del negativo. In un teatro di pantomime burlesche: un teatro «festivo e funebre, venale e mortificante», contagiato da blasfemie. L'artista del nostro tempo non è più un profeta. «Somiglia all'assassino di cui aveva scritto Thomas de Quincey: pratica la dissacrazione, la profanazione, il furore omicida». Come uscire da questo abisso? Clair non ha dubbi. In un'epoca che tende a trasformare tutto in intrattenimento, bisogna riaffermare la grandeur; sottolineare l'importanza di quello che Robert Hughes ha definito l'«inestimabile», evitando ogni confusione tra prezzo e valore dell'opera. Ritornare alla figurazione; riscoprire sobrietà, equilibrio, sapienza. «L'arte deve darsi di nuovo, come tessuto di continuità, immobilità e silenzio; costruzione che si vede, si dà nel tempo e nel tempo si ritrova». Universo di bellezza e di purezza. Emozione, colpo al cuore. Esperienza mistica, fondata su segrete ragioni spirituali. Artificio per dare voce - è quanto hanno fatto personalità solitarie come Lucian Freud e Zoran Music - a «temi sociali o addirittura politici», a interrogazioni assolute e drammatiche. «Senza questo dramma l'opera non vale niente, non dice niente, è irresponsabile», osserva Clair.
In L'hiver de la culture Clair oscilla tra pessimismo e nostalgia. Per un verso, descrive gli esiti di una catastrofe: i contorni di un'apocalisse. Per un altro verso, auspica il recupero di regole classiche. Il suo è un racconto critico radicale, spietato, volto a smascherare falsi miti e fragili leggende. Un racconto che, tuttavia, tende a proporre gerarchie forse desuete tra arti maggiori e arti minori. Per Clair, infatti, esistono frontiere che non bisogna mai valicare tra la cultura alta - fatta di sculture e quadri - e la cultura pop, fatta di cartoon, graffiti, video. «La discesa dall'high culture alla low culture è una discesa agli inferi», ci dice. Un esempio: i fumetti di Art Spiegelman sul nazismo non hanno lo stesso valore dei disegni su Dachau e Buchenwald di Music, Taslitzky e Colville, i quali hanno saputo dare di quegli orrori un «equivalente plastico di incontestabile bellezza».
È davvero così? Difendere la specificità «storica» di pittura e scultura suona come un ritorno all'ordine troppo anacronistico. Impedisce di misurarsi con il paesaggio in divenire delle poetiche attuali. Lo sforzo sta non nel rifiutare «tutto» il presente, ma nel riconoscere ciò che, in esso, ha autentica forza. Inutile invocare la ripresa di categorie tradizionali. Meglio confrontarsi con artisti - come Kentridge, Viola, Kiefer o Paladino - impegnati nella riflessione sulle proprietà tecniche del linguaggio di cui, di volta in volta, si servono. Clair coglie solo le opacità del nostro tempo. Sembra dimenticare che, anche nel cuore della notte, esistono improvvisi sprazzi di luce. Proprio nel buio, è necessario aprire gli occhi, in cerca di quelle lucciole di cui aveva parlato Pasolini sul «Corriere della Sera». Commentando quell'intervento, Georges Didi-Huberman ha ricordato, in un recente pamphlet (Contro le lucciole, Bollati Boringhieri), quanto è bello «rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono - e si amano - le lucciole». Forse, anche nell'«inverno della cultura», ci sono significative sacche di resistenza. Non crede che sia così? «No - risponde Jean Clair - di fronte a me vedo solo un inaccettabile imbarbarimento estetico. Mi creda, non ci resta che essere reazionari».

da: Corriere della Sera, 8 agosto 2011, p. 30

giovedì 14 luglio 2011

Il futuro della scienza è nelle immagini

Dalle grotte di Lascaux alla Gioconda, al web: un cosmologo di Cambridge sottolinea la centralità dell'elemento figurativo

di John D. Barrow (trad. Maria Sepa)

Amiamo le immagini. Sono le prime cose che vediamo. La nostra mente non è stata fatta per i numeri, le lettere, i libri contabili, gli spartiti musicali o le equazioni matematiche - tutto questo è solo un'appendice aggiunta alla storia umana. I nostri sensi si sono evoluti in un ambiente che abbiamo imparato a capire e ricordare in forma di immagine.
Da questi umili primi passi abbiamo ereditato una predilezione per le raffigurazioni. Le troviamo divertenti, educative, memorabili ed evocative. I primi reperti di antropologia culturale ci mostrano figure incredibilmente sofisticate, come quelle delle grotte di Lascaux, che sarebbero considerate opere d'arte anche secondo gli standard attuali. Le immagini hanno avuto un ruolo nel fornire alle società primitive legami utili per la loro sopravvivenza, hanno connotato interi periodi della storia umana con il loro stile e i loro soggetti e hanno mantenuto in vita tradizioni e memorie comuni per lunghi periodi di tempo. Sono state un riferimento per la contemplazione religiosa e ci hanno innocentemente usato come soggetti. In tutte queste occasioni le immagini cercano di rappresentare e racchiudere qualche aspetto della realtà in una forma che abbia un impatto immediato: qualcosa che sia memorabile senza bisogno cha la si ricordi.
Ogni ramo dell'attività umana ha le sue icone. Tutti ne conosciamo molte nei campi dell'arte e del design. Dalla Gioconda all'Alhambra, alla mappa della metropolitana di Londra, alcune immagini si impongono nel tempo ed esercitano una grande influenza. Danno forma alla nostra percezione e concezione del mondo. Lo stesso accade nella scienza. Alcune immagini hanno accompagnato i nostri progressi nella comprensione dell'universo, altre si sono dimostrate così efficaci nel comunicare la natura della realtà da entrare a far parte del processo stesso del pensiero, come i numeri o le lettere dell'alfabeto. Altre ancora, altrettanto autorevoli, ci sono diventate così familiari da passare inosservate nella pratica scientifica, sono entrate a far parte del vocabolario della scienza che usiamo senza pensarci.
Le immagini e le figure hanno avuto un ruolo fondamentale nel plasmare la nostra visione scientifica del mondo. Alcune sono così poco evidenti da determinare il nostro modo di fare scienza o di descrivere la realtà senza che ce ne accorgiamo. Altre sono icone onnipresenti e dominano la presentazione di interi rami della scienza o della sua storia. Altre ancora sono di natura estetica, ma con un substrato scientifico che le rende importanti per la nostra storia.
L'uso di diagrammi e figure nella scienza e nella sua esposizione è un'attività che non ha più un imperativo artistico. A volte gli scienziati che creano una nuova forma di rappresentazione visiva tracciano loro stessi quelle immagini, ma più spesso la versione finale viene eseguita da altri. Un disegnatore tecnico (o anche un programma di computer) produrrà dai loro schizzi una versione più gradevole. Quale vero artista seguirebbe questa via? Gli scienziati cercano di presentare le informazioni in modo immediatamente riconoscibile, ma a volte accade che i loro sforzi acquistino una durata e un'autorità maggiori di quanto avessero mai immaginato.
Nel fare queste considerazioni, notiamo un potente stimolo tecnologico che fornisce agli scienziati nuovi modi di utilizzare le immagini. Negli ultimi vent'anni abbiamo assistito a una delle più grandi rivoluzioni della storia umana. La creazione e la rapida diffusione di Internet e del World Wide Web hanno radicalmente mutato il nostro modo di pensare e di raccogliere informazioni, superando la capacità biologica dei singoli individui e consentendo il reperimento e lo scambio istantaneo di immagini. L'intero sviluppo della scienza moderna, peraltro, è accompagnato da un aspetto fortemente visuale. L'avvento di computer piccoli e poco costosi, dotati di una grafica superba, ha cambiato il modo in cui molte scienze operano, e in cui tutte le scienze presentano i risultati di esperimenti e calcoli.
Molto tempo fa, i computer erano enormi e tremendamente costosi, ed erano appannaggio di grandi gruppi di ricerca ben finanziati, che studiavano questioni di grande portata. Costruivano bombe, predicevano il tempo, o cercavano di comprendere il funzionamento delle stelle. La rivoluzione del personal computer ha cambiato tutto. Ha permesso che si diffondessero studi su argomenti come il caos e la complessità. La matematica è diventata una disciplina sperimentale. Singoli individui possono seguire problemi prima inaffrontabili, semplicemente guardando quello che succede quando vengono elaborati dal programma di un personal computer. Il risultato, il più delle volte, è una sequenza di immagini o filmati dello sviluppo e del compiersi di un processo complesso. Non esiste una formula semplice che ci dica come le galassie assumano le forme e le dimensioni che vediamo, o che tipo di drammatica turbolenza risulti dalla serie di rapide attraversate da un fiume che scorre velocemente. Questi problemi sono troppo complessi per essere risolti con precisione usando solo carta e matita. Ma le immagini e i filmati riescono a mostrare i punti cruciali di questi fenomeni, trasformando le equazioni matematiche che controllano il loro comportamento in immagini. Il rapido sviluppo di una grafica spettacolare ha permesso a chiunque di presentare le sue conclusioni in un modo più visivamente sofisticato di quanto il cinema sapesse fare appena vent'anni fa. La rivoluzione del Pc ha reso la scienza più visiva e immediata. Ha migliorato la capacità intuitiva della mente umana di cogliere attraverso l'esperienza l'andamento di modelli complessi, creando film di esperienze immaginarie di mondi matematici.
Gli ultimi dieci anni hanno anche visto una crescente accentuazione della visualità in molte aree della cultura. I film sono sempre più contrassegnati dalla presenza di effetti speciali visivi. La gara a inserire sempre più immagini di catastrofi rende quasi superflua la trama. Il teatro sperimentale porta sul palcoscenico nuove sfide tecniche che amplificano l'esperienza visiva. La musica popolare è accompagnata dall'onnipresente video o Dvd, il suono non è più sufficiente. I film d'animazione hanno raggiunto nuovi livelli di sofisticazione, e persino i libri hanno i loro siti web. Le parole non bastano più.
In questo clima, la sfida è quella di pensare al ruolo delle immagini nella scienza, non solo oggi, ma nell'arco di molte centinaia di anni. Ci sono immagini, grafici, figure e mappe che hanno un ruolo chiave nell'ampliare la nostra comprensione del mondo. Nel mio libro Le immagini della scienza ho raccolto una selezione personale di queste icone speciali. Molte di queste immagini figurerebbero nella galleria scientifica della maggior parte di noi, mentre altre sono state scelte con criteri più soggettivi, dato che la loro importanza non è immediatamente evidente o il loro significato non è stato riconosciuto prima. Le immagini scientifiche spesso non riguardano solo la scienza. Possono essere interessanti perché sono di origine scientifica, ma hanno comunque un'innegabile natura estetica. Oppure possono essere state in primo luogo opere d'arte e possedere anche un messaggio scientifico. Ciascuna immagine ha una storia. A volte ci parla dell'autore, a volte dell'intuizione scientifica che ne scaturisce o della tecnica di rappresentazione, a volte succede che l'immagine in sé assuma un'importanza imprevista che stimola una linea di pensiero del tutto nuova, altre volte, infine, è semplicemente una rivelazione dell'inatteso.

da: TESTATA, DATA, p. PAG

sabato 25 giugno 2011

La storia dell'arte aiuta a vivere

di Salvatore Settis

A che cosa serve la storia dell'arte? È un gioco erudito, un piacere salottiero, un'evasione dalle miserie del tempo presente? È una disciplina in ritirata, destinata a rifugiarsi nel chiuso di musei e conventicole accademiche, o magari a "scendere verso il popolo" inventandosi ossa di Caravaggio e altre amenità pur di assumere per poche ore l'ambito status di uno scoop giornalistico? Deve provare a nobilitarsi travestendosi da teoria generale di qualcosa e distaccandosi da quelli che ne furono gli oggetti concreti (quadri, statue, disegni...), o invece immergersi nello specifico, sceverare le sempre diverse ragioni di ogni artista, di ogni committente, di ogni tela, e provare a intenderle e a raccontarle? Se lo chiese Sandra Pinto, quando promosse Gli storici dell'arte e la peste (Electa, 2006), collettiva presa di coscienza, o psicodramma, in cui una quarantina di storici dell'arte di ogni età si chiedevano come mai la disciplina, pur affinando metodi e moltiplicando scoperte, abbia perso peso, autorevolezza, visibilità e potere nello scenario della pubblica opinione. Se lo è chiesto più di recente Tomaso Montanari, in un saggio acuminato, A cosa serve Michelangelo (Einaudi, 2011) in cui mette spietatamente a nudo i meccanismi per cui la storia dell'arte può essere asservita al potere politico, può diventare «una escort di lusso della vita pubblica». Ma fra la marginalizzazione (la "peste" che fa degli storici dell'arte degli intoccabili) e il compromesso con il potere politico non c'è proprio nessun'altra strada?
Una risposta intelligente, colta e lungimirante viene da un ministro della Cultura. Naturalmente, in Francia. Nel discorso pronunciato in occasione dell'inaugurazione del Festival de l'Histoire de l'Art Fontainebleau il 28 maggio 2011, di cui qui accanto si pubblicano ampi estratti, Frédéric Mitterrand, divenuto ministro dopo la direzione di Villa Medici a Roma, propone una chiave di lettura della storia dell'arte e una ricetta per (ri)donarle la centralità che merita nella vita civile. Sua stella polare sono le riflessioni di André Chastel, di cui molti – anche in Italia – ricordano le appassionate battaglie, anche su «Le Monde», per introdurre nelle scuole francesi, su modello dell'Italia, l'insegnamento di storia dell'arte: cosa ora finalmente avvenuta, e «a tutti i livelli scolastici», una vera e propria «rivoluzione educativa» giunta ormai «a un punto di non ritorno». Se questo è stato possibile, è perché la Francia, dice Mitterrand, ha ben chiaro il ruolo della storia dell'arte, che non è solo disciplinare e accademico, ma sociale e civile. Essa deve rispondere a una domanda di cultura, quella che viene dal pubblico delle mostre e dei musei, «sempre più in cerca di spiegazioni e di senso». Deve rispondere alle sfide del nostro tempo, «che ha assunto l'immagine – compresa l'immagine del sé – a feticcio», e con il proprio strumentario intellettuale deve «dare un senso al divenire collettivo (...), rendere più intelligibile il nostro tempo», educando lo sguardo dei cittadini, dalla scuola all'età adulta. «Oggi più di ieri, la strada per un'educazione alla cultura richiede di far comprendere la costruzione di un'immagine, cogliere i suoi risvolti sociali, capire che l'immagine non è la realtà ma la costruzione di un discorso». Perciò «l'arte è anche un apprendimento alla conquista di se stessi e del tempo». La storia dell'arte, insomma, regala conoscenza, regala libertà (anche nel leggere le immagini del potere), regala uguaglianza: purché le sue conoscenze siano condivise.
Questo monito dovrebbe essere un modello per l'Europa. Senza dimenticarne un importantissimo risvolto: il rapporto fra le due funzioni complementari dello storico dell'arte, il «desiderio di capire» e la «passione di trasmettere». Anche in questo, le misurate parole del ministro Mitterrand fanno omaggio all'Italia, che nella sua storia «ha saputo distinguersi nella repubblica dei saperi grazie alla forza delle convinzioni dei suoi storici dell'arte, di coloro che hanno saputo riflettere sul suo patrimonio». Il richiamo alla cultura della tutela e all'idea di patrimoine, formatasi tra Francia e Italia a cavallo fra Rivoluzione e Restaurazione, deve far riflettere: dovere civile degli storici dell'arte è impegnarsi nella società, nei temi della conservazione del patrimonio e non solo nella ricerca storico-artistica. Insomma, per non sentirsi "appestati" (autoemarginandosi), gli storici dell'arte devono convincersi che la disciplina, secondo le parole di Chastel, può anzi deve avere un ruolo centrale nella polis. Purché non manchi al dovere di «favorire una conoscenza, una presa di coscienza storica che cambi le prospettive del presente». Di giocare le proprie carte, senza compromessi e con rigore, sul tavolo che più conta, perché costruisce il futuro: quello dell'oggi.

da: Il Sole 24 Ore - Domenica, 19 giugno 2011

Discours de Frédéric Mitterrand, ministre de la Culture et de la Communication, prononcé à l'occasion de l’Inauguration du Festival de l’Histoire de l’art

le Samedi 28 Mai 2011

A mon initiative, une nouvelle manifestation culturelle voit le jour à Fontainebleau ce week-end. Permettez-moi de dire mon émotion, mon plaisir, mais aussi ma reconnaissance. Ce que j’avais imaginé lors de mon passage à la direction de l’Académie de France à Rome en 2009, ce que le «tour de France» des musées que j’ai entrepris depuis ma nomination rue de Valois m’a suggéré, ce qui semblait complémentaire et nécessaire à la suite de l’introduction de l’enseignement d’histoire des arts à tous les niveaux scolaires – de l’école au lycée - depuis 2008 a pris forme depuis hier. Dans le XXIe siècle du tout-images, dans ce déferlement incessant d’icônes, de messages visuels, d’avatars, n’était-il pas nécessaire d’offrir un lieu et un moment pour «apprendre à voir», pour accompagner l’indispensable éducation à l’image dans un siècle qui est d’ores et déjà celui des écrans.
En octobre 1972, il y a près de 40 ans, André Chastel organisait ici même, au château de Fontainebleau, un colloque qui traduisait son attachement à l’art de la Renaissance française et italienne. André Chastel, vous le savez, s’est distingué par ses combats multiples en faveur de cette discipline, aussi bien pour son enseignement à l’école, que pour sa reconnaissance institutionnelle. Je pense notamment à L’Inventaire général et à l’introduction de l’histoire de l’art à la Villa Médicis. Il a également marqué son époque par ses prises de position médiatiques dans un grand quotidien national et par sa volonté, défendue avec ardeur, d’établir un Institut de recherche national à vocation internationale. C’est à lui que je pense, c’est à ses combats, c’est à ses batailles que je veux rendre hommage alors que nous inaugurons cette belle manifestation.
Aujourd’hui, d’une certaine manière, cette première édition du Festival de l’histoire de l’art, à Fontainebleau, traduit l’empreinte qu’il a laissée dans cette discipline.
Cette rencontre est un moment décisif dans la mesure où elle reconnaît enfin, oserais-je dire, la place de cette discipline dans la vie culturelle et intellectuelle de notre pays. Le public se rend massivement dans les grandes expositions, il adhère avec ferveur aux propositions des nouveaux musées – à l’image du Centre Pompidou-Metz - il est donc aussi en quête d’explications et de sens, comme l’illustre le succès des applications numériques qui accompagnent les expositions, à l’image du Livre «augmenté» - avec textes critiques et images commentées - consacré à l’exposition Monet du Grand Palais.
Première manifestation de ce genre en Europe, le Festival de l’histoire de l’art sera bien entendu une caisse de résonance pour les recherches et les travaux les plus novateurs dans la discipline. Il est ouvert à toutes les écoles, à tous les questionnements, à toutes les voies qui interrogent aujourd’hui l’objet visuel en France et en Europe. Il se donne pour ambition d’intéresser un très large public. Depuis la rentrée de 2008, afin d’enraciner une culture artistique commune, conformément au souhait exprimé par le Président de la République, un nouvel enseignement d’histoire des arts a vu le jour et s’est développé par étapes à tous les niveaux scolaires. Choisie par 20% des candidats au brevet des collèges, l’épreuve d’histoire des arts inscrite au programme du brevet est obligatoire depuis cette année. Depuis octobre 2009, fruit d’une mobilisation de très nombreux acteurs, un portail «Histoire des arts» a été mis en place mettant à disposition des enseignants plus de 3 000 fiches numérisées, bénéficiant depuis un an d’une présentation par territoire.
Le chemin est encore long pour mener cette «révolution éducative» à son terme: les résistances demeurent, les obstacles subsistent, mais je considère qu’un point de non-retour a été atteint, je considère qu’un cap a été franchi. Je mesure qu’il importe de mieux former les enseignants, qu’il conviendrait à terme de penser une véritable filière de formation à l’histoire de l’art. D’ores et déjà, de nombreux établissements, de nombreux enseignants se sont emparés de ce nouvel enseignement transversal. A cet égard, ce Festival a permis de donner une visibilité plus forte à ces questions et à ces enjeux, notamment à travers l’Université de printemps qui s’est tenue depuis jeudi, à l’initiative du Ministère de l’Education nationale et de l’Institut national d’histoire de l’art (INHA). Cette initiative, vous l’aurez compris, ne veut ni exclure, ni sélectionner, ni hiérarchiser. Elle entend fédérer les métiers qui sont aujourd’hui les acteurs de l’histoire de l’art: universitaires, conservateurs du patrimoine, enseignants, éditeurs et libraires, collectionneurs, galeristes, mais aussi acteurs du tourisme culturel. Elle entend aussi faire dialoguer les arts et les artistes. Longtemps minée par des conflits, par des oppositions factices, l’histoire de l’art en tant que discipline trouve là les moyens de s’unir, de se rassembler, de se confronter aux défis d’un monde qui a érigé l’image – y compris l’image de soi - en fétiche. Aujourd’hui, elle est à même de donner un sens au devenir collectif, de redonner une perspective au chaos du monde, ou plus précisément au chaos né de la multiplication des simulacres en tous genres. A l’ère de la reproductibilité infinie de l’image, elle peut contribuer à donner de la cohérence, elle peut être un outil pour rendre plus intelligible notre temps. En d’autres termes, cette manifestation se donne pour ambition de «Réconcilier le sensé et le sensible», de valoriser ce que nos amis italiens appellent le «savoir-voir», de conquérir des œuvres qui ne parlent pas d’elles-mêmes.
Savoir concilier l’émotion et l’intelligible, le visible et le caché, la perception et la réflexion: c’est là l’enjeu de toute politique d’éducation artistique ambitieuse. Comme le disait Daniel Arasse, l’histoire de l’art consiste à montrer ce que l’on ne voit pas, d’apercevoir ce que le spectateur n’a pas vu.
L’histoire de l’art peut aussi permettre de lever les préventions et les intimidations de ceux qui n’osent pas franchir les portes des «temples» de culture. L’éducation du regard, dans un monde caractérisé par un bombardement d’images sans ordre, sans intelligibilité, sans hiérarchie, est plus qu’une exigence, c’est une nécessité. Aujourd’hui plus qu’hier, faire comprendre la construction d’une image, saisir les enjeux sociaux d’une œuvre, comprendre que l’image n’est pas la réalité mais qu’elle est la construction parfois savante d’un discours, ce sont là les voies d’une éducation à la culture.
L’art est aussi un apprentissage à la conquête de soi-même et du temps. L’art en effet est ébauche, construction, réalisation: autant d’étapes qu’un public immergé dans le règne de l’éphémère et de l’évanescent ne saurait négliger. N’oublions jamais que l’histoire de l’art porte une responsabilité à l’égard du passé, des monuments, des sites archéologiques, des tableaux qu’il importe de conserver ou d’acquérir. Conserver et transmettre, cette double mission qui lui est assignée dit bien son rôle social.
Je saisis l’occasion pour remercier la Ministre de l'Enseignement supérieur et de la Recherche, Valérie Pécresse, ainsi que le Ministre de l’Education nationale, de la Jeunesse et de la Vie associative, Luc Chatel, pour le soutien qu’ils ont apporté au projet. Je souhaite également remercier l’Institut national d’histoire de l’art (INHA) – et notamment l’équipe coordonnée par Florence Buttay - à qui été confié l’expertise et la conduite scientifique de l’opération mais aussi l’Etablissement public du château de Fontainebleau qui a su l’accueillir et mettre en valeur les lieux. A l’occasion du 10e anniversaire de l’INHA, j’y vois un signe de maturité et un tournant significatif. Cette initiative n’aurait pu voir le jour sans les collectivités territoriales qui ont apporté un soutien actif à cette première édition. Merci Monsieur le Maire de Fontainebleau, cher Frédéric Valletoux, qui avez mobilisé les équipes de votre ville, facilité l’accès au château et appuyé avec conviction la visibilité de l’événement. Merci Monsieur le Président du Conseil général, cher Vincent Eblé, d’avoir fait rayonner le Festival au-delà de son épicentre, dans toute la Seine-et-Marne et d’avoir valorisé le parcours «Le goût de l’ltalie». Il permet aux visiteurs de découvrir les trésors cachés de 13 églises de votre département, sans oublier le délicieux château de Guermantes dont la seule évocation a un goût de madeleine, si j’ose dire ! Je veux aussi mentionner l’engagement personnel du directeur de l’Institut national du Patrimoine (INP), Eric Gross, dans l’organisation du Salon du Livre et de la revue d’art, et souligner combien le Centre national du Livre (CNL), le Syndicat national de l’édition – à travers sa section «Arts» et le Syndicat de la Librairie française, ont contribué activement à la présence de 50 éditeurs et libraires pour cette édition. Enfin, je tiens à remercier les mécènes et les partenaires privés (Veolia, Veralbane, Illy) qui ont été des soutiens indispensables ainsi que les partenaires médias de la manifestation (France 3, France Culture, Métro, les magazines L’Histoire, Connaissance des arts, Air France Magazine) qui ont fait le pari de l’audace et de la nouveauté.
La richesse de l’histoire de l’art se nourrit des autres approches: elle apprécie bien entendu l’histoire de l’objet visuel, de sa matérialité, mais elle est aussi ouverte à la littérature, à la philosophie, à l’anthropologie ou encore à la psychanalyse. Cette pluralité des approches peut lui permettre de s’insérer dans le débat public. Car «l’histoire de l’art doit être une discipline active dans la Cité», elle doit «favoriser une connaissance, une prise de conscience historique qui modifie les perspectives — si souvent naïves — du présent». Je crois profondément à ce programme de travail défini par André Chastel tout au long de sa vie.
Depuis mon arrivée au Ministère de la Culture et de la Communication, j’ai porté une grande attention aux institutions qui transmettent le savoir et l’expertise dans le domaine de l’histoire de l’art, en particulier celles sur lesquelles mon Ministère exerce sa tutelle: l’Ecole du Louvre, l’Institut national du patrimoine (INP), l’Institut national d’histoire de l’art (INHA). J’ai tenu à me rendre dans chacune de ces institutions, j’ai souhaité visiter les lieux et rencontrer les acteurs pour mieux comprendre leurs attentes. Je ne veux pas oublier les établissements du Ministère de l’Enseignement supérieur et de la Recherche, les Universités, les Centres de recherche, de plus en plus ouverts aux partenariats internationaux, de plus en plus mobilisés par les initiatives d’excellence.
J’ai également consolidé et suivi avec attention le projet d’une grande Bibliothèque de l’histoire de l’art – la plus importante de France - un lieu qui serait en quelque sorte la «bibliothèque de Babel» d’un Borgès devenu historien de l’art, un lieu qui sera une référence en Europe. Ce formidable outil pour les études et la recherche est porté par l’Institut national d’histoire de l’art (INHA), en partenariat avec l’Ecole du Louvre et l’Ecole nationale supérieure des Beaux arts. Il s’installera en 2014 au cœur du quadrilatère Richelieu, dans l’emblématique salle Labrouste, bien connue des habitués de la Bibliothèque nationale de France.
J’ai par ailleurs contribué à la renaissance de la bourse Focillon, créée, comme vous le savez, au début des années 1950 par le ministère des Affaires étrangères, en souvenir de la mort d’Henri Focillon à Yale en 1943. J’ai souhaité ainsi favoriser la poursuite d’une coopération vieille d’un demi-siècle, avec l’une des plus prestigieuses universités américaines.
L’histoire de l’art est servie – j’en prends la mesure lors de mes déplacements en région, lors de mes «visites du dimanche» dans les musées, dans les sites archéologiques, dans les monuments historiques - par des personnalités engagées et passionnées, qui, souvent, sacrifient beaucoup pour leur désir de comprendre, mais aussi leur passion de transmettre. Universitaires, conservateurs du patrimoine, acteurs diverses s’engagent sans retenue dans leur recherche, avec le souci constant de faire connaître à des publics différents le résultat de leur travaux. Depuis deux ans, je rencontre des femmes et des hommes admirables, véritables «héros», véritable témoins vivants de la Culture, authentiques serviteurs de sa transmission au public.
Choisir Fontainebleau comme lieu d’attache pour un festival de l’Histoire de l’art n’est pas anecdotique. C’est ici que la Renaissance italienne a embrassé l’art français, c’est ici que des artistes de premier ordre ont séjourné à l’invitation de François Ier mais aussi de Napoléon, c’est dans ces murs que Nicolas Poussin, arrivant de Rome, a demeuré quelques jours avant de gagner Paris et la cour de Louis XIII. Cette ville et ce château constituent un carrefour européen, le lieu de rencontres artistiques exemplaires du Primatice à Coypel, dont nous venons de découvrir les cartons restaurés. Le château de Fontainebleau entretient un rapport singulier au temps et à l’histoire. A Rome, ville millénaire, le promeneur peut apprécier le legs artistique du passé, construit par tranches successives, chaque période se superposant à l’autre, dans une sorte de millefeuille aux strates complexes. A Fontainebleau, les couches du temps sont verticales, chaque moment de notre histoire se montre côte à côte, les rayonnages du temps rendent visible les séquences de l’histoire des modes et des représentations. Etait-il un lieu plus adéquat pour évoquer à la fois l’histoire de l’art français et celle des influences et des contaminations artistiques?
Cette rencontre est un «festival», qui entend instruire mais aussi séduire. Nulle volonté de céder à l’impératif festif, mais plutôt le souhait d’offrir une tribune aux spécialistes tout en invitant un très large public à partager les savoirs. Cette manifestation, avec des conférences, des expositions, des concerts, un Salon du livre et de la Revue d’art, un cycle de films «Art et caméra» doit donner envie d’aborder l’art et son histoire à travers plusieurs outils. Elle doit également offrir l’occasion de «jouer sérieusement» avec les oeuvres comme nous y invitait Daniel Arasse.
Permettez-moi quelques mots enfin sur les modalités du festival: un thème annuel et un pays invité.
Le thème de cette édition est la Folie. Elle constitue une part de l’activité des artistes et de leur personnalité: la conception romantique de l’art a fait naître l’idée du génie. Au-delà, il y a aussi le moyen d’interroger un rapport au monde singulier entretenu par l’artiste. Les arts, dans leur diversité, questionnent la norme, la liberté irréductible des créateurs illumine à chaque instant le monde. A l’occasion du 500e anniversaire de la publication de l’Eloge de la Folie d’Erasme et du 50e anniversaire de l’Histoire de la folie à l’âge classique de Michel Foucault, les organisateurs du festival ont également voulu inscrire cette première édition dans une histoire longue de la société et des pratiques culturelles. Histoire de l’art et philosophie ne sont jamais très loin: l’admirable Zénon de Marguerite Yourcenar est là pour en témoigner. De Camille Claudel à Van Gogh, des caprices baroques au psychédélisme, sans oublier les monomanes de Géricault, l’art est sur ce sujet un véritable miroir autant qu’un accoucheur de talents.
Le pays à l’honneur est l’Italie qui commémore cette année les 150 ans de son unité (1861-2011), acquise avec le soutien diplomatique et militaire de Napoléon III au royaume de Piémont-Sardaigne et à la monarchie de Savoie. Patrie des arts, des artistes et des historiens de l’art, c’est grâce à son patrimoine d’une richesse inestimable qu’elle a su transcender ses divisions et construire une identité nationale façonnée par la Culture. C’est par la puissance de conviction de ses historiens de l’art, de ses penseurs du patrimoine, qu’elle a su rayonner dans la République des savoirs. Aussi, j’ai choisi aujourd’hui de distinguer trois de ses personnalités en tant qu’Officier des Arts et des Lettres.
Chère Anna Ottani Cavina,
Vous êtes une voyageuse infatigable, une amoureuse des paysages aussi bien peints que réels, partagée entre l’Italie, la France et les Etats-Unis. Ce n’est certainement pas à vous que j’apprendrai qu’un paysage n’est pas seulement une mesure de l’espace mais aussi le véhicule d’un sentiment ; que le paysage est pour ainsi dire un état d’âme. Nous nous sommes connus à Rome, à la Villa Médicis plus exactement, dans cet écrin merveilleux qui vous fît aimer l’art français et où vous fîtes la connaissance de la première génération des historiens de l’art des années 70. Notre rencontre fut placée sous le patronage de François-Marius Granet, malheureusement plus connu par le portrait qu’en fit Ingres que pour ses œuvres, pourtant remarquablement subtiles. Subtile oui, un peu comme vous Anna Ottani Cavina, car derrière son apparence académique l’œuvre du peintre se révèle être une poésie au service de la délicatesse et de la fragilité des atmosphères lumineuses de cette belle terre d’Italie et de la campagne romaine.
Dans votre profession d’historienne d’art, vous avez su suivre des chemins riches et variés en montrant les évolutions du paysage et la genèse d’une modernité à travers les représentations du paysage: des lumières intérieures, lumières d’une aube béante entre deux-mondes du Caravage et des Caravagesques du XVIIème siècle aux Paysages que vous baptisez «de la Raison» dans l’art italien, français et européen du XVIIIè et de l’époque romantique. Paysages que vous admirez, auscultez, étudiez et dont vous avez présenté une merveilleuse exposition il y a 10 ans au Grand Palais.
Vous êtes une chercheuse mondialement reconnue mais également une enseignante engagée, passionnée et passionnante et pouvez vous féliciter d’avoir créer une réelle dynamique de recherche auprès de vos étudiants. Votre goût de la transmission et du partage avec le plus grand nombre vous pousse à créer et diriger la fondation d’Histoire de l’art Federico Zeri à Bologne, partenaire privilégiée de l’INHA de Paris, du Getty Research Institute de Los Angeles ou encore du London Courtauld Institute.
Chère Anna Ottani Cavina, vous avez ouvert des horizons lumineux, le ciel de l’art français et italien s’éclaircit sous votre égide mais c’est aussi toute la discipline de l’histoire de l’art qui vous sait gré de vos actions en faveur de son renouvellement, de sa reconnaissance et de la diffusion de ses savoirs.
Chère Anna Ottani Cavina, au nom de la République française, nous vous remettons les insignes d’officier dans l’ordre des Arts et des Lettres.
Cher Salvatore Settis,
Vous êtes l’un des plus grands archéologues et historiens de l’art de l’Italie contemporaine. Spécialiste des civilisations grecques et romaines, vous avez étendu votre champ d’étude à l’histoire de la tradition classique et de l’iconographie dans la peinture en Europe de l’époque médiévale au XVIIème siècle, avec une prédilection particulière pour Giorgione et Dosso Dossi. L’énigmatique Giorgione au sujet duquel vous menez une enquête fascinante sur le mystère iconologique du sujet d’un tableau qui fit couler beaucoup d’encre, La Tempête.
Vous êtes également un ardent défenseur du patrimoine actuel de l’Italie que vous considérez en danger. Vos écrits, souvent redoutés, dans les tribunes des journaux italiens font date et ont inscrits la voix d’un historien de l’art dans le débat public. Vous êtes une grand figure européenne aux commandes d’établissements prestigieux comme la Scuola Normale de Pise et le Getty Research Institut de Los Angeles. Directeur ouvert, bâtisseur des ponts entre les Ecoles normales de Pise et de Paris, vous avez également été associé à la politique de recherche scientifique menée au musée du Louvre et avez tissé des liens forts avec la communauté des historiens de l’art et des archéologues français que représentent Alain Schnapp, François de Polignac, François Lissarrague ou Philippe Sénéchal. Vous êtes aujourd’hui à la tête d’un des laboratoires européens d’excellence pour la conservation du Patrimoine, LARTTE, Laboratorio Analisi, Ricerca, Tutela, Tecnologie ed Economia per il patrimonio culturale. Vous avez joué un rôle considérable dans les institutions internationales consacrées au patrimoine, au sein des comités d’experts, non seulement pour la défense et la préservation des biens culturels mais aussi pour l’amélioration de la politique de la recherche auprès du Ministère de l’Industrie, de l’Enseignement et de la Recherche et enfin, en prenant une position ferme et courageuse pour la qualité et l’intelligence des abords patrimoniaux, trop souvent menacés.
Cher Salvatore Settis, votre engagement est exemplaire. Grâce à vos travaux, à vos combats remportés contre les flétrissures du temps et des politiques négligentes, les couches du temps ne dessinent pas des strates hétérogènes, des mondes, des époques s’entrecroisent et construisent une unité ; la vie intérieure se fonde sur le même principe. Vous êtes un artisan du temps non pas segmenté, divisé et parcellaire mais du temps long. En praticien de ce «sombre abîme du temps» signalé par Buffon, vous nous avez montré que l’histoire des civilisations, l’histoire de l’art participent d’une intelligence de notre présence au monde.
Cher Salvatore Settis, au nom de la République française, nous vous remettons les insignes d’Officier dans l’ordre des Arts et des Lettres.
Chère Rosanna Rummo,
Vous êtes une figure majeure de la coopération culturelle entre les institutions culturelles françaises et italiennes. Napolitaine de cœur, vous êtes une Européenne convaincue et une francophile assumée. Votre carrière dans la haute administration a de quoi faire pâlir toute personne qui souhaiterait écrire votre biographie tant elle est riche de rencontres, de responsabilités et d’initiative. Vous avez exercé d’importantes responsabilités au Ministère de l’Instruction publique, puis au Ministère des Biens culturels, à partir de 1999, où vous avez notamment contribué à l’accord de co-production cinématographique franco-italien. Vous avez été commissaire d’expositions et évènements culturels de grande ampleur notamment à Rome, aux Scuderie del Quirinale ou au Palazzo delle exposizioni. Des Journées franco-italiennes sur le théâtre, mises en œuvre avec l’ONDA à l’exposition Futurisme, mise en œuvre en partenariat avec le Centre national Georges Pompidou, votre relation à la France est pour ainsi dire naturelle et constante. Vous traduisez ici à Fontainebleau, à l’occasion de ce premier Festival de l’Histoire de l’art, la complicité artistique et intellectuelle qui unit nos deux pays, mais aussi l’amitié franco-italienne que vous mettez en œuvre depuis trois ans (2008) à l’Institut culturel italien de Paris avec passion et chaleur.
Chère Rosanna Rummo, au nom de la République française, nous vous remettons les insignes d’Officier dans l’ordre des Arts et des Lettres.
Permettez-moi pour conclure, mesdames et messieurs, d’évoquer l’avenir et la prochaine édition du Festival de l’histoire de l’art. Conformément aux propositions du Comité scientifique, j’ai le très grand plaisir d’annoncer qu’un autre voisin de la France sera à l’honneur. En 2012, le Festival accueillera l’Allemagne et je me réjouis à cet égard que l’ouvrage du directeur du Centre allemand d’histoire de l’art, Monsieur Andreas Beyer, ait reçu le prix du Salon du livre et de la revue d’art, qui en permettra la traduction. Quant-au thème, il sera conjugué au pluriel puisqu’il s’agira des «Voyages».
De l’Italie à l’Allemagne, cette manifestation entend prendre toute sa part dans la construction d’une Europe de la Culture, de la connaissance et des savoirs. Comme la Fête de la musique, comme la Nuit européenne des musées, comme les Journées européennes du Patrimoine, je souhaite que ce Festival soit un grand rendez-vous européen, un rendez-vous qui puisse servir une certaine idée de l’Art, de l’Image, de la Mémoire, en d’autres termes une certaine idée de l’Europe pour le XXIe siècle.
Je vous remercie.

da: www.culture.gouv.fr, 28 maggio 2011

domenica 19 giugno 2011

Matisse e l’inno alla Vergine

di Alessandro Beltrami

Qualcuno l’ha definita la «Cappella Sistina del Nove­cento». Certo non per le proporzioni, ma il parago­ne, almeno per la portata storica, regge. E pare segno del destino che tra pochi giorni la Chapelle du Ro­saire realizzata da Henri Matisse per le suore domenicane del San­tissimo Rosario a Vence, in Proven­za, stia per diventare 'vicina di ca­sa' del precedente michelangiole­sco. Mercoledì 22 giugno, nella «marescalcia», un vasto locale a­diacente alla Sistina, i Musei Vati­cani inaugureranno la Sala Matis­se, interamente dedicata ai bozzet­ti e ai cartoni realizzati dall’artista francese tra il 1948 e il 1952 per quello che può essere considerato il suo grande, estremo capolavoro, «il compimento – come egli stesso scrisse – di tutta una vita di lavoro e la fioritura di uno sforzo enorme, sincero e difficile».
La storia della Cappella del Rosario è nota. Suor Jacques-Marie prima di entrare nel convento di Vence, era stata infer­miera e poi allieva e modella di Matisse. L’istituto mancava ancora di una cappella e la religiosa ne parlò al maestro che nel 1947 ac­cettò la sfida di curarne l’intera realizzazione. I primi studi risalgo­no al gennaio 1948. La prima pietra fu posta il 12 dicembre 1949 e il 25 giugno 1951 il vescovo di Nizza monsignor Remond potè consa­crarla. La decorazione matissiana comprende vetrate, cera­miche dipinte e arredi litur­gici. L’artista continuò a la­vorare e solo il 31 ottobre 1952 venne ultimata la casula nera per i funerali.
A seguire in fase di com­mittenza l’ar­tista, che volle curare l’opera nei minimi particolari, c’era anche padre Marie-Alain Couturier, il grande domenicano protagonista del rinnovamento dell’arte sacra in Francia nel dopoguerra. I cartoni diventano ora il pezzo forte della Collezione d’Arte Religiosa Moder­na dei Musei Vaticani. Un corpus costituito dal cartone a scala 1:1 per la ceramica del presbiterio con La Vierge et l’Enfant e dai papiers découpés (una sorta di collage mo­numentale) a grandezza reale per le vetrate dell’abside, del coro e della navata: lavori che arrivano a misurare anche cinque metri di al­tezza per sei di larghezza. A queste si affianca una fusione in bronzo del piccolo crocifisso realizzato per l’altare. E presto saranno esposte anche la prima tessitura di cinque delle sei casule disegnate per ogni tempo liturgico dall’artista.
Se il crocifisso e le casule furono donate dalle suore di Vence già nel 1973, quando per volere di Paolo VI nei Vaticani fu aperta la galleria dedi­cata ai moderni, la vicenda dei grandi cartoni è più complessa: «È una vicenda solo in parte cono­sciuta – racconta Micol Forti, re­sponsabile della Collezione d’Arte Religiosa Moderna e curatrice dell’allestimento – ed è accessibile solo attraverso gli archivi di Pierre Matisse, il figlio dell’artista divenu­to importante mercante d’arte e mecenate. La documentazione ar­chivistica degli anni di Paolo VI in­fatti non è ancora consultabile. L’acquisizione è stata formalizzata nel 1980 in occasione di una mo­stra che il segretario di papa Mon­tini monsignor Pa­squale Macchi, tra i padri della nostra galleria, realizzò in memoria del Ponte­fice con alcune ulti­me grandi donazio­ni. I documenti però hanno rivelato che i primi contatti per l’iniziativa, con­divisa da tutti gli e­redi anche se for­malmente condotta da Pierre, ri­salgono almeno al 1974. Ciò signi­fica che può essere considerata co­me l’ultima espressione dell’inte­resse verso l’arte di un intero pon­tificato».
L’allestimento si è rivelato una vera e propria sfida: «I formati monumentali necessitavano spazi adatti, rari per noi, stretti tra l’ap­partamento Borgia e la Sistina. Un’altra difficoltà era data dalla conservazione di queste opere, realizzate su carta. La progettazio­ne è partita cinque anni fa, ma la sola operazione di allestimento è durata più di due anni. Particolare cura abbiamo dedicato all’illumi­nazione. Lo stesso Matisse aveva ri­flettuto a lungo sulla diversa reazio­ne di carta e vetro alla luce. Siamo arrivati a un risultato inverso ri­spetto alla Cappella: se quella è im­mersa nella luce mediterranea, la nostra sala è in penom­bra e solo le opere sono illuminate».
«Tra le testi­monianze di arte religio­sa moderna conservate nei Vaticani questa è in assoluto la più impor­tante – commenta il di­rettore dei Musei Anto­nio Paolucci – Sono cer­to che la sala contribuirà a dare la giusta luce a u­na collezione straordi­naria in ogni sua parte». Già, per­ché nei Vaticani sembra di assistere a una maratona: «Il visitatore me­dio percorre i Musei in un tempo medio di un’ora e un quarto – con­tinua Paolucci – una corsa forsen­nata verso la Sistina. Senza degnare di uno sguardo Raffaello e il Lao­conte. Figuriamoci i musei minori. Sono i tempi feroci dell’industria turistica. Il mio sforzo è far capire in questo vortice il carattere distin­tivo dei Musei, una rete che dimo­stra l’attenzione da sempre dedica­ta dalla Chiesa alle arti e alle cultu­re». Ma la collezione Matisse com­prende anche un importante nu­cleo di documenti: «Nel 1979 – spie­ga Micol Forti – i Musei ricevettero in dono anche le lettere che Matisse spedì a Agnès De Jésus, madre prio­ra della congregazione domenica­na, tutte decorate con progetti e di­segni floreali».
L’intero rapporto e­pistolare sarà pubblicato in Comme un fleur. Matisse e la cappella di Vence , volume firmato dalla Forti in uscita in autunno. «Lo studio dei documenti ha consentito di ap­profondire le stratificazioni di una storia nota. Interessanti novità sono emerse soprattuto sul contesto: dal­la committenza delle stesse religio­se, donne raffinate e colte che non subiscono ma vivono l’evento in modo partecipe e cosciente, sino al­la fase storica vissuta dall’arte in Francia tra il ’45 al ’55 in cui la ri­flessione sul sacro tra gli artisti co­me Chagall, Leger, Le Corbusier, è molto intensa. Matisse si ritrova a discutere con referenti intellettuali ed ecclesiali di grande apertura. La Cappella di Vence non è, come spesso si è affermato, una fioritura isolata ma il caso più eclatante di un fenomeno che si pone al centro non solo del rinnovamento dell’arte sacra ma dell’arte tout court».

da: Avvenire, 17 giugno 2011

giovedì 9 giugno 2011

Anselm Kiefer: così il cinismo di Hirst distrugge l'arte

di Fabio Gambaro

«L'arte sopravviverà alle sue rovine». Per Anselm Kiefer è una certezza da costruire giorno per giorno. Il celebre artista tedesco - le cui opere monumentali e sature di materie stratificate suscitano dappertutto stupore e ammirazione, ma anche infinite discussioni- lo proverà ancora una volta a Venezia, alla Fondazione Vedova, dove tra pochi giorni presenterà "Salt of the earth" (dal primo giugno al 30 novembre). Si tratta di una suggestiva istallazione che, rievocando le incessanti trasformazioni dell'alchimia, instaurerà un dialogo a distanza con un ciclo di tele di Vedova, "... in continuum", esposte nello studio del pittore veneziano scomparso nel 2006.
«Non ho mai conosciuto Vedova, ma le sue opere, specie negli anni Sessanta, sono state per me molto importanti», ci dice Kiefer, ricevendoci nel suo immenso atelier a venti chilometri da Parigi, un capannone di 30.000 metri quadri ingombro di tele, sculture, costruzioni e materiali d'ogni tipo. «L'idea di pensare un'opera per gli spazi del Magazzino del Sale della Fondazione Vedova mi ha subito affascinato. Il sale, insieme al mercurio e allo zolfo, e uno degli elementi di base dell'alchimia, una realtà a cui m'interesso da molto tempo. Anche perché, per andare verso il futuro occorre guardare verso il passato. Ho provato così a realizzare un'opera che evocasse la ricerca alchemica, sfruttando diversi materiali, ma anche il processo dell'elettrolisi. Accanto ai quadri, ci saranno quindi delle lastre di piombo lavorate e trasformate dall'elettrolisi che verranno presentate all'interno di una struttura, il cui scopo è quello di separare l'arte dalla vita. Non credo, infatti, che l'arte e la vita debbano essere confuse, sebbene in passato Dada e Fluxus abbiano tentato questa via, ottenendo risultati molto interessanti. Attraverso una soglia, io preferisco indicare l'ingresso nel mondo dell'arte, che è diverso dalla vita reale».

La fondazione Vedova sottolinea nel suo lavoro, come in quello del maestro veneziano, "un'iconoclastia" tesa alla "ricerca di nuove forme". Si riconosce in questa definizione?

«Un artista è sempre alla ricerca di nuove forme, giacché si contrappone sempre all'esistente, cercando ogni volta un nuovo ordine del mondo. Oggi però molti artisti sfruttano la ripetizione, riducendo l'arte a semplice divertimento. La ripetizione è senza sorprese. Se io lavoro duramente alle mie opere,è solo per imbattermi di tanto in tanto in una sorpresa».

Il dominio della ripetizione mette l'arte in pericolo?

«Sì, ma l'arte è sempre in pericolo. E' minacciata dall'esterno come dall'interno. All'esterno, l'arte fa paura e i potenti hanno sempre cercato di controllarla. L'arte è indipendente, non è riconducibile alle leggi della morale e della politica, quindi spiazza e sorprende il potere. Il vero artista non fa mai quello che ci si aspetta da lui, sfugge alle regole e alle attese, mostra che si può pensare l'impensabile, diventando così un esempio pericoloso».

E quali sono i pericoli interni?

«Un'opera artistica nasce sempre da una successione di scelte. Ad ogni momento, quindi, si rischia la scelta sbagliata. L'arte è come un percorso sulla cresta di una montagna, si può cadere ad ogni istante da una parteo dall'altra. Oltretutto, l'arte è sempre attratta dall'autodistruzione, come hanno mostrato in passato i futuristi. Per rinnovarsi, oggi si mette alla ricerca di stimoli e idee al di fuori dei propri confini, confrontandosi con il kitsch, la cultura di massa, il brutto, materiali che prova rielaborare e trasformare. Spesso però finisce per restarne prigioniera».

Pensa ad artisti come Jeff Koons?

«Non m'interessa fare nomi. Dico solo che già Andy Warhol realizzava la morte dell'arte. I suoi quadri erano brutti, ma il cinismo del suo lavoro era una novità. Oggi però quello stesso cinismo non è più riproponibile. Non si può esporre di nuovo l'orinatoio di Duchamp. Eppure c'è chi lo fa. L'arte diventa così un passatempo divertente, al cui interno si può fare di tutto. I risultati però non lasciano traccia. Si consumano immediatamente e si dimenticano. Quest'arte non intriga più, è solo consumo».

Il mercato spinge in questa direzione?

«Naturalmente, ma è tutto il sistema dell'arte ad essere prigioniero della quantità, come mostrano i musei alla ricerca del record di pubblico. L'arte rischia di essere soffocata dal denaro e dai record. Non a caso, circolano molte opere che non hanno nulla a che vedere con l'arte. Oggi la vera arte è underground, sepolta sotto una valanga d'opere inutili e commerciali».

Un artista celebre può resistere agli eccessi del mercato?

«Non è facile, perché il mercato è seduzione. Io provo a resistere, ad esempio impedendo ai galleristi di proporre le mie opere alle fiere. Oppure dipingendo solo quadri molto grandi che non entrano nei salotti. Dipingere piccoli formati è come stampare denaro, quindi rifiutarsi di farlo è un modo per resistere alla pressione del mercato. Inoltre, le opere che si vendono meglio sono di solito quelle più facilie consensuali. Tutto ciò non m'interessa. Il troppo consenso è sempre negativo. Preferisco restare nell'underground. Preferisco le critiche anche aspre che però mi fanno sentire vivo».

Rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, oggi il pubblico segue con maggiore attenzione l'arte contemporanea. Per un artista è uno stimolo importante?

«Non è un interesse vero. E' solo consumo e spettacolo. Adorno lo aveva previsto, sebbene poi l'arte, che sembra sempre precipitare nell'abisso, all'ultimo momento riesca sempre a salvarsi in un modo o nell'altro. L'artista che più ha fatto precipitare l'arte verso il suo annientamento è Damien Hirst, come mostrano le quotazioni stratosferiche delle sue opere. Il suo cinismo trasforma l'arte in puro mercato, conducendola in una zona pericolosa. L'arte però non muore mai, resiste, risorge dalle rovine, anche se, nella nostra società unidimensionale in cui tutti pensano allo stesso modo, non ci si aspetta più nulla d'originale. Per questo, mi sento un alieno proveniente da un altro pianeta».

Di recente, Maurizio Cattelan ha dichiarato che potrebbe andare in pensione. Lei che ha sessantasei anni potrebbe mai dire una cosa del genere?

«Naturalmente no. Non potrei mai smettere di lavorare. Quando si ama il proprio lavoro, non si pensa alla pensione. Ma la dichiarazione di Cattelan è una civetteria. Una delle sue solite provocazioni che servono a fargli pubblicità. Non sono contro le provocazioni, ma solo se non sono intenzionali. Se le mie opere provocano, sono contento, ma nel mio lavoro non cerco mai di provocare volontariamente il pubblico. Cattelan invece sì, anche se a volte i suoi risultati possono essere molto interessanti.A me, ad esempio, era molto piaciuta la sua Hollywood sulla discarica di Palermo».

«Dopo quarant'anni di attività è cambiato qualcosa nel suo modo di lavorare?

«E' cambiato il contesto, che come ho detto - è ormai dominato dal mercato. Io però sono rimasto lo stesso. La sola differenza è che oggi so che sono capace di dipingere. Non ho talento, ma la mia mano adesso sa dipingere. Naturalmente ho sempre dei dubbi su quello che faccio, anche perché quando si crede di saper fare bene qualcosa diventa più facile sbagliarsi. Occorre fare attenzione e continuare ad interrogarsi criticamente. E' il motivo per cui io non sono mai soddisfatto di quello che ho fatto. E comunque ogni risultato è sempre provvisorio. Nulla è mai definitivo».

da: La Repubblica, 24 maggio 2011, p. 58

domenica 5 giugno 2011

Cera e acciaio

Anish Kapoor mistico e sensoriale «Così vedo lo spessore del vuoto»

di Francesca Bonazzoli

C'è chi ha paura e appena il buio si fa totale, preferisce tornare indietro; chi si aggrappa alla prima ombra brancolante che incontra procedendo come la catena dei ciechi del quadro di Pieter Bruegel; chi si volta verso l'ingresso a calice alto otto metri e esclama che il tunnel di luce, che ricorda quello dipinto da Hieronymus Bosch nella Visione del Paradiso, sia bellissimo. Tutti provano un senso di sollievo arrivando all'uscita di Dirty Corner, la scultura d'acciaio percorribile per i suoi 60 metri di lunghezza e 3 di diametro, collocata da oggi nella Cattedrale della Fabbrica del Vapore. L'autore è l'indiano Anish Kapoor, nato a Bombay nel 1954, trasferitosi a Londra dal 1973, artista amato dall'establishment (molto spettacolare e per nulla scomodo), pluripremiato e ben inserito anche in Italia dove lo rappresentano due delle maggiori gallerie (quella bresciana di Massimo Minini e la Continua di San Giminiano). A Milano era già stato invitato nel 1996 dalla Fondazione Prada e prima, nel 1993, avrebbe dovuto tenere una mostra al Pac, annullata a causa dell'attentato mafioso che distrusse l'edificio di via Palestro.
Questa volta, dopo due anni di corteggiamento da parte del Comune e la produzione affidata a Madeinart, la mostra è andata in porto, in due sedi: alla Besana una retrospettiva di sette opere (soprattutto superfici specchianti, presentate per la prima volta da Prada) e l'opera monumentale alla Fabbrica del Vapore simile, nell'idea della scultura da percorrere, a quella installata in questi giorni a Parigi al Grand Palais.
Tutti lavori che stanno a metà tra un'esperienza quasi mistica, spirituale, e una sensoriale: da una parte il visitatore sperimenta lo spessore del vuoto e interroga il mistero della propria immagine deformata da uno specchio concavo o convesso. Dall'altra è impegnato a stabilire una relazione del suo corpo con lo spazio, con dimensioni a volte inafferrabili, a volte decifrabili con l'intelletto. Per semplificare la lettura, c'è insieme un po'di Oriente e di Occidente; la concretezza dell'acciaio, l'immaterialità del buio. L'immaginazione e i sensi.
È l'artista a offrire questa chiave: «Impossibile dire che cosa ci sia di indiano o di inglese nel mio lavoro: penso solo a fare del mio meglio come artista». Tanto è vero che Kapoor si muove perfettamente anche nella storia dell'arte e dell'architettura italiane.
A Milano, in questi giorni, ha compiuto un tour de force artistico dal Cenacolo agli affreschi cinquecenteschi di San Maurizio, dal Bramante di santa Maria presso San Satiro al Bramantino della cappella Trivulzio in San Nazaro. Un indiano, oltre che british, molto italiano.

da: Corriere della Sera - Milano, 31 maggio 2011, p. 19

giovedì 2 giugno 2011

La mia Pietà supera Michelangelo

Jan Fabre: «Cristo tiene in mano un cervello, organo della compassione»

di Pierluigi Panza

L'uso dell'arte come strumento di dissacrazione è sempre esistito. Ma poiché nella contemporaneità questa tendenza assicura l'accesso al cortocircuito mediatico, sono fioriti professionisti della dissacrazione che ripetono temi e modelli. Così, se alcune di queste opere controverse hanno il crisma dell'originalità e dell'espressività, alcuni «papi in reggicalze» o «Ultime Cene» porno-gay appaiono banali ripetizioni. E distinguere tra ironia nichilista, dissoluzione della tradizione e lavoro espressivo non è sempre facile in queste opere.
Quest'anno Venezia inaugura la settimana dei vernissage con uno di questi lavori che dividono critici e osservatori. È una Pietà del belga Jan Fabre - sarà presentata domani nella restaurata Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia - che ha già fatto discutere in tutta Europa prima ancora d'essere osservata. Riproduce in scala 1:1 la Pietà di Michelangelo: ma la Madonna è un cadavere e Cristo, in abito da sera strappato, ha il volto dell'artista e regge un cervello nella mano destra. È realizzata in marmo di Carrara e posta al culmine di un commovente percorso espositivo curato da Giacinto Di Pietrantonio e da Katerina Koskina (promosso da Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, dallo State Museum of Contemporary Art di Salonicco e dal Kunsthistorisches Museum di Vienna) che presenta altre quattro sculture dell'artista fiammingo.
«La mia Pietà mette in gioco il cervello - spiega per la prima volta Fabre -. Cristo tiene nella destra un cervello perché sono i neuroni che attivano il sentimento della compassione. Dai neuroni dipende tutto l'individuo e proprio il cervello è il fulcro della mia mostra, dove presento una serie di marmi raffiguranti il cervello, elemento attraverso cui offro anche una rilettura della Pietà michelangiolesca».
Ma i corpi di Cristo e della Madonna, nell'opera di Fabre appaiono già in decomposizione, con mosche, farfalle e scarabei attaccati. «Gli insetti raffigurati sono in diretto rapporto con l'organo presso cui si trovano e con l'effetto che le emozioni generano su quell'organo. Per compassione, la madre rende il suo corpo empatico con quello del figlio morto. Io rappresento un vero sentimento di identificazione che il cervello mette in gioco. Questa empatia è l'elemento fondamentale della compassione. Con questa identificazione consento alla Pietà di diventare simbolo universale. In tutti i modi di pensare, pagano, cristiano, scintoista, buddhista... dalla Cina alla Grecia è presente il sentimento della pietà».
Per i cattolici è un'opera choccante. Aspetto non nuovo in Fabre, che è un eclettico performer, coreografo e artista con l'ossessione della rappresentazione del cervello, degli insetti (si dice nipote dell'entomologo Jean-Henri Fabre) e dell'uso d'immagini crude. «Non credo sia choccante; è un'opera nella tradizione. In particolare è un dialogo tra l'arte italiana e quella fiamminga. È un dialogo tra la vita e la morte, un po'come nell'album Abbey Road dei Beatles e alla connessa leggenda della morte di Paul McCartney». Sulla copertina di Abbey Road, infatti, i quattro di Liverpool attraversano una strada con abiti che suggeriscono una processione funebre: John vestito di bianco (forse un angelo), Ringo in completo nero, Paul scalzo con gli occhi chiusi (si ipotizzava fosse morto) e George in jeans e Clarks, che potrebbe far pensare al becchino pronto per scavare una fossa.
L'opera di Fabre è intensa, ma anche alla luce di questo parallelismo potrebbe apparire un po'blasfema... «No, per niente - risponde -. È un'opera compassionevole. L'opera istituisce una connessione cerebrale tra madre e figlio. C'è empatia della madre per la morte del figlio. E il cervello è l'elemento in gioco».
La Pietà è collocata al termine di un percorso iniziatico rappresentato da altre quattro sculture di cervelli che fungono da base-mondo-cosmo per altrettante simbologie naturalistico-cristologiche. L'allestimento potrebbe apparire come una sorta di performance, ma Fabre non concorda: «No, metto in scena il simbolo della sofferenza» dice, rimandando semmai al lavoro di Joseph Beuys, che usò dei resti di bottiglia per raffigurare la sofferenza della crocifissione.
Anche l'opera di Fabre è in marmo di Carrara, come quello usato da Michelangelo: «L'ho realizzata in studio a Carrara e mi ha impegnato per circa due anni. Sono contento di presentarla a Venezia, una città che ha tante rappresentazioni della madre di Cristo».
È preoccupato del vernissage? «No. Nell'opera c'è bellezza e qualità. Inoltre è un'opera nella tradizione, tant'è che viene esposta presso la chiesa di Santa Maria della Misericordia». Con questa e molte altre inaugurazioni, da Palazzo Grassi alla Fondazione Cini, dalla Guggenheim alla Fondazione Vedova, e con le varie preview della Biennale, da domani Venezia diventa il centro dell'arte contemporanea. Ma lo è ancora veramente? «Direi di sì, più che Kassel o Basilea - conclude Fabre -. E comunque amo molto Venezia sin dalla prima volta in cui sono stato qui alla Biennale, nel 1984, invitato da Franco Quadri e Germano Celant».

da: Corriere della Sera, 30 maggio 2011, p. 33

mercoledì 1 giugno 2011

Il Vaticano e la statua di Giovanni Paolo II «Il bozzetto? Diverso»

di Lauretta Colonnelli

«Mi dica lei se c'è un paragone tra bozzetto e statua». Monsignor Pasquale Iacobone, responsabile del dipartimento Arte e Fede del Pontificio Consiglio della Cultura, mostra il disegno originale del progetto per la statua di Wojtyla inaugurata il 18 maggio, sul piazzale della Stazione Termini. Siglato con una «R» che sta per Oliviero Rainaldi, il foglio mostra un'immagine ben diversa da quella che è apparsa quando il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha scoperto la settimana scorsa la scultura alla presenza del cardinale vicario Agostino Vallini. Nel disegno si vede Giovanni Paolo II, con il volto estremamente somigliante al vero, mentre apre con la mano sinistra l'ampio tabarro, il mantello rosso che era solito indossare durante le cerimonie pubbliche, in un gesto di accoglienza. Lo stesso gesto compiuto nel 1993 dal Pontefice verso un bambino, nel corso di un incontro nell'aula Paolo VI, e rimasto nella memoria collettiva. Sotto il mantello non si vede il vuoto che ha fatto ribattezzare la statua in bronzo «la garitta», ma il corpo del papa, avvolto nella veste bianca.
Il disegno è conservato in una cartellina presso l'archivio del Pontificio Consiglio della Cultura, di cui è presidente il cardinale Gianfranco Ravasi. Ed è stato il cardinale a decidere di renderlo pubblico, con l'intenzione di fare chiarezza sulle voci che in questi giorni si sono accavallate riguardo al coinvolgimento del Pontificio Consiglio nella vicenda. Il caso era scoppiato con l'articolo di Sandro Barbagallo, critico dell'Osservatore Romano, che apprezzava «la suggestione dell'opera» per aver voluto riprodurre «quell'abbraccio ideale che il Pontefice era solito dare ai fedeli della sua diocesi e offrire ai molti pellegrini e visitatori»; ma lamentava il fatto che, nonostante le buone intenzioni, «sulla piazza, invece, ci troviamo di fronte a un violento squarcio, come di bomba, che finisce quasi per assimilare quel mantello a una garitta, sormontata da una testa del Papa eccessivamente sferica».
Il Campidoglio si difendeva per bocca del suo sovrintendente Umberto Broccoli: «Le carte sono a posto. La statua di Giovanni Paolo II è stata avallata dalle autorità vaticane e dal ministero dei Beni culturali vedendo i rendering e le foto, materialmente, in corso d'opera. Hanno seguito questa cosa passo passo e c'era un consenso obiettivo». Per quanto riguarda il ministero, la smentita era già arrivata dal sottosegretario Francesco Maria Giro. Ora anche il Pontificio Consiglio vuole far conoscere la sua verità. «Broccoli ha complicato la questione», dice monsignor Iacobone. «I rapporti col sindaco li ho tenuti io personalmente, anche se l'iter è stato un po' tortuoso. Tramite la sua segreteria, Alemanno ci ha inviato un primo bozzetto, di un artista che non era Rainaldi. Abbiamo risposto: non se ne parla. Qualche giorno dopo si rifanno vivi al telefono con un'altra proposta. Rispondiamo che è difficile discutere un bozzetto al telefono senza vederlo. E che non spetta a noi valutare il progetto ma al vicariato. Ma, visti i buoni rapporti con la segreteria del sindaco, possiamo dare un consiglio, un parere non vincolante».
Arriva la lettera del sindaco, con la richiesta del parere. Dal Vaticano telefonano in Campidoglio: «Guardate che manca l'allegato con il disegno». Tre giorni dopo, la busta con il bozzetto originale tratteggiato a matita viene consegnata. Il cardinale Ravasi risponde con una lettera protocollata il 9 aprile: «Le comunico il mio parere del tutto favorevole e positivo per l'opera del maestro Rainaldi. Il monumento di cui mi ha gentilmente inviato il bozzetto credo possa manifestare eloquentemente sia la grande statura spirituale e culturale dell'amato Pontefice, sia tutta la sua umanità». «Dopo di che non abbiamo saputo più nulla», precisa monsignor Iacobone. «Né una telefonata, né un bozzetto in argilla o in gesso, nessuna foto. Non sapevamo se l'opera fosse andata avanti oppure no. Fino a quando non è stata inaugurata. E non era certo quella che avevamo visto noi».

da: Corriere della Sera, 24 maggio 2011, p. 26

Il bozzetto della statua di Giovanni Paolo II realizzato da Oliviero Rainaldi