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giovedì 3 dicembre 2009

Escobar: il Disco di Pomodoro resti allo Strehler

di Armando Stella

«Quest'immagine è diventata un simbolo nel mondo: il "Sole" di Pomodoro e dietro il Piccolo. Se il Comune ci toglie la scultura, la piazza tornerà un non-luogo, completamente abbandonato». E la prospettiva non piace al direttore dello Strehler, Sergio Escobar. Dopo cinque anni di prestito, il Disco scolpito da Arnaldo Pomodoro verrà rimesso in piazza Meda, una volta liberata dal cantiere dei box. Escobar non vuole polemizzare, per carità, «ma fare alcune considerazioni, questo sì». La prima: «Lo sapevamo che il rapporto tra noi e Pomodoro era solo un fidanzamento, ma ormai siamo una coppia di fatto. Perché sradicare il monumento? Sarebbe una privazione molto forte». Seconda riflessione: «Il Sole di bronzo ha trasformato la piazzetta anonima davanti al teatro in un luogo vissuto, frequentato, un punto di riferimento per i cittadini». Sancire il legame, questo chiede Escobar. Passare dal fidanzamento al matrimonio: «Io non riesco più a concepire lo Strehler senza Pomodoro, e penso anche il nostro pubblico». Sì, d'accordo, ma il monumento stava in piazza Meda... «Il Comune potrebbe commissionare un'altra opera al maestro. Per altro, ne guadagnerebbe tutta la città. O no?».

da: Corriere della Sera (Lombardia), 26 novembre 2009, p. 5

venerdì 6 novembre 2009

Piano: due mondi fanno una città

di Stefano Boeri

Incontriamo Renzo Piano in un pomeriggio che sa ancora d'estate, nel terrazzo del suo studio genovese. Siamo reduci da sei mesi di lavoro in comune e finalmente abbiamo in mano una prima bozza di «Being Renzo Piano». Era facile scivolare nella celebrazione, o nel gossip, eppure il risultato, come lui aveva fortemente voluto, è un film in presa diretta, senza retorica e senza veli, sui misteri, le difficoltà e le prospettive di un mestiere appassionante. Ed è proprio da queste considerazioni sul «fare architettura» oggi che il nostro dialogo riparte.
Una volta mi hai parlato di architettura come arte corsara...
«L' architettura è un' arte di rapina: guardi, cerchi, prendi tutto quello che può aiutarti nel progettare e poi lo mescoli, sapendo però che tutto quanto hai "rubato" e assimilato deve raccogliersi dentro la costruzione di un edificio che funzioni».
Se è per questo, tutta l' arte è rapina; e lo sono anche la scrittura, il romanzo, la scenografia.
«Sì, ma l'architettura gioca sempre su una linea di frontiera, perché non ha a che fare solo con questioni pratiche come la tecnologia, la costruzione, i materiali. Quando costruiamo c'è un momento in cui ci rendiamo conto che l'avere risposto in modo tecnicamente pertinente a un bisogno non è più sufficiente, che dobbiamo far aderire quella risposta anche a un desiderio, a un sogno, a un'immagine, a qualcosa che ti rappresenti. A quel punto, pur nascendo dal costruire, l'architettura si trasforma in qualcosa di straordinario».
La straordinarietà è un programma piuttosto ambizioso...
«Dipende da come la raggiungi: c'è chi, come il mio amico Frank Gehry, progetta proponendosi subito di realizzare qualcosa di eccezionale e poi torna indietro verso i requisiti funzionali e costruttivi e chi invece, come me, comincia dal costruire e cerca gradualmente di avvicinarsi alla straordinarietà. In realtà l'architettura è davvero tale solo quando questi due mondi, la risposta ai bisogni e la risposta ai sogni, riescono a coincidere in un solo oggetto: ecco allora che assisti a un miracolo».
In questi mesi di assidua frequentazione, la cosa che ci ha più colpito è la tua capacità di costruire continuamente delle "procedure" capaci di regolare la tua vita e il tuo tempo. In letteratura, questo è un atteggiamento tipico di quegli scrittori, come Italo Calvino, che hanno cercato metodicamente un linguaggio per descrivere il mondo, prima ancora di proporsi di progettarlo in forma narrativa...
«In effetti, anche Calvino, come me, aveva il terrore del disordine. Girava sempre con dei foglietti in tasca e scriveva appunti che erano geroglifici. Ma attenzione: Calvino agganciava costantemente il reale. Questa ossessione del prendere appunti, del "rubare dal quotidiano" è piuttosto un comportamento comune a tutti quelli che non hanno mai creduto all' impulso creativo selvaggio. E, da buon genovese del segno della Vergine, è una cosa che ti resta dentro tutta la vita».
Sembri sempre preoccupato di evitare una eccessiva autografia nei tuoi lavori, eppure c'è un gesto compositivo ricorrente anche in opere molto lontane nel tempo: qualcosa che ha a che vedere con un principio di sollevamento del terreno. Un gesto tettonico, anche di una certa semplicità, che genera aeroporti, musei, luoghi pubblici. È come se ci fosse una tua aspirazione costante alla levitazione.
«La ricerca costante di una "leggerezza" nelle strutture architettoniche è stata sempre per me importante. È l'idea dell'architettura come arte per sollevare immense superfici di suolo, sotto le quali lasciare fluire l'imprevedibile movimento della vita quotidiana. Può darsi che nei miei lavori questa ricerca sia leggibile al punto da diventare quasi un requisito linguistico riconoscibile. Non sta a me dirlo».
C'è un momento particolare in cui nasce l'idea di un progetto?
«Seguendomi in molti dei miei viaggi, avrete capito che non decido tutto sul luogo di progetto; piuttosto immagazzino delle immagini, le registro e questo mi aiuta ad alimentare un ologramma che gradualmente si compone e si memorizza nella mia mente. Io lavoro per ologrammi. È una costruzione mentale in tre dimensioni che scaturisce dal tuo mondo interiore, dalle tue conoscenze tecniche e dalla realtà del sito. Devi farla subito ed è forse il passaggio più difficile del progettare. L'ologramma serve per calibrare la scala della tua idea, per capire come letteralmente "sta" nel luogo e cosa sia l'edificio a cui stai pensando. E il disegno serve solo per aiutare l'ologramma a esprimersi. Nell'ologramma, le tue esperienze, le sensazioni del luogo, le idee costruttive si fondono in tempo reale in un'idea di architettura che poi si evolve e si articola».
Ti consideri un' Archistar?
«Il discorso sulle Archistar ha il merito di aver riportato l' architettura sulle prime pagine dei quotidiani, ma tende a trasfigurare la vera e profonda realtà del nostro mestiere, che non è quello di fare oggetti accattivanti, ma di fare cose che fanno città. Ed è proprio questa, l'architettura che fa città, la caratteristica riconosciuta al nostro lavoro, soprattutto in America. Del resto anche il progetto per la Columbia University a Manhattan nasce con questa idea: fare del campus universitario un nuovo pezzo di città, ad Harlem».
Di solito, pur essendo in solitudine, quando si progetta si è accompagnati dalla presenza mentale di qualcuno a cui si attribuisce una funzione di giudizio, una presenza critica che viene interiorizzata e che serve a misurare la qualità del tuo lavoro.
«È vero. Un tempo questa presenza si identificava in Peter Rice, che oggi non c' è più. E devo ammettere (anche se è un'idea un po' romantica) che ogni tanto, mentre sviluppo un ologramma progettuale, penso: "Cosa avrebbe detto Peter? "Lo stesso mi accade con Jean Prouvé. D'altro canto, per me sono importantissimi anche i giudizi dei bambini: i bambini sono diabolici. Io ne ho avuti 4 e li ho sempre portati in cantiere, perché sono freschi, ingenui, ma sensibilissimi e acuti. Così come

da: Corriere della Sera, 4 novembre 2009, p. 33

domenica 11 ottobre 2009

Gehry, il gioco del serpente

di Germano Celant

Rispetto al carattere riduttivo e minimo di molta architettura precedente che viveva in una logica essenzialmente di privazione iconografica a favore di materiali e di forme assolute e metafisiche, prive di figura, se non quella della geometria pura e lineare, al punto tale da rimuovere persino qualsiasi implicazione cromatica che, agendo per contrasto, non fosse omogenea le architetture di Gehry fanno riferimento a una magnificenza formale e volumetrica, cromatica e figurale che comporta un alto valore espressivo.
Un atteggiamento che, intrecciato alla disposizione degli edifici ad arcipelago, come il Complesso residenziale Wosk (Beverly Hills, 1981-1984), lo avvicina a Wright nella sua Casa Helen Donahoe, nella Paradise Valley (Arizona, 1959), dove l'immagine del villaggio abitativo e' veicolata nella progettazione di tre edifici, con funzioni diversificate, collegati tra loro da ponti perche' collocati su differenti colline. Al pari, gli insiemi come la Norton Simon Gallery e de'pendance (Malibu, 1976), e la Casa Spiller (Venice, 1979-1980), si distinguono per materie e colori, intrecci e innesti di spazi e di motivi, si offrono per la loro presenza informe, quale transito tra visibile e invisibile, occultato e scoperto. Vivono di incontri antitetici e complementari, quasi volessero, in maniera iconoclasta, distruggere qualsiasi immagine unica, violarne l'apparenza monolitica e ricercare un'altra essenzialita' che non si affida piu' a un'idealita', ma a una vitalita' plurima e comunicativa dell'architettura.
Adottando un paragone con la storia dell'arte, facendo ricorso all'iconografia di san Sebastiano, l'innovazione sta nel trafiggere il corpo e smembrarlo per recuperarne l'immagine non solo esterna, ma interna. Pensarla quale velo che e' trasparenza, ma che rivela la carne, cosi' da evitare qualsiasi ascesi metafisica a favore di un'architettura incarnata che e' impasto di epidermide e di materia. Al tempo stesso, in Gehry lo statuto di un oggetto architettonico accanto all'altro deriva dall'interesse per Giorgio Morandi, in cui la presenza del medesimo motivo, la bottiglia, subisce un'interpretazione molteplice. Dove l'artista mette instancabilmente in discussione una sola immagine o un solo elemento, ma lo sottopone a variazioni cromatiche e pittoriche infinite. E' quanto succede, rispetto a Wright e Morandi, nel Complesso residenziale Wosk, dove l'abitazione e' una collezione di piccoli edifici che riflettono specularmente, per le loro diverse forme e i differenti colori, l'aspetto eclettico del quartiere, fino al progetto dell'Ohr O'Keefe Museum of Art, Biloxi, 1999-2009.
Entrando invece in una dimensione piu' ludica, gli effetti emergenti di un'architettura che negli anni ottanta vive sul «montaggio» variabile sembrano venire a Gehry anche dalla liberta' di articolazione che era legata ai giocattoli «transformer» dei figli Alejo e Sammy. I robot scomponibili e componibili sono macchine dagli scambi multipli e dalle permutazioni complesse che presentano un'autoespressivita' tale da favorire l'abbandono a un pensiero che sovrappone molti strati di espressivita' processuale. Un desiderio di declinare, tra pittura e gioco, tutte le possibili pieghe dell'architettura e una tattica operativa che crede nei registri multipli del pensiero progettuale, il cui senso va continuamente messo in discussione e in movimento. Ispirandosi al corpo del pesce, e poi del serpente, a cui e' ricorso in memoria della sua infanzia e del suo interesse per il mondo naturale, rivisto secondo una prospettiva orientale, quella delle stampe giapponesi, Gehry ha mirato prima alla pelle quale estensione dell'architettura e del suo spazio. Si e' soffermato sulle squame e sulle scaglie dell'immagine zoomorfa e ha tradotto questa in un perimetro murario, pittorico e plastico, tanto strutturale quanto fenomenico. Ha adottato la superficie intensa e temporale che si aggetta e punge per farla risultare il vero punto di dislocazione progettuale: una liquidita' di forme che e' stata certamente influenzata, oltre che da un pensiero zoomorfo, anche dal suo profondo interesse per Notre Dame du Haut (Ronchamp, 1950-1955), di Le Corbusier, e per il Goetheanum (Dornach, 1924-1928), di Rudolf Steiner, quanto da un ricorso a materie grezze derivato dall'uso di superfici lignee di Rudolph Michael Schindler e delle superfici metalliche di Richard Neutra.
Ecco perche', sin dal 1964 nella Casa-studio Danziger (Hollywood), e in seguito nel 1968 con il fienile della fattoria O'Neill (San Juan Capistrano), sino alla copertura in titanio del Guggenheim Museum di Bilbao, l'avvolgimento e la pelle dell'edificio sono argomento di profondita', sul tattile e sull'ottico, del corpo dell'architettura: essi significano estensione, tessuto e parete capaci di un effetto di alterazione e di movimento del costruito. La sua soggettivita' passa di conseguenza su e attraverso la superficie, cosi' da avvicinare la sua architettura alla pittura, la' dove contano gli strati e le accumulazioni cromatiche e segniche, un linguaggio progettuale che si dilata poi nella scultura, dove i lembi e le superfici si curvano e si alzano, strato dopo strato, fino a comporre un insieme caotico e informale, iconico e narrativo. Il senso di vivacita' pittorica e scultorea Gehry lo deve, sin dal 1964, ai suoi dialoghi con artisti quali Ed Moses, Charles Arnoldi e Robert Irwin, e in seguito si arricchisce delle discussioni e delle collaborazioni con Richard Serra, Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen. Per questi il tutto plastico, che include arte e architettura, e' impasto e forma, curvatura e immagine, mentre il risultato dipende sempre da uno schizzo o da un modello, qualcosa che e' tattile e palpabile, prima di diventare un elemento o un artefatto a grande scala. Ecco la logica di un procedere «artistico» che Gehry adotta cercando le idee nell'ammasso di linee, tracciate a mano, e di materie trovate, dal legno al cartone, dalla pomice al chain link, dal foglio di plastica alla rete metallica che da brandelli senza forma si avviano lentamente, dopo infinite manipolazioni, a diventare determinazioni architettoniche.

da: La Stampa, 25 settembre 2009, p. 43

domenica 4 ottobre 2009

La Statua della Libertà? Copiata

di Armando Torno

MILANO - Anche Milano ha la sua Lady Liber­ty, più gentile di quella di New York. Risale al 1810, si chiama «La Legge Nuova», è opera dello scultore Camil­lo Pacetti. Se ne sta sulla facciata del Duomo e potrebbe essere il modello della più fortunata Statua della Liber­tà di Frédéric Auguste Bartholdi. Anche un occhio non esperto si accorge che tra «La Legge Nuova» del Duomo e la Statua della Libertà di New York c’è una stretta parentela, anzi quella meneghina — la precede di alcuni decenni — ha l’aria di esserne stata il modello. Del resto, 1810 a Mi­lano significa Napoleone e, soprattutto, si­stemazione della cattedrale. Non furono po­che le incisioni e riproduzioni dettagliate che si realizzarono e circolarono in tutta Eu­ropa. Frédéric Auguste Bartholdi, artista al quale dobbiamo il celebre colosso america­no — 93 metri d'altezza, di cui 47 di piedi­stallo, visibile fino a 40 chilometri di distan­za — ne ha vista senz’altro più d’una. La so­miglianza, poi, tra le due è impressionante ed entrambe reggono nella mano destra al­zata una torcia e presentano il capo cinto.
Camillo Pacetti (1758-1826), artista neo­classico, lavorò soprattutto a Milano, dove insegnò a Brera e mai operò in un palcosce­nico come quello di Parigi. Affermato ritrat­tista (busti di Napoleone, di Maria Luisa, ecc.), dal 1805 diresse i lavori per la decora­zione dell'Arco del Sempione e quelli, ap­punto, di statuaria del Duomo. Bartholdi (1834-1904) lo troviamo nel 1856 in Egitto a studiare le forme gigantesche, meditò a Rodi cercando tracce del Colosso ed ebbe in­carichi dagli Stati Uniti. A Parigi collaborò con l’ingegner Eiffel e approfittò dell’Esposi­zione Universale del 1878 per far conoscere a tutti la testa della «sua» statua, la medesi­ma che il 17 giugno 1885 due navi consegne­ranno a New York.
Insomma, era in netto vantaggio sul buon Pacetti e poteva permet­tersi di copiarne l’idea senza pagare dazio. Va aggiunto che l’opera sul Duomo non figura quasi mai tra i modelli di Bartholdi. I francesi preferiscono rimandare al Colosso di Rodi, certi testi inglesi parlano del San Carlone di Arona e i toscani ribadiscono che la fonte è la Statua della Libertà della Poesia, presente sul monumento funebre di Giovan­ni Battista Niccolini, in Santa Croce a Firen­ze, di Pio Fedi. Comunque sia, va detto che Milano non fa una brutta figura, anzi. E tutte le altre in­dicazioni ci sembra che siano alimentate per nascondere il modello vero, che il pros­simo anno compirà due secoli. Sulla faccia­ta del Duomo.

da: Corriere della sera, 28 settembre 2009

lunedì 28 settembre 2009

Così il mito di Laocoonte conquistò Milano

di Carlo Bertelli

Il 14 gennaio 1506 segna una data storica nell'arte del Rinascimento. Quel giorno fu scoperto il gruppo del Laocoonte, subito riconosciuto come il capolavoro assoluto celebrato da Plinio. Da allora si ebbe un'idea assai più vitale e sanguigna dell'antico, ne conseguì una maggiore libertà inventiva. La ricerca condotta sotto la direzione di Gemma Sena Chiesa esplora i riflessi che l'opera suscitò nei ducati di Milano e Mantova da tanto tempo ansiosi di confrontarsi con gli esempi dell'antico.
Se consideriamo la Lombardia fuori dei ducati, la prima eco del Laocoonte in questa regione è nel polittico Averoldi dipinto da Tiziano per Brescia nel 1522. Molti indizi indicano che Tiziano fu a Roma una prima volta nel 1511 e non, come spesso si afferma, nel 1545. Indirettamente a Venezia ci porta la presenza attuale del Laocoonte in Lombardia. Il calco in gesso appartenuto a Leone Leoni (1509-1590) è pervenuto alla Biblioteca Ambrosiana. Nel 1533 Leone era a Venezia, amico di umanisti e pieno di ammirazione per la raccolta di antichità del cardinale Grimani. Dopo un viaggio a Roma, ritornò a Milano con numerosi calchi di statue antiche, tra i quali probabilmente vi era già il Laocoonte. Quando Carlo V vinse i Luterani a Muhlberg, nel 1547, Leone fu incaricato di eseguire una grande statua di bronzo dell'imperatore da erigersi a Milano.
Il bronzo è esposto al Prado dove, chi ha in mente il Laocoonte, facilmente riconosce nella personificazione della Furia, ai piedi dell'eroe vittorioso, una stupenda variante del Laocoonte. Nelle placchette del Moderno, un artista veronese attivo a Mantova, lo spasimo del sacerdote troiano assalito dai serpenti è trasferito all'immagine del Cristo flagellato, attribuendo un senso sacrificale alla tragedia di Laocoonte. A questa intuizione era giunto precocemente Gaudenzio Ferrari, che in un affresco di Varallo Sesia collocò una lunetta con il sacrificio di Laocoonte sopra la porta del Palazzo di Pilato. L'interpretazione del mito più inaspettata è quella di Luigi Ferrari, in una scultura che fu esposta a Brera nel 1837 ed è oggi a Brescia, nella Pinacoteca Tosio Martinengo. Il sacerdote sembra quasi incurante del serpente che si avvinghia al suo braccio sinistro ed è invece inorridito alla vista di uno dei figli caduto a terra e già morto. Così il mito è divenuto un dramma familiare.
Spero che queste poche segnalazioni suscitino l'interesse per questo insolito percorso lombardo intorno ad un capolavoro antico conosciuto a Milano solo attraverso i calchi e i disegni. Soprattutto mi auguro che questa puntuale ricerca desti un senso di vergogna in una città che ha trascurato e in parte distrutto (vedi i vandalismi di Brera) il patrimonio storico di calchi dall'antico che si vantava di possedere.

da: Corriere della sera, 11 febbraio 2008, p. 35.

Alla «fortuna» in terra lombarda del capolavoro celebrato da Plinio è dedicato il volume «Laocoonte in Lombardia. 500 anni dopo la sua scoperta», a cura di Gemma Sena Chiesa con Elisabetta Gagetti, pubblicato da Viennepierre edizioni (via Cimarosa 3, Milano), pp. 254, euro 18.

venerdì 3 luglio 2009

Ogni scrittore copia. Che lo sappia o no

di Rabih Alameddine

Qualche tempo fa un lettore spedì al mio editore una lettera deliziosa. Il libro gli era piaciuto moltissimo, spiegava, tuttavia voleva assicurarsi che l'autore, io nello specifico, sapesse che una storia, una delle centinaia di storie del romanzo, somigliava a un episodio della vecchia serie televisiva Ai confini della realtà. Voleva che l'autore capisse che, nonostante il romanzo fosse a suo parere estremamente fantasioso, quella particolare vicenda non era originale.
La lettera mi spinse a considerare una contraddizione, a chiedermi perché molti di noi, come lettori, o forse come società, diamo per scontato che l' originalità nasca dal niente, anche se sappiamo che ogni idea, ogni storia, ha un precedente. Nei ringraziamenti del romanzo avevo scritto: «Un cantore di storie è per natura un plagiario. Ogni cosa in cui si imbatte, ogni avvenimento, libro, romanzo, fatto della vita, persona, notizia di cronaca è un chicco di caffè che sarà pressato, macinato, mescolato a una punta di cardamomo, insaporito con un pizzico di sale, caramellato con lo zucchero e servito sotto forma di racconto succulento».
Ogni storia del romanzo è influenzata da un'altra storia, forse non da un episodio di Ai confini della realtà, ma da un racconto venuto da un altro luogo. Ogni storia, in ogni luogo, è ispirata da un chicco di caffè. Ogni pianta germoglia da un seme.
Rodin diceva: «Non invento niente, riscopro». I drammaturghi greci narravano storie che la gente conosceva bene. Il pubblico di Shakespeare aveva sentito le trame delle sue tragedie, delle sue commedie e ovviamente dei suoi drammi storici ben prima di prendere posto a teatro.
Un autore originale è dotato di occhi nuovi e di una nuova penna. Grazie a quest'ultima abbiamo l' impressione che la storia che stiamo leggendo non sia mai stata raccontata prima. Quando affronta un grande libro, il lettore non pensa mai a quali possano essere state le influenze della storia; viene rapito, inghiottito in un nuovo universo. L'occhio del lettore si concentra su ciò che l'autore vuole che veda.
Critici e docenti di letteratura insistono sul fatto che un buon romanzo sa aprirci gli occhi. Raramente ci ricordano che sa anche accecarci. Influenzato dai suoi predecessori, Rodin può anche essersi limitato a riscoprire, ma ciò che vediamo è originalità allo stato puro, è qualcosa che non abbiamo mai visto prima.
Nell'introduzione a uno dei miei libri ho scritto: «Uno scrittore è originale quanto l' oscurità delle sue fonti». Non riesco a ricordare se avevo sentito qualcosa di simile prima o se era farina del mio sacco. Ho cercato su Internet e ho trovato una citazione di Benjamin Franklin: «L'originalità è l'arte di nascondere le fonti»: sapevo che questa citazione non aveva influenzato la mia perché non ho mai letto niente di Franklin. Ovviamente poteva trattarsi di un'influenza indiretta. Come una storia, un detto vola di bocca in bocca, distorto e riscoperto strada facendo, finché un giorno lo prenderemo per un detto nuovo e originale.
Sono intrigato dall' idea delle influenze, ovvie o meno ovvie, visibili o nascoste, e dalla trasformazione di queste influenze in qualcosa di nuovo. Una casa per Mr Biswas può essere rimbalzato direttamente da Balzac a Tolstoj e a Forster, ma rivolgendo l'attenzione agli immigrati, scrivendo di una famiglia del Terzo mondo, Naipaul ha inventato un nuovo modo di raccontare la storia.
Occhi nuovi. Un autore influenza un altro autore; a volte l'influenza è chiara e limpida, a volte no. Una storia influenza un'altra storia. Eppure ciò che mi interessa di più sono le influenze della vita reale.
L'infanzia di Naipaul a Trinidad, la fuga a Oxford, il rapporto con il padre sono motivi che ricorrono nei suoi romanzi. In che misura le storie della vita reale condizionano l'originalità? Se un autore usa un'esperienza reale come fonte principale, come seme, sarà originale quanto uno che non lo fa? Che cosa è più originale: Se una notte d' inverno un viaggiatore di Italo Calvino (romanzo non basato su alcuna riconoscibile esperienza vissuta), Una casa per Mr Biswas (romanzo basato sull' esperienza personale dell' autore - Nabokov lo chiama autoplagio!) o A sangue freddo di Truman Capote (non-fiction romanzata basata su fatti reali non inventati)? Occhi nuovi, in tutti e tre i casi.
Nessuno di questi autori ha nascosto le fonti. Benjamin Franklin dev'essersi sbagliato. Forse mi sbaglio anch'io. O forse no, chi può dirlo?
Henry James scrisse una volta: «Tutto a Firenze sembra colorato di un tenue violetto, come vino diluito». È una descrizione magnifica. Ma provate a immaginare questa scena, attenzione, è solo un' ipotesi. James cammina per le vie di Firenze. La pioggia lo ha costretto in casa per un bel pezzo. Terminato il pranzo, un uomo leggermente ubriaco esce da un'osteria stringendo ancora il bicchiere di vino (si rifiuta di separarsene). Scivola sul selciato bagnato e rovescia il vino, che si mescola con l'acqua delle pozzanghere a terra. Vino diluito, pensa James, ed è lo stesso colore della pietra che ricopre, lo stesso colore di Firenze, un tenue violetto.
La descrizione sarebbe ancora originale quanto lo sarebbe stata se non avessimo saputo come era nata nella mente di James?
In Microcosmi Claudio Magris descrive la Mitteleuropa come «il grandioso e malinconico laboratorio del disagio della civiltà». Straordinariamente acuto. Immaginate Magris da bambino, a otto anni, in casa. Il padre dice, «Ci trattano come bestie: le grandi potenze dell' Est e dell'Ovest giocano a fare la guerra sulla nostra pelle, ci usano come cavie». La madre siede al tavolo da pranzo, elegantissima ma disperatamente malinconica. Immaginate.
Quando Benjamin Franklin scrisse: «L'originalità è l'arte di nascondere le fonti», voleva fare una battuta di spirito, però si sbagliava. Uno scrittore non deve nascondere le fonti. Spesso non sa neanche quali siano, queste fonti. Per quanto mi riguarda, so per certo che tra le mie non c'è nessun episodio di Ai confini della realtà, ma se anche ci fosse, spero che io, e il lettore insieme a me, sapremmo guardarlo con occhi nuovi.

da: Corriere della sera, 30 giugno 2009, p. 36.

giovedì 2 luglio 2009

Lezione di Fo: quei Giotto sono falsi

di Giuseppina Manin
MILANO - Giotto o non Giotto... Questo è il problema. Dario Fo, amletico giullare e attento studioso di storia dell'arte, pone l'ardita questione: di chi sono realmente gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi? «Non di Giotto», risponde sicuro il premio Nobel ribaltando d'un colpo solo tutte le certezze tramandate dai libri di scuola e da miriadi di critici. «Il maestro di Bondone non è l'autore del ciclo delle Storie di San Francesco, ma solo dei dipinti della Basilica Inferiore, della magnifica Cappella della Maddalena», sostiene.
E per dimostrare la sua tesi Fo, a sua volta pittore di talento, porta in scena Giotto. Anzi, Giotto o non Giotto, come dice il titolo della lezione-spettacolo in due serate, giovedì e venerdì al Teatro Bonci di Cesena. «A dire il vero - precisa - questa anteprima avrebbe dovuto tenersi ad Assisi, proprio sul sagrato della Basilica o nel magnifico quadriportico sottostante. L'invito mi era arrivato direttamente dal sindaco di Assisi Claudio Ricci. E anche i frati francescani, con cui intrattengo ottimi rapporti dai tempi de Lo Santo Jullare Francesco, erano d'accordo».
Ma a mettersi di mezzo ecco che arriva, proprio come in un Mistero Buffo, un vescovo. Nel caso monsignor Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi. Saputo dello spettacolo, nega senza appello a Fo quella ribalta per proporre il suo Giotto «eretico». «Certo, il mio nome non è tra quelli con l'aureola... Certo ci sono scomode verità... Ma soprattutto quel divieto è un modo per la Chiesa di riaffermare la sua autorità sui frati. Proprio come ai tempi di Francesco. La storia si ripete».
La sacralità del luogo non c'entra. «Solo qualche settimana fa, in quello stesso spazio, lo stesso vescovo ha dato il benestare per uno spettacolo di varietà, ripreso dalla Rai, con Renato Zero e altri. Ma si sa, le canzonette non spaventano nessuno. Dimostrare pubblicamente che gli affreschi di Giotto non sono di Giotto, invece può infastidire molti». L'opinione in effetti è «scandalosa», ma condivisa, ricorda Fo, da studiosi come Bernard Berenson, Bruno Zanardi, Federico Zeri. «Ciascuno di loro pone seri dubbi sull'attribuzione a Giotto di quel ciclo. A mia volta, proseguendo su quella strada, ho scoperto altri indizi che confermano l'ipotesi».
Pitture di Giotto alla mano, proiettate su due grandi schermi, affiancate ad altri disegni realizzati da Fo a sostegno della sua narrazione, l'attore-autore illustrerà dettagli, confronterà immagini, stili pittorici. «E con l'aiuto dei "patroni", sagome-marionette usate dai pittori dell'epoca come base per gli affreschi, documenterò come quel ciclo su Francesco sia invece riconducibile a tre altri maestri del tempo: Cavallini, Rusuti, Arnolfo da Cambio».
Giotto no. «Giotto lì non c'è». Ci sarà invece, eccome, nelle pitture della Basilica Inferiore. «Dove lui rende omaggio a Maria Maddalena. Una figura che deve averlo colpito molto. Che tornerà in uno dei sublimi dipinti della Cappella degli Scrovegni, dove tra le Storie di Cristo Giotto fa comparire un bambino, rifugiato nelle vesti di un personaggio misterioso, spacciato sempre per un apostolo, in realtà, a ben guardare, proprio Maddalena. Quel bimbo è il figlio suo e di Gesù», azzarda Fo sulle orme di Dan Brown.
Giotto sì. E anche di più, nel secondo spettacolo. «Dove parleremo dei dipinti di Padova, agli Scrovegni, e di quelli di Firenze, in Santa Croce». Proprio nella piazza antistante quella splendida basilica, capolavoro del gotico, lì dove Benigni trionfò con il suo Dante, Fo racconterà il suo Giotto l'8 e il 9 sera. E quindi, il 24 e il 25 luglio, approderà a Perugia, a San Francesco in Campo. E se il giallo di Giotto non convincerà tutti, vale comunque ricordare Berenson: «Lasciamo che gli altri sciolgano il garbuglio. Noi godiamoci la sua irripetibile genialità».

da: Corriere della sera, 30 giugno 2009, p. 39.

Giotto, La cacciata dei mercanti dal tempio. Padova, Cappella Scrovegni