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mercoledì 14 ottobre 2015

Sironi & C., si può ripulire l’arte dalla storia?

di Luigi Marsiglia

Già all’indomani della marcia su Roma, con l’effettiva presa di potere e il conseguente assestamento in chiave governativa, la realizzazione di nuove opere pubbliche doveva rispecchiare la visione dell’Italia rappresentata dal Fascismo, quel generalizzato ritorno all’ordine insieme alla rivisitazione dei fasti imperiali e a un attivismo non soltanto simbolico, grazie proprio al compito primario incarnato dall’architettura, “regina delle arti” secondo l’opinione dello stesso Mussolini. Opere che comprendevano edifici pubblici e strutture funzionali al regime, Case del fascio, Case del balilla e delle corporazioni, oppure progetti ambiziosi atti a sintetizzare passato e futuro, civiltà italica e slancio avveniristico, come la bonifica dell’agro pontino con la fondazione di intere città concepite in stile razionalista, Littoria – ribattezzata nel 1946 col nome di Latina – e Sabaudia su tutte.
Un’architettura magniloquente la quale, caratteristica comune alle dittature, si riproponeva a mo’ di riflesso celebrativo, tangibile e immediatamente intelligibile delle vittorie, assolute e in divenire, del fascismo. Da una parte l’imponenza di costruzioni contraddistinte da linee severe, dall’altra l’arte figurativa con un ruolo spesso didascalico, rigido e poco autonomo, che subentrava nel programma decorativo per immortalare in modo diretto l’epica del Duce e i destini gloriosi dell’impero risorto sui colli fatali di Roma. Molteplici opere di grandi dimensioni trovano così spazio nei maestosi saloni di rappresentanza dei palazzi disegnati dagli architetti razionalisti. Si tratta di affreschi, pitture murali e mosaici, di sculture e bassorilievi classicheggianti firmati dai più conosciuti - e riconosciuti - esponenti di quell’arte nazionale che annoverava, al proprio interno, personalità con differenti storie e una più o meno provata fede fascista.
Il caso dell’affresco allegorico L’Italia tra le arti e le scienze, realizzato nel 1935 da Mario Sironi (1885-1961) nell’aula magna della nuova cittadella universitaria di Roma, caso sollevato e discusso in questi mesi dalle pagine di “Avvenire”, ha riportato alla ribalta l’operazione di “defascistizzazione” che colpì, in maniera incisiva o lieve, quasi tutti gli interventi marcatamente ideologici eseguiti durante il ventennio: un provvedimento censorio posto in atto dopo la Liberazione. Toccò nel 1947 a Carlo Siviero, pittore agli antipodi del novecentista Sironi, il compito di cancellare dall’opera simboli e riferimenti del Ventennio: il risultato è l’affresco come lo scorgiamo oggi, ben poco “sironiano”. In occasione del restauro che si concluderà nel 2016, si è innescata la querelle se procedere e recuperarlo così com’è, oppure ripristinarne laddove possibile la versione precedente, più aderente alla visione dell’autore. Una questione di valenza storico-estetica, che deve comunque tener conto della diversità degli artisti partecipanti ai cicli decorativi dei palazzi del fascismo e i destini, altrettanto diversi, subiti dalle loro opere dopo il 25 aprile 1945.
Paradigmatico, in tal senso, è il mosaico sempre di Sironi Il lavoro fascista, titolo cambiato successivamente in L’Italia corporativa, eseguito nel 1936 per una sala del Palazzo dell’informazione di Milano, in cui si stampava all’epoca “Il Popolo d’Italia”. Caduto il fascismo, il mosaico fu semplicemente coperto da un telo, lasciando che il tempo ne logorasse tessere e colori. Fu il critico Agnoldomenico Pica a insistere perché L’Italia corporativa venisse di nuovo resa accessibile al pubblico.
Destino meno avverso ma non meno polemico per l’affresco del 1937 di Primo Conti (1900-1988) in un’aula del Palazzo di Giustizia di Milano, dove campeggia la scritta “La legge è uguale per tutti”. L’opera riporta il Cristo in trono attorniato dai potenti della terra, tra cui in prima fila e a figura intera Mussolini. La Giustizia del cielo e della terra, questo il titolo, fu oggetto di aspre critiche già prima dell’inaugurazione, quando qualche gerarca fece notare l’ambiguità della presenza del Duce tra i “giudicabili” al cospetto del trono divino. Difeso da Bottai, Grandi e Piacentini, l’affresco riuscì a scampare alla minaccia di completa scialbatura, mentre a guerra conclusa il ritratto di Mussolini verrà ricoperto da un vistoso strato di vernice, fino al restauro nel 2008. E, col ripristino, tornano le polemiche per la ricomparsa del Duce in tribunale.
Corrado Cagli (1910-1976), sostenitore con Sironi del muralismo, a fine anni Venti completa a Umbertide, in casa Mavarelli-Reggiani, un affresco di 60 metri sulla Battaglia del grano. Nel 1935, l’Opera Nazionale Balilla gli commissiona due pitture murali per la propria sede, l’edificio di Castel de’ Cesari a Roma. Una delle opere rievoca La corsa dei barberi, argomento ritenuto poco adeguato dalle autorità che ne ordinano l’immediata distruzione. Un esempio conclamato, in questo caso, di autocensura fascista. Con le leggi razziali del ’38 Cagli, nipote dello scrittore e saggista Massimo Bontempelli, è costretto a fuggire dall’Italia: si arruola nell’esercito americano e partecipa allo sbarco in Normandia.
Luigi Montanarini (1906-1998) esegue nel 1936 la pittura murale Apoteosi del Fascismo nel Salone d’onore del Coni al Foro italico, proprio alle spalle del tavolo della presidenza; qui, oltre a fasci e simboli vari del ventennio, compare uno statuario Mussolini ad arringare la folla di camicie nere. Invece di essere “defascistizzata”, che voleva dire in effetti la sua totale abrasione, l’opera è stata coperta fino al 1997 da un panno verde con impressi i cerchi olimpici: il suo svelamento ha trascinato con sé un’ondata di polemiche. Una dimostrazione di quanto sia necessario – e arduo – fare i conti con la storia, più che con l’arte.

da: Avvenire, 1 ottobre 2015

«Ecco la scuola che farei»

di Renzo Piano

Se dobbiamo costruire nuove scuole, meglio farle in periferia, e lo stesso vale per gli ospedali o gli auditorium. Questa è la scommessa dei prossimi decenni: trasformare le periferie in pezzi di città felice. Come fare? Disseminandole di luoghi per la gente, punti d’incontro e aggregazione, dove si celebra il rito dell’urbanità. Fecondando con funzioni pubbliche quello che oggi è un deserto affettivo. La città che funziona è quella in cui si dorme, si lavora, ci si diverte e soprattutto si va a scuola. Dico soprattutto perché mentre si può decidere di non visitare un museo, sui banchi di scuola ci devono passare tutti. Occuparsi di edifici scolastici è un rammendo che, ancora prima che edilizio, è sociale. Qui infatti si condividono i valori. Poco più che un anno fa sul Domenicale Franco Lorenzoni, un maestro che incarna l’innovazione della pedagogia, ha lanciato la sfida nell’articolo «Cari architetti, rifateci le scuole!». L’ho chiamato, siamo diventati amici e abbiamo lavorato, assieme a Paolo Crepet, a un nuovo modello di scuola su tre livelli.
Il piano terra è la connessione con la città, il primo quello che ospita gli spazi di studio e il tetto è il luogo della libertà e dell’esplorazione. Dell’emotività recuperata, dopo tanti edifici che assomigliano a caserme o magazzini. Troppo spesso la scuola, come scriveva Maria Montessori, è stata l’esilio in cui l’adulto tiene il bambino fino a quando è capace di vivere nel mondo dei grandi senza dar fastidio.

Il piano terra

Il nostro piano terra sarà permeabile e trasparente. Abbiamo pensato di sollevarlo dal terreno in modo che la città possa entrare, che l’edificio diventi un luogo di scambio e connessione con il quartiere. Al centro c’è un giardino con un grande albero sul quale si affacciano la palestra-auditorium, la sala prove, i laboratori dove i ragazzi si incontrano con associazioni e abitanti. Ci sono tanti pensionati che non aspettano altro che insegnare ai ragazzi a suonare il flauto, a seminare il grano, a recitare o giocare a scacchi. La scuola nasce intorno all’albero che è anche metafora della vita: d’autunno le foglie cambiano colore e cadono lasciando penetrare la luce del sole, ogni primavera si assiste al rito del rinnovamento. Con la chioma di un platano o un ippocastano che rinasce e protegge dai raggi. Poi i suoi rami ospitano gli uccelli che cercano una natura protetta: storni, tortore, pettirossi, rondini durante le migrazioni. Guardare l’albero riserva sorprese, non è mai uguale al giorno prima.
Sempre dal livello terra si alza la torre dei libri, così abbiamo chiamato la biblioteca che sale fino alla terrazza ed è aperta a tutti. Sarà una biblioteca con un’ampia collezione di libri cartacei e tanti sistemi virtuali. Ma è anche il luogo dove si conserva la memoria della scuola: dove si accumulano i disegni, gli scritti e i ricordi degli alunni. Sappiamo tutti quanto è difficile buttare via i lavori dei bambini, primi segni della creatività. In questo edificio le tracce non si buttano, si custodiscono. La scuola deve vivere per molte più ore rispetto a quelle richieste per la didattica. Si possono immaginare spazi in uso agli scolari fino al pomeriggio e poi aperti alla città fino a tarda sera, così come durante i fine settimana. Vale per la palestra, il laboratorio-bottega, la biblioteca, la cucina.
Questo è il piano dove piccoli e grandi formano l’attitudine allo scambio, dove si imparano ad apprezzare le diversità e si sviluppa la solidarietà.

Una scuola sostenibile

Qualche tempo fa mi ha scritto un gruppo di studenti chiedendo una scuola diversa: «Ogni scuola dovrà essere un presidio di sostenibilità…». Ecco questa parola è importante, lo stesso edificio deve trasmettere un messaggio sul piano didattico: si costruisce con leggerezza, si risparmiano risorse e i materiali si scelgono tra quelli che hanno la proprietà di rigenerarsi in natura. Quindi nel nostro edificio abbiamo deciso di usare il legno, che non è solo bello, sicuro, antisismico e profumato: è innanzitutto energia rinnovabile. Basta piantare alberi per garantire la sostenibilità del progetto: nel giro 20 o 30 anni, dipende dall’essenza, si ha di nuovo l’equivalente del legno usato. Per ogni metro cubo di legno impiegato ci vuole una giovane pianta. Il lavoro lo fanno poi la pioggia, il sole e la terra. Si possono creare boschi e spiegare ai ragazzi che il legno usato per la loro scuola, in questo caso 500 metri cubi, è stato sostituito da quella piccola foresta di 500 alberi. In ogni regione nasceranno così nuovi boschi, in base alle essenze del territorio.
Nella nostra scuola abbiamo pensato poi alla geotermia per riscaldarla o rinfrescarla e ai pannelli fotovoltaici per produrre energia elettrica, dovrà comunque consumare pochissimo. Franco Lorenzoni ha avuto l’idea di collocare nell’atrio dei contatori giganti che mostrino ai ragazzi quanta energia si consuma e quanta se ne produce.

Il primo piano

Saliamo al primo piano dove ci sono invece le aule che guardano sul giardino interno e si guardano tra loro. La scuola ospita una classe per ogni fascia d’età dai 3 ai 14 anni, quindi i cicli della materna, delle elementari e delle medie. Pensiamo che la condivisione di alcuni spazi tra grandi e piccoli sia importante per creare un continuo scambio di esperienze. Infatti non abbiamo previsto corridoi di passaggio ma luoghi abitati dove incontrarsi. Nel caso dei bambini più piccoli le aule, luminose, spaziose e con compensati appesi dove attaccare di tutto, si aprono con grandi vetrate su un loro giardino “privato”, un terrapieno che “vola” fino alla quota del primo piano. Un ambiente dove sono liberi di sporcarsi, giocando con la sabbia, terra, erba, foglie, sassi e rametti.

Il tetto

Infine si sale sul tetto che abbiamo pensato come il luogo della libertà, della scoperta, dell’invenzione e del sogno. Della fuga dalla città. Da sempre il tetto esercita un fascino sui bambini, perché ha qualcosa di proibito e avventuroso. Poi dal tetto, anche se non sarà più alto di 12 metri, cambia la prospettiva con cui ci si guarda intorno. Come nell’Attimo fuggente quando Robin Williams fa salire i ragazzi sui banchi perché le cose vanno viste da angolazioni diverse. È proprio in quegli anni che si formano i desideri che ci accompagneranno tutta la vita.
Se il piano terra è il luogo dello scambio con gli altri, il tetto è dove il bambino coltiva il suo immaginario personale. Sul tetto si scopre la luce, c’è l’orto dove crescere le verdure, ci sono gli animali come le galline o la capra. Questo tetto restituisce emotività a un luogo dove stanno i bambini ai quali, come dice Paolo Crepet, oggi manca soprattutto l’affettività.
Immaginiamo il tetto come un grande workshop a cielo aperto, con pergole che ombreggiano laboratori di botanica, di scienze o di astronomia elementare. Qui ci sarà la macchina eliotermica che cattura l’energia solare. Questa terrazza sarà anche un osservatorio meteorologico: si possono studiare le stagioni, annotare i millimetri di pioggia caduta, la temperatura. Con un telescopio i bambini scopriranno i pianeti, la Luna e le galassie. Da qui il loro sguardo può spaziare verso l’infinito, perché i bambini pensano grande.

da: Il Sole 24 Ore. Domenicale, domenica 11 ottobre 2015

mercoledì 15 luglio 2015

Bergamo ritrova l'Accademia Carrara e cerca spazio per la GAMeC

di Marco Adriano Perletti


Il ritorno dell’Accademia Carrara
Il 23 aprile scorso è stata riaperta la pinacoteca di Bergamo, l’Accademia Carrara, e dopo sette lunghi anni di chiusura la città ha potuto rivedere con grande gioia uno dei suoi spazi museali più amati. In un paese come l’Italia che, seppur dotato di un ricco patrimonio, è spesso portato alle cronache per episodi d'incuria, degrado o sottoutilizzo dei propri tesori artistici e culturali, la notizia della riapertura di uno storico museo depositario di autentici capolavori dell’arte è degno certamente della migliore attenzione. Una folla da grandi occasioni ha accompagnato la cerimonia d'apertura, alla presenza delle autorità cittadine e salutata dai messaggi augurali del presidente della Repubblica e del ministro ai Beni culturali. Le celebrazioni sono proseguite per tre giorni, con l'apertura gratuita del museo e un caleidoscopio di manifestazioni e iniziative collaterali che hanno ravvivato l'intero borgo di San Tomaso. A completare l'evento, sull'altro lato di piazza Carrara, la mostra dedicata a Palma il Vecchio negli spazi della GAMeC ha offerto l'occasione di approfondire la conoscenza di uno degli artisti più celebrati nella Venezia rinascimentale, attraverso capolavori provenienti da grandi musei europei.
La riapertura del museo bergamasco è il lieto epilogo che conclude un lungo percorso progettuale, avviato agli inizi degli anni 2000 e proseguito con le varie fasi di cantiere. Ripercorriamo le tappe più significative, partendo dalle origini di quella che nel corso del Novecento è diventata una delle istituzioni più importanti della città.

Dagli inizi al terzo millennio
Se oggi Bergamo può annoverare fra il suo patrimonio culturale una prestigiosa pinacoteca, lo si deve principalmente all’illuminato conte Giacomo Carrara (Bergamo 1714-1796), il generoso intenditore e mecenate che offrì alla città la sua preziosa collezione, fondò l’Accademia di belle arti ancor oggi attiva a fianco del museo, diede a queste istituzioni una giusta dimora architettonica. All’iniziale sede settecentesca seguì il progetto d'inizio Ottocento di Simone Elia, al quale si deve il caratteristico e distintivo fronte neoclassico, ancor oggi autentico emblema dell’Accademia Carrara che fronteggia l’omonima piazza e che raggruppa dietro al suo rigoroso ordine architettonico un insieme composito di corpi edilizi.
Nel tempo il corpus originario della collezione Carrara si è arricchito dei contributi di oltre 240 donatori – tra i quali meritano d’essere ricordati per il loro notevole lascito Guglielmo Lochis, Giovanni Morelli e Federico Zeri – arrivando oggi a contare quasi 1.800 dipinti, 3.000 disegni, 130 sculture, 1.300 libri antichi, oltre a un numero rilevante di oggetti d’arte vari e fondi grafici. Fra le opere custodite dal museo bergamasco ci sono capolavori che hanno segnato la storia dell’arte italiana di autori quali Baschenis, Giovanni Bellini, Bergognone, Botticelli, Canaletto, Carpaccio, Cima da Conegliano, Donatello, Fra’ Galgario, Lorenzo Lotto, Andrea Mantegna, Giovan Battista Moroni, Raffaello, Piccio, Pisanello, Pellizza da Volpedo, Tiepolo, Tiziano. Dopo un primo periodo di amministrazione privata successivo la morte del conte, nel 1958 la collezione dell’Accademia Carrara è passata sotto la gestione pubblica del Comune di Bergamo divenendo, a tutti gli effetti, una rinomata istituzione civica collegata alla scuola d’arte.
Nel corso del Novecento si sono susseguiti interventi di ammodernamento dei corpi edilizi originari: ma, per la continua crescita del proprio patrimonio artistico e per adeguare gli spazi museali alle evidenti mutate esigenze espositive, all’inizio del terzo millennio l’amministrazione comunale ha avviato un complesso progetto di restauro e adeguamento funzionale dell’intero edificio, che ha portato al protrarsi della chiusura al pubblico fino allo scorso 23 aprile.

Un progetto ambizioso
L'intervento di restauro e adeguamento dell'Accademia Carrara è stato sviluppato da un team coordinato da Aimaro Isola e Luca Moretto: dal 2002 sono state valutate tre soluzioni progettuali, l'ultima delle quali è giunta alla fase esecutiva di cantiere nell’autunno 2008. La soluzione prescelta adegua l'antico edificio dal punto di vista funzionale e strutturale, operando consistenti consolidamenti statici, il restauro delle facciate e degli interni e, senza stravolgere l'antica fabbrica, integrando un'anima tecnologica complessa necessaria per rendere gli spazi della pinacoteca rispondenti agli standard di qualità impiantistica ormai imprescindibili.
L'intervento più radicale ha interessato la «barchessa» occidentale (uno dei due corpi di fabbrica che si protendono verso la piazza), letteralmente svuotata dalle preesistenti strutture, e la cosiddetta «manica lunga», il corpo che collega il museo alla scuola d'arte in cui è stato attuato un sofisticato consolidamento delle fondazioni mediante micropali, il consolidamento delle murature perimetrali e il rifacimento della copertura, con l'eliminazione dei precedenti lucernari.
Se a sud sono state rigorosamente conservate le facciate verso la piazza, sul lato nord è stato aggiunto all'organismo architettonico un nuovo fronte, rivolto verso il giardino interno che confina con la scuola d'arte: una sorta di quinta tecnologica che cela un'intercapedine di distribuzione degli impianti. L'addizione del nuovo prospetto costituisce la parte dell'intervento più integrale e rinnova completamente l'affaccio nord del corpo centrale, mai del tutto compiuto e interessato da superfetazioni accumulatesi nel tempo. La nuova quinta si presenta come un fronte muto in mattoni, il cui disegno riprende un partito architettonico classico che riecheggia le proporzioni dell'Elia, dietro al quale scorrono silenziose e invisibili le articolate condutture impiantistiche che dalle centrali al piano tecnologico interrato servono tutto l'edificio. Evitando ingombri e impatti visivi all'interno del museo, la nuova facciata si mostra oggi palesemente con la sua trama di corsi in laterizio, anche se nelle intenzioni dei progettisti dovrebbe essere ricoperta da vegetazione rampicante, mimetizzando l'artificio architettonico a favore di una natura dialogante con il giardino. Soprassedendo sulle volontà mimetiche dei progettisti, ora la grande parete di laterizio si mostra senza timore reverenziale, e senza foglie d'edera, con omogenea matericità. I 40 metri di lunghezza della superficie di laterizio sono interrotti sull'asse centrale dal portale ad arco del piano terra e dal contrappunto procurato dalla trasparente leggerezza di un «cubo» di vetro che, fuoriuscendo dalla galleria espositiva del piano superiore, ne perfora la continuità. Quest'artificio permette di guardare dall'alto il giardino e il fronte dell'Accademia di Belle arti e consente, come mai in precedenza, un dialogo fisico e concettuale fra il museo e la scuola – le due facce della medesima medaglia voluta da Giacomo Carrara –, generando un riuscito gioco di reciproche prospettive. Molto meno convincente appare invece la soluzione riservata al rivestimento del vano che racchiude scale e ascensori, sempre sul lato nord dell'edificio, formato da una pelle metallica in pannelli di lamiera stirata di alluminio, (volutamente) avulsa rispetto sia all'edificio storico sia alla nuova quinta tecnologica.
Non senza imprevisti di percorso, il cantiere si è protratto fino al 2013 e ha permesso di riconsegnare alla città un organismo edilizio restaurato e consolidato in tutte le sue parti, mancante solamente della sua nuova anima interna, ovvero di un allestimento museografico in grado di accogliere degnamente il ritorno dei preziosi tesori d'arte della pinacoteca.

Il nuovo allestimento
Mentre il restauro volgeva al termine, nel 2012 è stato avviato il progetto del nuovo allestimento degli spazi espositivi, curato da Attilio Gobbi in collaborazione con Gabriella Mastroleo e Tullio Imi con la consulenza di Pietro Palladino per gli aspetti illuminotecnici e Sandro Mascheroni per gli impianti tecnologici. Il progetto d'interni ha potuto beneficiare del finanziamento della Fondazione Credito Bergamasco ed è stato sviluppato a stretto contatto con l’amministrazione e le commissioni museografica e interassessorile del Comune, le Soprintendenze e la stessa Fondazione finanziatrice.
Il nuovo concept museale ha attuato alcune soluzioni inedite, come la riuscita scelta di destinare l'intero piano terra a funzioni di servizio e complementari - quali l'ingresso/biglietteria, il guardaroba, il bookshop, i locali per la didattica e i supporti audiovisivi –, dedicando i soli piani superiori agli spazi espositivi. Questi sono stati sensibilmente ampliati e consentono ora di poter esporre più di 600 opere, comprese sculture e bassorilievi, ossia il 30% in più rispetto al precedente allestimento. Le opere sono disposte in 28 sale organizzate su due piani secondo un percorso che segue una linea cronologica e tematica che abbraccia secoli di storia dell'arte, dal Quattrocento all’Ottocento, e che considera le principali scuole pittoriche italiane senza dimenticare alcune testimonianze provenienti dall'Europa.
L'allestimento ha un carattere «architettonico» che lo contraddistingue tuttavia senza entrare in contrasto con la natura storica dell'involucro: accurato controllo degli elementi formali, cromatici, materici e puntuale studio dei fondamentali aspetti illuminotecnici. Gli spazi si sviluppano in sequenza, alternando stanze differenziate secondo un repertorio di quattro diverse soluzioni, ognuna pensata per stimolare un diverso livello di attenzione e di stato d'animo del visitatore. Molto riuscite le scelte cromatiche per le pareti delle sale, con tinte non sature di varie tonalità di grigio che permettono di apprezzare maggiormente la percezione dei dipinti, come anche il sofisticato sistema di illuminazione a LED ad alta resa cromatica, privo di raggi UV e infrarossi, che illumina uniformemente le pareti delle sale o, in altri casi, direttamente le opere esposte.
La non facile sfida della nuova Carrara ha permesso di dar forma a uno spazio museale che contempera esigenze di attualizzazione e capacità di costruire una stimolante narrazione in grado di restituire, attraverso i capolavori artistici selezionati, cinque secoli della nostra storia. E il successo di pubblico senza precedenti in occasione della riapertura del museo non può che essere la testimonianza della passione e dell'affetto che il ritorno dell'Accademia Carrara ha saputo suscitare nell'animo dei bergamaschi.

Quale sarà il destino della GAMeC
Il sistema dei musei d'arte del Comune è essenzialmente costituito dall'Accademia Carrara e dalla Galleria d'arte moderna e contemporanea (GAMeC), che si completano vicendevolmente. La seconda, dedicata all'arte dal Novecento in qua, è nata nel 1991 ed è attualmente ospitata in via San Tomaso, proprio di fronte all'Accademia, nell'edificio di origine quattrocentesca – già monastero delle Dimesse e delle Servite poi traformato nella caserma Camozzi – che è stato restaurato e rifunzionalizzato su progetto di Gregotti Associati. Nei suoi 1.500 mq di spazi espositivi, dall'apertura a oggi Gamec ha ospitato numerose mostre di arte antica, moderna e contemporanea, oltre a essere la sede di un'importante collezione permanente, principalmente formata dalle raccolte Spajani e Stucchi e dalla collezione Manzù.

Ristrettezze spaziali
Da tempo GAMeC fa parlare di sé non solo per gli eventi artistici che ospita ma anche per il dibattito scaturito attorno alle ipotesi di spostamento della sua sede. Che gli spazi di via San Tomaso siano ristretti e non siano adatti per allestimenti di arte contemporanea, che notoriamente abbisognano di strutture più generose e diversamente articolate, è un fatto noto.
Ma, a parte i limiti dello spazio fisico, il ruolo e l'importanza che un'istituzione come Gamec ricopre ormai stabilmente nella città richiedono un potenziamento, come ricordato in varie occasioni dal presidente Alberto Barcella. La carenza attuale, già manifesta negli ultimi anni, lo sarà ancora di più nel futuro, sia per gli allestimenti temporanei sia per la Collezione Permanente. Quest'ultima è oggi esposta in uno spazio angusto che limita anche la possibilità di acquisire nuove donazioni,, che è sottodimensionato al pari degli spazi per la conservazione delle opere, non adeguati alla caratura del museo. A queste carenze 'strutturali', si devono aggiungere anche le limitazioni temporali: l'edificio di via San Tomaso infatti è proprietà del Comune di Bergamo e l’uso da parte di GAMeC è regolato da una convenzione che stabilisce, tra l'altro, che ogni anno gli spazi espositivi devono essere messi a disposizione dell’Accademia Carrara per l'allestimento di mostre temporanee, come nel caso dell'evento attualmente in corso e dedicato all'opera di Palma il Vecchio.
Un altro aspetto critico da considerare, e che forse ai più sfugge, riguarda il fatto che un'istituzione come GAMeC ha una propria 'mission' culturale a cui rispondere e che le impone di promuovere l’arte contemporanea, in tutte le sue forme, con un coinvolgimento e un’apertura verso la città che richiede e invoca contaminazioni con le altre espressioni artistiche, come ad esempio il cinema, il teatro, la musica. E questo aspetto, di conseguenza, invoca la disponibilità di spazi multifunzionali che attualmente non ci sono. La funzione di un museo che si vuole calare nella contemporaneità, sia dal punto di vista del tempo in cui si colloca sia delle forme artistiche a cui si rivolge, non può limitarsi a essere mero luogo d'esposizione ma dev'essere evidentemente un luogo d’incontro aperto alla collettività, funzione che evidentemente implica disponibilità di spazi che attualmente hanno limiti condizionanti.

Molte ipotesi, nessuna certezza
Attorno alla ricollocazione di GAMeC negli ultimi sette anni si sono susseguite varie ipotesi, tutte peraltro pertinenti e stimolanti, alle quali nella storia recente se ne sono aggiunte altre. Vediamole nel dettaglio.
1) La previsione del PGT. Lo strumento di pianificazione locale, approvato nel 2009 e ancora vigente, definiva un ampio «ambito strategico», denominato AS_1 (polo dell'arte, della cultura e del tempo libero), nel quale si prevede, tra i vari indirizzi di piano, il potenziamento del sistema museale cittadino con la conferma e l'ampliamento degli spazi dell'Accademia e della GAMeC. A oggi l'AS e i relativi ambiti di trasformazione previsti al suo interno, non hanno visto attuazione e rimangono comunque un possibile sfondo di coerenza pianificatoria per alcune delle ipotesi di progetto che, come vedremo, interessano proprio quest'ambito.
2) Il riuso della caserma Montelungo/Colleoni. La rifunzionalizzazione dell'ex presidio militare limitrofo al parco Suardi e ricadente nel citato AS_1 ha costituito, ancor prima dell'approvazione del PGT, un'accreditata ipotesi per il potenziamento del sistema Carrara/GAMeC. Da anni ridotta in stato di penoso abbandono, il riuso dell'ex caserma a scopo culturale era al centro di una proposta presentata nel 2008 su iniziativa di un gruppo di architetti bergamaschi (Walter Barbero, Giuseppe Gambirasio, Giorgio Zenoni) che con un intraprendente progetto avevano sviluppato l'idea di realizzare un «Parco della cultura» multifunzionale, relazionato con il contesto urbano e museale esistente. Lo studio proponeva una soluzione architettonica e funzionale per la conversione dell'intero isolato dismesso: come una sorta di «Politecnico delle arti», l'organismo rifunzionalizzato avrebbe dovuto comprendere anche spazi per la musica, la danza, il teatro, la letteratura, abbracciando le istituzioni museali già presenti nei vicini borghi storici di San Tomaso e Pignolo (vale a dire l'Accademia Carrara, la GAMeC e il Museo Bernareggi), operando una strategia riqualificativa sinergicamente estesa alle parti urbane limitrofe. Tuttavia, dopo l'accordo stretto qualche mese fa dal Comune con l'Università di Bergamo per convertire le ex strutture militari in residenza studentesca e servizi complementari (e oggetto di un bando di concorso lanciato lo scorso 11 maggio da Cassa depositi e prestiti, Comune e Università), l'ipotesi culturale pare abbia perso terreno, anche se per alcuni strenui sostenitori rimane la soluzione migliore per il futuro di GAMeC.
3) Il riuso degli ex Magazzini generali. La rigenerazione dell'area di prima periferia occupata dai dismessi Magazzini generali è l'ipotesi più concreta fra quelle oggi note, in quanto permetterebbe di ricavare gli spazi espositivi della GAMeC con un'operazione finanziata interamente dalla Fondazione UBI Banca per il consistente importo di 4,5 milioni. Il progetto porta la firma dello studio Traversi + Traversi e configura il recupero di un edificio produttivo con rifunzionalizzazione completa di un'area che è già di proprietà dell'istituto bancario. Al suo interno, a fianco della conversione dell'edificio da destinare a museo, verrebbero realizzati anche altri spazi per attività di formazione dello stesso istituto di credito, oltre a un auditorium e funzioni complementari. Il progetto era stato caldeggiato dalla precedente amministrazione Tentorio, mentre l'attuale amministrazione Gori ha avanzato delle riserve, in particolare riguardanti la viabilità e relativi problemi di compatibilità delle nuove funzioni, anche se a oggi il Comune non ha espresso una posizione ufficiale definitiva, lasciando aperta la possibilità di perseguire questa soluzione. Dal punto di vista tecnico, il progetto soddisfa le necessità espositive di GAMeC, come confermato dal presidente Barcella, e dal punto di vista economico verrebbe realizzato senza l'impegno di risorse pubbliche. Per contro, la posizione periferica dell'area non sembra di certo delle migliori in quanto è situata in un contesto a cui sono connesse anche le aree del decaduto piano di Porta Sud (leggi l'approfondimento all'interno del focus dedicato a Bergamo), che presenta diversi settori da riqualificare ed è - a oggi - mancante di una strategia di fondo.
4) Il riuso del palazzetto dello sport. Anche questa è un'ipotesi che coinvolge un edificio esistente ricadente nell’ambito strategico del polo dell'arte e della cultura/AS_1 ed è stata ventilata dall'attuale amministrazione comunale negli ultimi mesi. Il palazzetto dello sport è una struttura sportivo-polifunzionale localizzata a poca distanza dall'attuale GAMeC, di lato al parco Suardi e all'ex caserma Montelungo/Locatelli. L'edificio ormai datato abbisogna d'interventi di sistemazione e ammodernamento anche se venisse mantenuta l'attuale destinazione funzionale, ma offre una superficie in grado di soddisfare le esigenze di spazio di un museo d'arte contemporanea. Inoltre, la sua posizione garantirebbe le positive sinergie con le altre presenze museali della zona. A differenza del progetto per gli ex Magazzini generali, il lato debole sta nell'aspetto economico dell'operazione che, oltre a non godere di risorse private, implicherebbe la realizzazione un nuovo palazzetto in un'altra area della città. I due aspetti, non proprio positivi, lasciano intendere che questa soluzione potrebbe incontrare non poche difficoltà, anche se per ora rimane una delle possibili alternative.
5) Il riuso della Casa della libertà. L'edificio littorio progettato da Alziro Bergonzo alla fine degli anni 30 gode di un'invidiabile posizione centrale, nell'area del centro piacentiniano, ed è prospiciente Piazza della libertà al di sotto della quale è ricavato uno dei parcheggi pubblici più capienti di Bergamo. Attualmente è solo parzialmente utilizzato come sede di uffici pubblici e, al piano terra, come auditorium. Lo caratterizzano ampi spazi monumentali ove potrebbero prender posto, a fianco di GAMeC, anche eventuali attività complementari. La proprietà attuale non è comunale ma demaniale, e questo potrebbe determinare qualche problema, a cui si deve aggiungere che vi è già l'ipotesi d'insediarvi la Prefettura, trasferendola dall'attuale sede di via Tasso.
Come si può notare, le ipotesi sul tavolo sono molte, forse troppe. E, nell'incertezza del momento attuale, in attesa che il Comune sciolga le sue riserve non resta che auspicare che il futuro della Gamec si possa presto palesare. In ogni caso, qualsiasi soluzione venisse infine attuata, dallo spostamento della GAMeC dall'attuale sede beneficerebbe anche l'Accademia Carrara (che potrebbe finalmente utilizzare a tempo pieno gli spazi dell'ex convento aumentando le proprie potenzialità), e quindi l'intero sistema dell'arte di Bergamo.

da: Il Giornale dell'architettura, edizione on line, 19 maggio 2015

domenica 8 febbraio 2015

Un esercito di batteri salva la regina

Dopo 5 anni e 2,8 milioni di euro, sta per concludersi il complesso restauro dell’immensa (500 mq) Cappella di Teodolinda nel Duomo di Monza, gioiello del Gotico internazionale

di Barbara Antonetto

Le Storie di Teodolinda nel Duomo di Monza rappresentano l’espressione somma della raffinatezza del Gotico internazionale, eppure «quello che vediamo non è che la stesura di base di ciò che fu. Nel caso della Cappella di Teodolinda, più che in altri, c’è una distanza abissale tra come l’opera si presenta oggi e come doveva proporsi all’origine. Queste pitture, che lasciano a bocca aperta per la loro preziosità, erano ben più ricche; in sostanza si è conservata la preparazione su cui i pittori della bottega Zavattari avevano steso per pennellate, a volte corpose, a volte più trasparenti, uno strato di uno-due millimetri di colore abraso da drastiche puliture di restauratori del passato, inconsapevoli dei danni irreversibili che producevano. Le zone a fondo oro, le uniche rimaste inalterate, si accordavano a una pittura brillante e lucida, con un effetto quasi specchiante, ottenuta tramite finiture in lacca e una verniciatura simile a quella dei dipinti su tavola del Quattrocento lombardo. La superficie pittorica era impreziosita da una profusione di oro, argento, resinati di rame, lamine metalliche, lapislazzuli e malachite che dovevano proporre bagliori fulgenti. Era anche lavorata plasticamente per ottenere un effetto tridimensionale tramite le applicazioni in pastiglia, un composto di gesso e colla con cui vennero realizzati a rilievo le bardature dei cavalli, le corone, gli scettri, le trombe, i bordi delle vesti e le estese decorazioni geometriche. Di tutto ciò non rimangono che piccole testimonianze, in alcuni casi dettagli infintesimi non visibili a occhio nudo ma individuati con la fluorescenza ultravioletta e resi leggibili con il restauro: tracce di broccati e di damaschi, finti marmi, perfino le impronte degli scoiattoli e delle lepri su un prato alla fiamminga che ora pare un’opera metafisica più che rinascimentale».
A spiegare perché a proposito del restauro della Cappella di Teodolinda non si può fare appello all’abusato «ritorno all’antico splendore» è Anna Lucchini, che lavora dal 2009 sulle pitture delle pareti e della volta con sette collaboratrici e sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni storici e artistici di Milano nelle persone di Emanuela Daffra e Simonetta Coppa. Ora i lavori, che sono stati preceduti da un anno di indagini diagnostiche coordinate dall’Opificio delle Pietre Dure, sono in fase di ultimazione e si può salire sui ponteggi previa prenotazione.
A Monza Franceschino, figlio di Cristoforo, fondatore della dinastia milanese degli Zavattari attiva per tutto il Quattrocento, diresse con i figli, Giovanni, Gregorio e Ambrogio, un grande cantiere con il quale realizzò fra il 1441 e il ’46 i 500 metri quadrati di pitture che rivestono le pareti della Cappella di Teodolinda, 45 scene disposte su 5 registri e popolate da 800 volti.
L’intervento di restauro è stato di una complessità estrema per le 15 mani cui il restauro ha dovuto adattarsi, per l’estensione del ciclo, per i cambiamenti di stile dovuti ai tempi di realizzazione (il registro in alto è anteriore di sei anni rispetto a quello in basso), per lo stato di conservazione generalmente pessimo ma non uniforme, che ha presentato la necessità di equilibrare le varie parti, per la raffinatezza e la plasticità della superficie pittorica, ottenuta con vari materiali che hanno richiesto modalità di restauro differenti, e infine per la tecnica di realizzazione adottata al fine di ottenere una maggiore esuberanza cromatica, non a fresco bensì a secco con colori stemperati in leganti organici quali olio e uovo. «La scelta di utilizzare una tecnica così complessa è stata essa stessa motivo di estrema fragilità, spiega Anna Lucchini. Le lacche si sono frammentate, le pennellate troppo corpose si sono sfogliate e all’invecchiamento naturale si sono sommati il nerofumo delle candele e i danni da umidità. Durante la guerra le pareti vennero protette con sacchi di sabbia, rimossi i quali ci si trovò di fronte a una coltre di solfati. Paradossalmente però i problemi più gravi sono stati causati dai tanti restauri finalizzati a conservare quest’opera unica che era stata risparmiata dalla ristrutturazione settecentesca del Duomo». La Cattedrale venne edificata nel 1300 sul luogo della chiesa palatina fondata da Teodolinda (570 ca - 627/628); nel 1308 il sarcofago della regina dei Longobardi venne collocato nella cappella a sinistra del presbiterio, che oltre un secolo dopo avrebbe accolto le Storie della regina sulle pareti e, nel tardo Ottocento, l’altare neogotico in cui è conservata la Corona ferrea.
Continua Anna Lucchini: «Il primo danno a queste straordinarie scene di vita cortese risale al 1714 ed è documentato dal cronista Giuseppe Maurizio Campini: “Giovanni Valentino napoletano tolse tutto il bello e il prezioso”. Poi si susseguirono altri interventi tra i quali quello ottocentesco, che rifece la pastiglia dorata della volta affrescata da Antonio da Monteregale un ventennio prima che le pareti vedessero all’opera gli Zavattari, e quello degli anni Sessanta, che con l’uso di cemento liquido e paraloid causò distacchi dell’intonaco dalla muratura e decoesione del film pittorico dal supporto. Il cemento ha rappresentato un grosso problema, eliminandolo in modo meccanico si rischiava di far cadere la pittura per cui abbiamo usato gli ultrasuoni, quelli che usano i dentisti per la detartrasi. Abbiamo fatto anche sperimentazione utilizzando dei batteri per eliminare nitrati e solfati». I posteri assolveranno Anna Lucchini? «Credo di sì. Il mio intervento è totalmente reversibile. Per i ritocchi abbiamo usato gli acquerelli, tutto può essere cancellato con un colpo di spugna. La mappatura fotogrammetrica è stata tradotta in 800 grafici in cui le restauratrici hanno evidenziato tutte le informazioni relative a tecnica pittorica, restauri pregressi, analisi diagnostiche e metodo di intervento adottato; 30mila fotografie documentano inoltre ogni fase del lavoro: è un cantiere studio che ha prodotto un’immensa banca dati». Anche il cantiere degli Zavattari non ha più segreti grazie al restauro: l’intonaco veniva applicato secondo le giornate tipiche del vero affresco, i pittori usavano tutti gli stessi colori e gli stessi patroni, in alcuni casi il disegno veniva trasportato sull’intonaco con la tecnica dello spolvero, in altri casi il foglio veniva applicato alla parete e le linee del disegno ricalcate, in altri ancora i pittori utilizzavano sagome e ripassavano il contorno con il pennello o di rado disegnavano direttamente sull’intonaco con il carboncino.
Il restauro, del costo di 2,8 milioni di euro, è stato realizzato con i contributi di World Monuments Fund, Marignoli Foundation, Regione Lombardia e Fondazione Cariplo (la Osram ha predisposto l’illuminazione). Oltre che alle otto restauratrici le Storie di Teodolinda devono dire grazie a una nona donna, Titti Gaiani della Fondazione Gaiani, che ha promosso il recupero del ciclo e coordina tutti i partner del restauro.

da: Il Giornale dell'Arte, n. 349, gennaio 2015

domenica 25 gennaio 2015

Quel genio di Bramante arrivò in Lombardia

di Marco Bona Castellotti

La regolata mescolanza delle opere esposte nella mostra di Bramante a Brera e di quelle abitualmente residenti in pinacoteca, s’incrina quando nel percorso si staglia il candido colosso di Napoleone I ignudo, intrusione molto più traumatica di un normale pugno nello stomaco. A fronte del problema della mancanza di spazi espositivi nei grandi musei italiani - problema di cui i curatori della rassegna su Bramante sono consapevoli - va riconosciuto che nessun altra istituzione al mondo avrebbe potuto aspirare di celebrare, a cinque secoli dalla morte, con pari dovizia di testi figurativi, Bramante pittore. È infatti nella pinacoteca milanese che si conserva il maggior numero di dipinti dell’artista marchigiano, autografi o realizzati con la collaborazione di aiuti.
La mostra si articola in cinque sezioni. La prima attesta la formazione avvenuta a Urbino e l’approdo di Bramante, nel 1477, a Bergamo, dove lavora alla decorazione del palazzo del Podestà, oggi in gran parte perduta. Il lacerto meglio conservato, e certamente di mano sua, raffigura Chilone, uno dei sette Savi dell’antichità, «origine e radice della sapienza morale», che balza all’occhio dell’osservatore con una monumentalità pienamente rinascimentale e sino a quel momento ignota alla pittura lombarda.
Il secondo capitolo s’irradia dall’epicentro dell’incisione Prevedari, così chiamata dal nome dell’orafo che nel 1481 la eseguì a bulino, prendendo spunto da un’invenzione bramantesca che ebbe immediato seguito. Se ne conoscono due soli esemplari, ma, data la diffusione, la tiratura doveva essere stata abbastanza alta.
La stampa esercitò un’indubbia influenza su artisti di diversa specializzazione, che ne colsero i valori decorativi e prospettici, visibili per esempio nel colonnato e nell’oculo posto entro una lunetta, dove è incastonato un mezzo busto visto da tergo. Entrambi i dettagli ricompaiono, praticamente come fossero citati, in un bel rilievo marmoreo dei Musei civici di Pavia.
La lezione impartita da Bramante in Lombardia fu d’ordine specialmente architettonico, ma si estese anche al campo della scultura; lo constatiamo nel frammento di marmo di Giovanni Antonio Amadeo, che rappresenta il particolare di una scena sacra, forse di una Natività.
Sezione compatta e “indigena” è quella degli affreschi degli Uomini d’arme, conservati, sino agli inizi del Novecento, nella dimora di Gaspare Ambrogio Visconti, che sorgeva nei pressi della basilica di Sant’Ambrogio; di lì furono trasferiti a Brera. Gli Uomini d’arme e i due filosofi Eraclito e Democrito, personificazioni degli umori opposti del pianto e del riso, dovevano produrre un «effetto teatrale, aumentato, per contrasto, dal complesso apparato architettonico illusorio» . Alle espressioni variamente atteggiate degli Uomini d’arme, si contrappongono certe testone coeve in terracotta di produzione lombarda. Se ne espone una, la Testa di “barone”, di un ignoto plasticatore attivo negli anni Ottanta del Quattrocento che ha enfatizzate il collo taurino, le mascelle squadrate, le ciocche dei capelli ben spazzolati del barone, fiero come un gerarca di provincia. Il carattere che qualifica questa terracotta è un dichiarato (o preteso) ritorno all’ antico, tradotto in un realismo rurale al limite del grottesco.
Quarto capitolo: cosa accadde a Milano «intorno al Cristo alla colonna» , dipinto celeberrimo sulla cui autografia - a quanto si dice - «il dibattito è ancora aperto». A contendere la paternità bramantesca di questa tavola, già nell’abbazia di Chiaravalle, sarebbe Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, allievo di Bramante e autore del Cristo oggi a Madrid, interpretato come risorto.
Per inciso, domando sulla base di quali ragioni teologiche il risorto - ammesso che qui Cristo sia veramente tale - venga raffigurato afflitto e con gli occhi cerchiati di pianto. Entrambi i quadri, il Cristo alla colonna di Bramante e Cristo passo-risorto di Bramantino, hanno posto interrogativi iconologici, alimentati anche dalle singolari aperture di paesaggio nello sfondo. Accanto al Cristo alla colonna di Brera troviamo un’incisione mantegnesca e il superbo disegno con San Cristoforo di Copenaghen che alcuni esegeti ancora esitano ad attribuire a Bramante. Che aspettano?
La quinta sezione apre al contesto lombardo e alle ripercussioni dei modelli bramanteschi sugli artisti contemporanei, qui testimoniate dalla Madonna in trono di Butinone, di collezione privata, e da due tavole di Ambrogio Bergognone della raccolta Borromeo, opere tutte elevatissime. Chiude l’interessante mostra Bramantino, con la Crocifissione e l’affresco della Pietà, menzionato da Vasari, d’impronta palesemente bramantesca.

da: Il Sole 24 Ore, domenica 25 gennaio 2015, p. 36